I tempi ritornano e le cose non sono cambiate nel Chiapas
Nel 1993 il 31 di Dicembre ero a S.Cristobal in Messico. A mezzanotte qualcosa cambiò nella mia vita. Ho letto il giornale oggi. Parla del Messico e del Chiapas. Si sentono rumori di spari nelle strade. Mi sono ripreso quello che scrissi all'ora.
"14 ore e saremo a S.Cristobal.La notte che passo su questo vecchio pulman massacra il mio povero collo. Maurizio corteggia un'americana che viaggia con il suo fidanzato.La strada si inerpica tra le montagne.La nebbia ci viaggia attorno velocemente.Le cime appaiono e scompaiono all'improvviso.Fa freddo. Nel dormiveglia percepisco il passare dei nuovi passeggeri che il pulman raccoglie lungo la strada. I volti sono i soliti di sempre: indios.
L'arrivo risveglia le energie residue.L'albergo che decidiamo di occupare è in via degli insorti.
Chi cazzo è che bussa freneticamente alla porta?
Sono le 8 ed abbiamo dormito 4 ore.Dal profondo delle lenzuola emerge il volto del mio amico.Certo che si ha una bella aria da coglioni.In mutande apriamo la porta.Il padrone dell'albergo si precipita dentro per dirci di rimanere chiusi in camera perchè lì fuori c'è pericolo di morte.Il paese è circondato dalla guerriglia e lui non garantisce per la nostra incolumità. L'drenalina percorre velocemente le viscere. Pericolo di morte. E' un buon motivo per assaporare quella sensazione amarognola che si prova sempre in quei momenti. Incoscienza. O forse la percezione che questi sono anni scoloratissimi e di merda. La luce del sole mi costringe a camminare con gli occhi semichiusi, la macchina appesa al collo.
Vedo una specie di barricata all'angolo della piazza.Mobili spaccati ed accatastati.Sul fondo, verso il municipio, gruppi di persone. Gli occhi nerissimi dietro il passamontagna, sembrano attraversarmi tutto mentre provo a fotografare quello che vedo. Galleggio in un sogno ed ho voglia di urlare. Nel mezzo di un casino o una rivoluzione il 1° di gennaio!
Uomini piccoli, volti seminascosti da fazzoletti rossi, divise verdi oliva, fucili artigianali, qualche mitra. Donne,bambini assonnati, una comunità disperata e stanca. Osservano la nostra curiosità da dietro i loro fucili. In alto si sente il rumore di qualche aereo. Uomini piccoli,stanchi,con gli occhi semichiusi dal sonno, famiglie intere intorno ad un genitore con un fucile in mano. Uomini grandi e grossi, grassi delle loro vitamine e della giusta dieta per vivere il più a lungo possibile, camminano tra quegli uomini piccoli con cineprese all'ultima moda.
Gnomi nell'animo, colpiti da questa gente sfacciata, presente lì a festeggiare un anno con la rabbia e la critica sintetica di un fucile artigianale tra le mani. Assaporo la gioia del disordine generato da questa gente. Non aconosco ancora le ragioni della loro presenza, ma intuisco che non sono certamente quelle di chi accetta supino che qualcuno abbia già deciso l'ordine delle cose. Uomini piccoli mi riscaldano l'anima, sento una carica dirompente scuotermi dall'interno. Un caos magmatico di pensieri, sensazioni ed emozioni.
La riunione è sotto il porticato, viene distribuito un volantino con scritte le ragioni della lotta.Gente che muore di dissenteria, un territorio depredato per estrarre petrolio, alberi abbattuti per costruire pavimenti in qualche casa lontana, medicine che mancano, analfabetismo e mortalità infantile. Un urlo disperato e soffocato da sempre. I poveri hanno solo il diritto alla pietà, non al riscatto. devono saper accettare una violenza che si consuma tutti i giorni sulla loro pelle, per la semplice ragione che gli viene riconosciuto il diritto a spostarsi un pò più in là.E che non rompano i coglioni. Il problema è che un giorno questa gente arriva sul limite di uno spazio dove bisogna scegliere se saltare e morire o provare a vedere cosa accade se ci si rifiuta di farlo. Scelte individuali di violenza disperata, quella che ho provato in mille altri luoghi anche su di me.
Ricordo il Perù,il Marocco, ovunque qualcuno ha tentato di sottrarmi quello che mi apparteneva. Qui potrebbero fare lo stesso.
la dichiarazione di guerra viene letta e commentata da quelli che smbrano i rappresentanti di questa gente. Tra tutti uno in particolare, con il volto coperto dal passamontagna, una tuta nera ed il petto attraversato da due bandoliere piene di proiettili. Il subcomandante Marcos parla lentamente della sua gente, del tempo necessario ad organizzare tutto. Della volontà di morire lì in quello spazio piuttosto che nella selva di fame e di freddo. Conclude il suo intervento ed un spazio di silenzio, di gente impietrita e colpita dalle sue parole, viene interrotto da una selva di pugni alzati in aria, sombreri scagliati gioiosamente verso il cielo, fucili e pistole galleggianti tra decine di teste. W la rivoluzione.
La coscienza afferrata da una mano gigantesca, sembra rattrappirsi di fronte a fatti che sono la sintesi di discorsi sempre fatti in casa.Sono distrutto dentro, ripercorro il mio tempo passato, il presente e quello che mi aspetta a casa.Mi sento colpevole di non so quale crimine, forse l'indifferenza alla vita di questi ultimi anni. Ripenso alle cose viste ed ascoltate in salvador, a quello che si intuiva in Marocco, alle Land Rover del Polisario che un giorno ho visto correre sulle dune del deserto inseguite dai blindati.Ripenso a quel saluto che insieme a Franco facemmo ad un barcone pieno di laotiani armati sul fiume Mekong, ai loro pugni alzati con i mitra.Ripenso alle parole di quel venditore di tavolini in Birmania, il suo disprezzo verso un governo che ne opprimeva la voglia di sentirsi libero.Ho negli occhi le donne Karen di un villaggio Birmano, vuoto di uomini impegnati a difendere una striscia di terra.Ripenso alle parole di abdel ad Erfoud, alla sua disperazione nel sentirsi così lontano dal mio mondo e dai miei privilegi.Rivedo quella colonna di profughi al confine con l'Honduras. I villaggi Kmer tra Cambogia e Thailandia, quelli dei rifugiati guatemaltechi non lontani da qui. Rivedo i bambini di Londonderry, i blindati dell'esercito inglese,le strade buie di belfast, le bombe del Sinn Fein, i suoi martiri sui muri, la cocciutaggine di cattolici e protestanti, tutti attaccati allo stesso slogan: non arrendersi.Ripenso a casa mia, all'ordine perfetto di tutte le cose presenti, alla mancanza dello spazio sovrano presente in Perù, ai campi della Dea al confine con la Colombia.Bambini che mi rincorrevano disputandosi una moneta. al mio fastidio per un barbone.I pulitori di scarpe, la famiglia di campesinos che di notte ci chiese pochi soldi per andare a dormire. Il ritorno a casa carico di regali.E poi lo spazio, solo quello, i tanti momenti trascorsi nel silenzio con immagini di gente a piedi per le strade del mondo.Le tante schiene chine, armoniosamente allineate e composte nei movimenti, dei contadini nelle risaie in Cina.Mi viene in mente Giulio, l'ultimo incontro prima di strade divise e la sua partenza per il Nicaragua.Osservo i ricordi qui in questa piazza, in questo 1° di gennaio e per la prima volta da tanto tempo piango.
Le luci della piazza e quelle del palazzo vengono accese verso le 19.
dalle finestre e dai balconi del municipio i guerriglieri spuntano armati.
Viene montato un altoparlante. Marcos si rivolge a noi dal balcone centrale.
" Ci avete chiesto se abbiamo intenzione di uccidervi, se vogliamo tenervi prigionieri, avete paura per la vostra libertà. Nessuno di voi ci ha chiesto in verità cosa può fare per noi. Nessuno ci ha chiesto cosa può fare per aiutarci"
Quando di giorno ci allontaniamo, gli aerei iniziano i bombardamenti dei villaggi occupati dagli indios.Sentiamo il fragore delle bombe che devastano e straziano terra, uomini e gente disperata. In due giorni di combattimento i morti saranno 600. So che loro sono lì, e non si arrenderanno.
"14 ore e saremo a S.Cristobal.La notte che passo su questo vecchio pulman massacra il mio povero collo. Maurizio corteggia un'americana che viaggia con il suo fidanzato.La strada si inerpica tra le montagne.La nebbia ci viaggia attorno velocemente.Le cime appaiono e scompaiono all'improvviso.Fa freddo. Nel dormiveglia percepisco il passare dei nuovi passeggeri che il pulman raccoglie lungo la strada. I volti sono i soliti di sempre: indios.
L'arrivo risveglia le energie residue.L'albergo che decidiamo di occupare è in via degli insorti.
Chi cazzo è che bussa freneticamente alla porta?
Sono le 8 ed abbiamo dormito 4 ore.Dal profondo delle lenzuola emerge il volto del mio amico.Certo che si ha una bella aria da coglioni.In mutande apriamo la porta.Il padrone dell'albergo si precipita dentro per dirci di rimanere chiusi in camera perchè lì fuori c'è pericolo di morte.Il paese è circondato dalla guerriglia e lui non garantisce per la nostra incolumità. L'drenalina percorre velocemente le viscere. Pericolo di morte. E' un buon motivo per assaporare quella sensazione amarognola che si prova sempre in quei momenti. Incoscienza. O forse la percezione che questi sono anni scoloratissimi e di merda. La luce del sole mi costringe a camminare con gli occhi semichiusi, la macchina appesa al collo.
Vedo una specie di barricata all'angolo della piazza.Mobili spaccati ed accatastati.Sul fondo, verso il municipio, gruppi di persone. Gli occhi nerissimi dietro il passamontagna, sembrano attraversarmi tutto mentre provo a fotografare quello che vedo. Galleggio in un sogno ed ho voglia di urlare. Nel mezzo di un casino o una rivoluzione il 1° di gennaio!
Uomini piccoli, volti seminascosti da fazzoletti rossi, divise verdi oliva, fucili artigianali, qualche mitra. Donne,bambini assonnati, una comunità disperata e stanca. Osservano la nostra curiosità da dietro i loro fucili. In alto si sente il rumore di qualche aereo. Uomini piccoli,stanchi,con gli occhi semichiusi dal sonno, famiglie intere intorno ad un genitore con un fucile in mano. Uomini grandi e grossi, grassi delle loro vitamine e della giusta dieta per vivere il più a lungo possibile, camminano tra quegli uomini piccoli con cineprese all'ultima moda.
Gnomi nell'animo, colpiti da questa gente sfacciata, presente lì a festeggiare un anno con la rabbia e la critica sintetica di un fucile artigianale tra le mani. Assaporo la gioia del disordine generato da questa gente. Non aconosco ancora le ragioni della loro presenza, ma intuisco che non sono certamente quelle di chi accetta supino che qualcuno abbia già deciso l'ordine delle cose. Uomini piccoli mi riscaldano l'anima, sento una carica dirompente scuotermi dall'interno. Un caos magmatico di pensieri, sensazioni ed emozioni.
La riunione è sotto il porticato, viene distribuito un volantino con scritte le ragioni della lotta.Gente che muore di dissenteria, un territorio depredato per estrarre petrolio, alberi abbattuti per costruire pavimenti in qualche casa lontana, medicine che mancano, analfabetismo e mortalità infantile. Un urlo disperato e soffocato da sempre. I poveri hanno solo il diritto alla pietà, non al riscatto. devono saper accettare una violenza che si consuma tutti i giorni sulla loro pelle, per la semplice ragione che gli viene riconosciuto il diritto a spostarsi un pò più in là.E che non rompano i coglioni. Il problema è che un giorno questa gente arriva sul limite di uno spazio dove bisogna scegliere se saltare e morire o provare a vedere cosa accade se ci si rifiuta di farlo. Scelte individuali di violenza disperata, quella che ho provato in mille altri luoghi anche su di me.
Ricordo il Perù,il Marocco, ovunque qualcuno ha tentato di sottrarmi quello che mi apparteneva. Qui potrebbero fare lo stesso.
la dichiarazione di guerra viene letta e commentata da quelli che smbrano i rappresentanti di questa gente. Tra tutti uno in particolare, con il volto coperto dal passamontagna, una tuta nera ed il petto attraversato da due bandoliere piene di proiettili. Il subcomandante Marcos parla lentamente della sua gente, del tempo necessario ad organizzare tutto. Della volontà di morire lì in quello spazio piuttosto che nella selva di fame e di freddo. Conclude il suo intervento ed un spazio di silenzio, di gente impietrita e colpita dalle sue parole, viene interrotto da una selva di pugni alzati in aria, sombreri scagliati gioiosamente verso il cielo, fucili e pistole galleggianti tra decine di teste. W la rivoluzione.
La coscienza afferrata da una mano gigantesca, sembra rattrappirsi di fronte a fatti che sono la sintesi di discorsi sempre fatti in casa.Sono distrutto dentro, ripercorro il mio tempo passato, il presente e quello che mi aspetta a casa.Mi sento colpevole di non so quale crimine, forse l'indifferenza alla vita di questi ultimi anni. Ripenso alle cose viste ed ascoltate in salvador, a quello che si intuiva in Marocco, alle Land Rover del Polisario che un giorno ho visto correre sulle dune del deserto inseguite dai blindati.Ripenso a quel saluto che insieme a Franco facemmo ad un barcone pieno di laotiani armati sul fiume Mekong, ai loro pugni alzati con i mitra.Ripenso alle parole di quel venditore di tavolini in Birmania, il suo disprezzo verso un governo che ne opprimeva la voglia di sentirsi libero.Ho negli occhi le donne Karen di un villaggio Birmano, vuoto di uomini impegnati a difendere una striscia di terra.Ripenso alle parole di abdel ad Erfoud, alla sua disperazione nel sentirsi così lontano dal mio mondo e dai miei privilegi.Rivedo quella colonna di profughi al confine con l'Honduras. I villaggi Kmer tra Cambogia e Thailandia, quelli dei rifugiati guatemaltechi non lontani da qui. Rivedo i bambini di Londonderry, i blindati dell'esercito inglese,le strade buie di belfast, le bombe del Sinn Fein, i suoi martiri sui muri, la cocciutaggine di cattolici e protestanti, tutti attaccati allo stesso slogan: non arrendersi.Ripenso a casa mia, all'ordine perfetto di tutte le cose presenti, alla mancanza dello spazio sovrano presente in Perù, ai campi della Dea al confine con la Colombia.Bambini che mi rincorrevano disputandosi una moneta. al mio fastidio per un barbone.I pulitori di scarpe, la famiglia di campesinos che di notte ci chiese pochi soldi per andare a dormire. Il ritorno a casa carico di regali.E poi lo spazio, solo quello, i tanti momenti trascorsi nel silenzio con immagini di gente a piedi per le strade del mondo.Le tante schiene chine, armoniosamente allineate e composte nei movimenti, dei contadini nelle risaie in Cina.Mi viene in mente Giulio, l'ultimo incontro prima di strade divise e la sua partenza per il Nicaragua.Osservo i ricordi qui in questa piazza, in questo 1° di gennaio e per la prima volta da tanto tempo piango.
Le luci della piazza e quelle del palazzo vengono accese verso le 19.
dalle finestre e dai balconi del municipio i guerriglieri spuntano armati.
Viene montato un altoparlante. Marcos si rivolge a noi dal balcone centrale.
" Ci avete chiesto se abbiamo intenzione di uccidervi, se vogliamo tenervi prigionieri, avete paura per la vostra libertà. Nessuno di voi ci ha chiesto in verità cosa può fare per noi. Nessuno ci ha chiesto cosa può fare per aiutarci"
Quando di giorno ci allontaniamo, gli aerei iniziano i bombardamenti dei villaggi occupati dagli indios.Sentiamo il fragore delle bombe che devastano e straziano terra, uomini e gente disperata. In due giorni di combattimento i morti saranno 600. So che loro sono lì, e non si arrenderanno.
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