Caduta tendenziale del saggio di profitto
Questo terzo post sviluppa l'argomento del titolo assemblando alcune delle cose che ho trovato più interessanti in rete.
Rimane la questione di quali indicazioni trarre per il futuro ( e per il presente), trattando la questione economia e mercato nell'ambito di ciò che questa significa in termini di società, organizzazione,relazioni tra gli individui, sistema di valori e quant'altro è parte della nostra vita.
A maggior ragione oggi in assenza di una bussola (non condizionata e tarata su interessi secolari) che orienti al meglio le scelte.
Può essere questo un compito per gli economisti? Se così fosse si trasformerebbero in scienziati sociali ed anche a loro toccherebbe scendere con i piedi sulla terra.
Definizione
La caduta tendenziale del saggio di profitto è una formula dell'analisi economica marxiana.
Con caduta tendenziale del saggio di profitto Karl Marx ne Il Capitale identificò quel fenomeno secondo cui l'aumento progressivo degli investimenti sui macchinari a scapito degli investimenti sui salari avrebbe prodotto come risultato tendenziale del processo produttivo un saggio di profitto sempre minore.
Marx giunse a questa conclusione sulla base della teoria del valore: essendo il capitale sotto forma di salari (capitale variabile) ad essere l'unica fonte di plusvalore, l’aumento della composizione organica del capitale riferita agli investimenti sulle macchine e sul continuo aggiornamento tecnologico (capitale costante) avrebbe dato come risultato del processo produttivo dei profitti progressivamente decrescenti in proporzione agli investimenti complessivi.(1)
Gli economisti classici
Già Smith s'era accorto della caduta tendenziale del saggio del profitto, ma l'aveva attribuita unicamente al fattore della concorrenza, nel senso che con il procedere del processo di accumulazione del capitale si sarebbero esauriti i campi di investimento profittevoli e l’accresciuta concorrenza tra i capitali avrebbe fatto diminuire progressivamente il saggio di profitto
Ricardo gli aveva obiettato che la concorrenza poteva al massimo ridurre i profitti ad un livello medio nelle diverse branche d'industria, livellandone il saggio, ma non poteva abbassarlo in maniera tendenziale, altrimenti la capacità produttiva ad un certo punto si sarebbe ridotta a zero, visto che la concorrenza era inevitabile. E poi con l’aumento dei redditi aumenta la domanda (sia di beni di consumo che di mezzi di produzione), per cui anche i profitti devono per forza tornare a salire. Se non ci riescono è perché il problema va cercato altrove.
Ricardo pensò d'averlo trovato nel fatto che, secondo lui, con l'aumento della produzione aumenta anche la popolazione, la quale per essere sfamata necessita di maggiori investimenti nell'agricoltura, ma siccome l'agricoltura rende meno dell'industria (in quanto vi è scarsità di terreni fertili da poter mettere a coltivazione), anche gli investimenti sono minori, sicché i prezzi agricoli (in primis quelli del grano) vengono tenuti alti dai proprietari fondiari. Questo ha un'incidenza sui salari, che non possono scendere al di sotto delle capacità riproduttive della manodopera industriale.
La soluzione secondo Ricardo stava nel penalizzare le rendite fondiarie relative al grano, favorendo di quest'ultimo l'importazione dall'estero, a prezzi molto più contenuti, e quindi abolendo i dazi che proteggevano la produzione nazionale.
Marx interviene in questo dibattito virtuale precisando che la concorrenza non potrebbe abbassare il saggio medio del profitto in tutte le branche d'industria, se questa legge non fosse anteriore alla stessa concorrenza. (2)
Il ruolo della moneta, del credito e della finanza
Per gli economisti che modernamente si chiamano “monetaristi”, ovvero che sostengono la teoria quantitativa della moneta[14], i fenomeni della circolazione monetaria spiegano tutto il resto: defluisce l’oro e causa la crisi anziché viceversa, aumenta l’offerta di moneta e c’è inflazione anziché viceversa. Se ci si pensa, questa impostazione è naturale nel senso di connaturata allo spirito reificato del borghese. Poiché appare alla coscienza umana un deflusso di moneta in concomitanza con una riduzione dell’attività economica, questa è causata dalla moneta, la moneta è una potenza autonoma nelle vicende umane. Questa glorificazione del denaro, che diviene una divinità che interviene nelle vicende dell’uomo con la stessa importanza e imprevedibilità di un dio olimpico, non è che il riflesso della funzione storica del capitale: la centralizzazione delle risorse sociali a fini di sviluppo delle forze produttive: “Accumulate, accumulate! Questa è la legge e questo dicono i profeti”. Che cosa rappresenta questa teoria? Essa fornisce al denaro un ruolo indipendente, originario. Le variazioni della quantità di denaro circolante producono i cambiamenti nella ricchezza di una nazione. Il denaro non è più un equivalente, ma sono le merci a dipendere dal suo valore. Questa teoria è dunque l’espressione massima del feticismo delle merci, della reificazione cui sottostà la mente dell’intellettuale borghese. Nel processo di scambio le merci sono solo quantità di denaro. Qui si fa un altro passo: ciò che le merci sono dipende dal denaro. Non a caso tra i primi a sviluppare questa teoria vi fu il vescovo Berkeley, fondatore dell’idealismo soggettivo. Idealista in filosofia, monetarista in economia. In questa visione il denaro è un rappresentante ideale, solo un nome e dunque può idealmente anche essere eliminato per far posto allo scambio diretto di merci. Quello che questi signori dimenticano è che nel capitalismo non circolano valori d’uso ma di scambio. Senza denaro si perderebbe la connessione tra i produttori, il carattere mediatamente sociale del lavoro. È il denaro che ricompone la divisione del lavoro e permette così al mercato di far circolare non solo prodotti, ma quote di lavoro socialmente necessario. La funzione del denaro subisce un capovolgimento nella testa dell’intellettuale borghese, divenendo insieme arbitro delle vicende umane e un futile simbolo. Occorre rovesciare la prospettiva per comprendere la sua vera funzione. Come dice Marx “i prezzi non sono quindi alti o bassi perché circola più o meno denaro, bensì circola più o meno denaro perché i prezzi sono alti o bassi”[15]. Il denaro, quando “i prezzi sono bassi”, ovvero c’è crisi economica, si ritrae dalla circolazione, viene utilizzato in altro modo (all’epoca di Marx veniva tesoreggiato come oro, oggi finisce come capitale fittizio in qualche segmento dei mercati finanziari). Per questo gli alti e bassi della speculazione sono intrinsecamente connessi all’andamento della produzione reale. Questa connessione è totalmente persa dalla economia borghese e non a caso. Al capitalista non interessa la specifica forma e composizione del suo capitale, ma solo la sua grandezza e si attende una identica remunerazione per pari quantità di capitale, a prescindere dal settore in cui vengono investiti i denari. Che si investa per aprire una fabbrica, acquistare titoli in borsa, comprare un immobile, ci si attende un’uguale remunerazione. Il profitto, l’interesse, la rendita sono la stessa cosa. Non ragionava così l’industriale dei tempi di Ricardo, quando la borghesia considerava suoi nemici giurati i rentiers, i banchieri, il re, il prete e tutti gli altri che osavano pretendere una quota dei suoi profitti solo perché le terre erano scarse o perché dovevano mantenere la corte. Non a caso nei classici (soprattutto Smith e Ricardo), la distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo è rigorosa. Ma la borghesia della fase imperialista è una cosa sola con i rentiers, i banchieri, lo Stato. In un certo senso tutti i capitalisti sono rentiers al giorno d’oggi. Soprattutto i grandi capitalisti, che lasciano spesso la cura delle proprie aziende a manager ben pagati, ritornando alla vecchia idea della Roma antica che l’ozio sia la virtù suprema. Alla teoria borghese, che vede l’interesse come la remunerazione di una parte del capitale al pari del profitto, Marx obietta che il saggio d’interesse è un fenomeno puramente monetario, connesso con la domanda e l’offerta di capitale monetario. Esso è una deduzione e non una componente dei profitti, come le tasse. A sua volta, domanda e offerta di capitale monetario dipenderanno dal ciclo. Le variazioni del saggio d’interesse dipenderanno dall’andamento dell’economia. Infatti, all’apice del boom, la speculazione è frenetica, e innesca la sovraccumulazione. La concorrenza tra i banchieri rende convenienti progetti sempre meno redditizi. La speculazione, nella misura in cui si rivolge a nuovi settori, finanzia una diminuzione della composizione organica del capitale, perché nei nuovi settori la concentrazione del capitale è minore, i profitti così sono maggiori e possono ripagare interessi più elevati. Quando la speculazione comincia a dare segni di cedimento e i valori mobiliari cominciano a perdere terreno, si innesca una spirale deflazionistica che porta al crollo del saggio del profitto, della domanda, dell’occupazione. Le banche non prestano più, la borsa crolla. Che cos’è dunque una crisi finanziaria se non l’esito dello sviluppo di un nuovo settore? Gli economisti ovviamente, finita la sbornia del crollo di borsa, osserveranno saggiamente che se lo Stato e le banche centrali fossero riuscite a impedire un “eccessivo” afflusso di capitale, questi settori avrebbero potuto crescere in modo equilibrato. Ma “se” ciò accadesse verrebbe meno l’anarchia della produzione, il capitalismo stesso. Non si può impedire la concorrenza, non si può impedire al capitale di muoversi verso settori a più alta remunerazione. L’enorme afflusso di denaro, qualunque forma tecnica assuma, sviluppa una bolla speculativa che attrae nuovo denaro. Alla fine, dopo mesi o anni, gli investimenti ridurranno il saggio di profitto; ciò segnalerà che la concorrenza ha svolto il suo ruolo necessario di imporre la legge dell’uniformità del saggio di profitto, ma a che prezzo! La speculazione, ovvero il finanziamento di un settore al di fuori di ogni “ragionevole aspettativa” gioca un ruolo necessario nel capitalismo, permettendo al capitale di muoversi tra i settori. Certamente, con il senno di poi è facile accorgersi dell’assurdità di certe previsioni. Soprattutto per chi ha fatto quelle sbagliate. Il capitalismo non può esistere senza rivoluzionare continuamente le forze produttive, sottolineava Marx. Questa trasformazione incessante avviene necessariamente a ondate di crescita impetuosa di nuovi settori e di riconduzione a unità dei mille capitali. La sproporzione è dunque inevitabile, perché, come scrisse Carli, “se lo sviluppo è rapido non è bilanciato; se è bilanciato, non è rapido”. Gli esempi di “pazzia delle folle” sono antiche quanto il capitalismo stesso. Dopo ogni episodio i capitalisti si ripetono che non cadranno più nell’errore e che saranno più equilibrati la prossima volta. Come se fosse la loro opinione soggettiva a decidere dell’economia. Al ciclo successivo, quando la speculazione è al suo apice, li sentiamo sottolineare la diversità di questo ciclo e il fatto che “tutti si stanno gettando a capofitto in questo nuovo settore e dunque...”. Ogni episodio del genere, dalla Tulipanomania olandese del XVII secolo alla bolla delle “dot.com” del 2000, è noiosamente simile al precedente. Un brano tratto da un processo speculativo del 1720 descrive perfettamente ogni episodio del genere:
“Partirono altri progetti, del tipo più strano…nascevano ovunque innumerevoli compagnie per azioni…alcune di esse durarono una settimana o due, e non se ne sentì più parlare…C’erano quasi cento diversi progetti, uno più dispendioso e campato in aria dell’altro…Alcuni di questi progetti erano abbastanza plausibili e, se non fossero stati intrapresi in un momento in cui l’opinione pubblica era così sovraeccitata, si sarebbe potuto portarli avanti con vantaggio di tutti gli interessati…Uno di questi fu un progetto relativo a una ruota in moto perpetuo…ma la più assurda e ridicola di tutte, e che mostrava più efficacemente di qualsiasi altra la completa follia della gente, era una compagnia costituita da uno sconosciuto avventuriero, chiamata una “compagnia che si propone di portare avanti un’impresa altamente conveniente, ma che nessuno sa cosa sia”.”[16]
Appunto, come sul Nasdaq fino a ieri.
Il credito e la speculazione, in quanto ampliano enormemente il raggio d’azione del capitale, consentono alle sue leggi di operare con maggior forza e regolarità. Consentono anche, in alcune circostanze, di attenuare gli effetti di queste leggi. In nessun modo possono sbarazzarsene; come osservò Marx, “le leggi di natura non possono mai essere annullate”. Storicamente, il capitalista nasce in contrapposizione al banchiere. Nell’epoca imperialista le due figure si fondono. La classe capitalista intera diviene una classe di speculatori, senza alcun legame necessario con la produzione. Ne deriva un’ideologia alienata in cui la produzione non è più la base del profitto, come negli economisti classici, ma un’inutile perdita di tempo. Il peso della finanza e del capitale fittizio crescono inesorabilmente. La massa di capitale accumulato è tale, la sua concentrazione così elevata, che i mercati finanziari sono ormai enormemente più grandi dell’economia reale. È difficile sommare il loro valore, data la complessità degli strumenti finanziari moderni e il loro collegamento funzionale. Ad ogni modo parliamo di qualcosa come venti, trenta volte il Pil mondiale, forse cento. E la crescita avviene a ritmi forsennati. Tutto ciò che riguarda la moneta è ormai fuori scala. La moneta stessa, in primo luogo. Ancora negli anni ’90 la quantità di moneta dei paesi più avanzati si aggirava fra il 65 e il 70% del Pil. Ora supera l’80%. L’incremento della massa monetaria degli ultimi 5 anni è stato maggiore che nei precedenti venti. Il credito è fuori controllo. Quello degli Stati, delle famiglie, delle imprese. Infine, la finanza nel suo complesso è fuori controllo, con oltre il 95% delle transazioni che avvengono sui mercati mondiali aventi natura finanziaria e non più reale. Che cos’è la finanziarizzazione dell’economia se non l’estrema forma di concentrazione del capitale e la dimostrazione più palese del suo parassitismo?(3)
La "ridondanza" e la "mancanza di significato" del valore in un sistema simultaneo
Marx argomentò che il saggio di profitto tende a cadere quando la produttività aumenta e a causa di tale aumento di produttività [1]. I teorici simultaneisti hanno tentato di provare che questo non può essere il caso. Essi sono d’accordo che il saggio di profitto può cadere, ma non perché aumenta la produttività. In effetti, se tutto è valutato simultaneamente, una produttività crescente tenderà necessariamente a aumentare il saggio di profitto, non ad abbassarlo. Come si è visto sopra, se aumenti di produttività causano un aumento della produzione del grano da 11 quintali a 12 quintali, a 13 quintali per ogni 10 quintali di grano investiti, questo " saggio di profitto materiale" aumenta necessariamente dal 10% al 20% al 30%.
Tuttavia, non appena riconosciamo che un aumento della produttività tende a deprimere i prezzi, la legge di Marx sembra del tutto sensata. Spinte a cercare profitti sempre più alti, le imprese introducono innovazioni sempre più produttive e labour saving. Da una parte gli aumenti di produttività aumentano la produzione fisica in relazione agli inputs fisici. È questo l’effetto su qui si focalizza il simultaneismo.
D’altra parte però c’è anche un effetto contrario che il simultaneismo ignora: questi stessi aumenti di produttività tendono a causare una caduta nel tempo dei valori e dei prezzi. Conseguentemente, il saggio di profitto reale (in valore o prezzo) tenderà a cadere in relazione al " saggio di profitto materiale" dei teorici del simultaneismo. È così possibile che il saggio di profitto reale diminuisca continuamente nel tempo sebbene il " saggio di profitto materiale" salga continuamente (si veda, e.g., Freeman e Kliman 2000).
Senza informazioni ulteriori, non è possibile dire di più sull’andamento del tasso di profitto nel tempo. Il suo percorso dipende da come, e con che velocità, cambiano la tecnologia, i prezzi, i salari, e altri fattori. Ma quanto detto dovrebbe essere sufficiente per spiegare come aumenti di produttività possano causare una caduta del saggio di profitto e quindi per spiegare cosa ci sia di erroneo con i tentativi del simultaneismo nel dimostrare che tale caduta è impossibile.
Questo punto è molto importante, perché i critici di Marx hanno tentato di respingere le sue teorie della caduta del saggio di profitto e della crisi economica senza neanche esaminare l’evidenza empirica. Come John Roemer (1981:113), un ’Marxista Analitico’ critico di Marx, ha notato, perché esaminare l’evidenza empirica se la teoria Marxista della caduta del saggio di profitto non può essere giusta?
La dimostrazione del TSSI che la teoria di Marx potrebbe essere valida dimostra allo stesso tempo che questa teoria merita di essere esaminata di nuovo, senza pregiudizi e sulla base dell’evidenza. I marxisti e non-marxisti che escludono la teoria di Marx dal loro insegnamento e dalle loro riviste non eliminano errori dalla scienza ma fanno opera di censura.(4)
L'eclissi del capitalismo:di Cristiano Martorella
La legge della caduta tendenziale del saggio di profitto è la condanna per esaurimento del capitalismo. Infatti l'espansione e l'aumento del capitale comporta la diminuzione del rendimento di un investimento. Poiché il capitalismo ricerca un investimento che crei profitto, questa tendenza si rivela fatale. L'investimento non è possibile se non è vantaggioso. Il capitalismo crea le condizioni perché ciò, paradossalmente, non avvenga. Gli investimenti sono sempre meno redditizi. Ovviamente il capitalismo non è entrato in crisi grazie ai fattori antagonisti alla caduta del saggio di profitto:
- ritmi di lavoro più veloci e maggiore efficienza;
- diminuzione dei costi del lavoro;
- diminuzione dei costi dei macchinari e delle materie prime;
- utilizzo della manodopera in modo massiccio;
- commercio vantaggioso con l'estero.
Grazie alla globalizzazione e alla tecnologia sono diminuiti i costi di produzione e i costi delle materie prime. Eppure è stata la stessa globalizzazione ad esaurire gli effetti positivi dei fattori antagonisti al calo del saggio di profitto. La globalizzazione ha eliminato la diversità e ciò ha comportato il crollo dei meccanismi alla base dello scambio utilitario (il fondamento del libero mercato). La disposizione a vedere il mondo in un'unica maniera ha inaridito le capacità intellettuali e l'indagine scientifica. Gli scienziati sono stati asserviti alle esigenze aziendali e hanno abbandonato la ricerca pura e le invenzioni alternative. I fattori antagonisti al calo del saggio di profitto sono drasticamente indeboliti. Dunque trarre profitto tramite il lavoro e la produzione è nell'economia contemporanea più difficile.
Tuttavia è la seconda motivazione dell'eclissi del capitalismo a spiegarci come sia possibile ancora il profitto. Il prezzo non è collegato più al valore. Questa scoperta è merito dell'economista Oomae Ken'ichi(9). Ed è abbastanza facile constatarlo. Il prezzo di un software non dipende dal lavoro occorso per produrlo. Ciò contraddice la teoria di David Ricardo e Karl Marx sul lavoro e la moneta. Semplicemente si è passati da una società industriale fondata sul lavoro a una società dei servizi fondata sull'informazione. Però la scoperta di Oomae costituisce anche una condanna definitiva del capitalismo. Ora la formula D-M-D' non è valida perché il prezzo non è più stabilito da meccanismi automatici dettati dall'organizzazione del lavoro. Così la rotazione del capitale non è più la forza propulsiva del capitalismo.
L'eclissi del capitalismo non significa la fine dell'economia, piuttosto una diversa e nuova economia. Questa economia sfrutterà le conoscenze per l'acquisizione di vantaggi commerciali e finanziari. L'informazione diverrà merce e il prodotto più prezioso e ricercato.
I no global hanno in parte ragione e in parte torto. Sono nel giusto nel denunciare le storture del capitalismo che sono sintomi evidenti del suo declino. Ed è sensato ammettere che il mondo che conosciamo debba essere cambiato per rispondere alle esigenze dell'umanità. Sbagliano quando pretendono di trovare soluzioni politiche ai problemi economici scavalcando gli studi scientifici. Sbagliano ponendo la volontà al di sopra della conoscenza e ritenendo che il capitalismo sarà sconfitto dalla moltitudine ribelle. Il capitalismo è una forma economica e sarà abbattuto soltanto da un'altra forma economica. E in verità questo sta già accadendo. (5)
Prossimo capitolo : Definire l'economia
(1) wikipedia
(2) http://www.homolaicus.com
(3)http://utenti.lycos.it/xepel/teoria_della_crisi.htm
(4)Andrew Kliman estratto da : se è corretto non correggerlo
(5)Nipponico-Botsuraku
Commenti
http://crisieconflitti.blogspot.com/2006/01/caduta-tendenziale-del-saggio-di.html
Permetto Italo. permetto.
Lo leggo ed integro il post con gli elementi del tuo.
Luca, come tutte le teorie ed i modelli può essere confutata con dati empirici e , con gli stessi dati empirici, può essere dimostrato anche il contrario.
D'altra parte, sempre per rimanere alla "pretesa" dell'economia di essere una scienza, nel dipartimento di statistica dell'università di Torino (ad esempio) tanti pensano che di scienza esatta si può parlare della matematica ma non dell'economia e dei suoi modelli.
Più o meno lo stesso concetto che si ritrova in una dispensa dell'Università di Padova che tratta di "macroeconomia".
L'osservazione che fai sul concetto di valore mi sembra pertinente.Però, credo che il modo in cui Marx pone la questione dell'esproprio di "valore" prodotto dagli operai e dell'uso che il sistema "capitalista" fa dello stesso individua un elemento che è politico e sociale nello stesso tempo.Molto concretamente va alla questione della gestione delle leve economiche che determinano il progresso sociale di una comunità e di chi si deve fare carico di questo.
E questa che è, la teoria postmoderna/decostruzionista della scienza? :))
Che l'economia non sia una scienza nel senso della fisica non è davvero una grande scoperta: lo sanno tutti (e d'altronde nemmeno la matematica è una 'scienza' nel senso in cui lo è la fisica). Ma che sia una scienza, in cui tuttavia gli esperimenti in laboratorio non sono sempre possibili (non lo sono neppure in astrofisica o in meteorologia, d'altronde), ma la confutazione dei teoremi mediante la raccolta di dati, le regressioni ecc. è sempre possibile, questo è assolutamente fuor di dubbio.
Comunque è interessante che OGNI volta che qualcuno dice: le teorie di Marx (almeno alcune) sono scientifiche perché possono venire confutate, salta immediatamente fuori qualcun altro che dice: eh, ma forse che l'economia è una scienza? Sì, *è* una scienza, e attribuendo alla teoria di Marx (non tutta) lo statuto di teoria scientifica gli si sta facendo il massimo complimento a cui uno scienziato sociale può aspirare.
Mi riferivo alla tua nota sulla confutazione con dati della teoria del saggio di profitto.
Sulla questione scienza esatta vs. matematica la sintesi è più o meno questa:
"Nell'effettuare le sue analisi, e nel produrre le sue previsioni, il macroeconomista è paragonato ad un metereologo che, con strumenti sofisticati ma IMPERFETTI, offre le previsioni del tempo per i giorni a venire"
Ecco, per me la grandezza di Marx è proprio in questo, lui non si è limitato a fornire solo qualche previsione. Diciamo che, per me, da "scienziato sociale" aveva qualche ambizione in più e chiavi di lettura più interessanti.
Dopo di che tutto il mondo è paese (come dice Catalano) e la spocchia "cattedratica" è un vizio molto ben spalmato, anche nel mondo degli statistici.