Radicalismo, uso della violenza e pacifismo
In questo periodo mi diletto nel leggere un discreto mattone (peso e sostanza) di tal W.Vollmann, intitolato Come un'onda che sale e che scende-pensieri su violenza,libertà e misure d'emergenza.
La questione che la lettura mi ha sollecitato è quella dell'uso della violenza come strumento per la soluzione di interessi contrapposti ed antagonisti.
Da un punto di vista "morale" la tendenza è quella di trattare l'argomento dell'uso della violenza con una negazione della sua legittimità, salvo rendere relativo questo giudizio in funzione di una serie di se e di ma che rimandano a quelle che vengono considerate le condizioni oggettive ed il contesto di riferimento.
Una analisi interessante è quella che fornisce l'autore del libro.
Cala la "filosofia" della non violenza di Gandhi in due contesti storici precisi:
1- il nazismo e lo sterminio degli ebrei
2- la lotta contro il colonialismo inglese
Una delle conclusioni, a cui giunge il ragionamento, è che una strategia di tipo gandiano non avrebbe avuto, contro il nazismo, gli stessi risultati raggiunti con la lotta per l'indipendenza dell'India.
Questo concetto parte dalla visione che Hitler aveva (all'epoca) del diverso modo in cui i due imperialismi (il suo e quello inglese) si ponevano nei confronti di chi li osteggiava.
Secondo Hitler "La primissima necessità, in un tipo di lotta fondato sull'uso della forza bruta, è e sarà sempre la persistenza.non appena la forza vacilla e si alterna alla tolleranza, la dottrina da reprimere non solo recupererà vieppiù vigore, bensì sarà in condizione di trarre nuovi vantaggi da ogni persecuzione,perchè quando l'ondata di pressione si attenua, lo sdegno per le sofferenze inflitte attira alla vecchia dottrina nuovi adepti...."
Secondo l'autore, uno dei segreti del successo di Gandhi risiede proprio nella diversa soglia di "determinazione" usata dagli inglesi nei confronti suoi e dei suoi seguaci.
In sostanza nel contesto indiano e con interlocutori di quel tipo, una strategia pacifista di massa ha avuto un senso ed ha portato a dei risultati. nei confronti di un "mostro" come quello nazista non avrebbe prodotto nulla.
Spostandoci ai giorni nostri devo confessare, senza ipocrisia, che per lungo tempo ho pensato che l'uso della violenza, come strumento di emancipazione e di lotta,fosse legittimo anche nel nostro paese.
Ho praticato una militanza politica dura, a Torino, senza sottrarmi nè a scontri di piazza nè ad azioni di militanza nei confronti di quelli che, all'epoca, identificavo come "nemici":i fascisti.
All'epoca in nessun modo sorse il dubbio che una strategia diversa potesse servire meglio gli obiettivi che ci prefiggevamo.
Oggi, qui ed in questo contesto, credo che una forma radicale di uso della non violenza offre maggiori opportunità rispetto ad una qualsiasi manifestazione di tipo contrario.
Quando penso ad un uso radicale, vedo le esperienze recenti di forme di lotta antagoniste come quelle degli operai di Melfi (corpi e mani alzate contro i manganelli della polizia), piuttosto che l'esperienza della Val di Susa.
Significa questo essere pacifisti?
Come singolo individuo penso di no. Io non sono un pacifista.Non credo che questo modello abbia un valore universale.
Nel 1992 (31 di Dicembre) ho assistito alla occupazione di S.Cristobal da parte degli zapatisti.Appena arrivati in paese, quelle persone, saccheggiarono la farmacia distribuendo le medicine agli indios.Nei giorni seguenti ci furono scontri cruenti con l'esercito messicano.I morti furono diverse centinaia.
In quella occasione l'intelligenza politica mischiò un uso della forza a manifestazioni di non violenza che garantirono (e garantiscono) al movimento uno spazio fisico (occupazione di un intero territorio-Selva la candona) ed uno mediatico internazionale oltre che la sopravvivenza.
Anni prima ho visitato paesi come il Guatemala ed il Salvador.I miei viaggi mi hanno portato a contatto con persone che, in quei luoghi, lottavano clandestinamente contro i rispettivi governi.
Dai discorsi, fatti sia con militanti comunisti che cattolici, mai è emerso il dubbio sulla legittimità dell'uso della violenza.
Il comune denominatore di quelle esperienze, oltre che la visibilità su un mondo in cui non esistono sfumature o vie di mezzo, è stato il verificare come quelle scelte erano sempre fondate sul reagire ad un potere che tendeva a conservare i privilegi di pochi con la forza e la brutalità.L'impressione che avevo, parlando con le classi "ricche", era identica a quella che ho avuto leggendo quel pensiero di Hitler. Una spietatezza non incline a considerare altri metodi, se non lo stermino fisico, di chi non accettava il proprio status.
(continua)
La questione che la lettura mi ha sollecitato è quella dell'uso della violenza come strumento per la soluzione di interessi contrapposti ed antagonisti.
Da un punto di vista "morale" la tendenza è quella di trattare l'argomento dell'uso della violenza con una negazione della sua legittimità, salvo rendere relativo questo giudizio in funzione di una serie di se e di ma che rimandano a quelle che vengono considerate le condizioni oggettive ed il contesto di riferimento.
Una analisi interessante è quella che fornisce l'autore del libro.
Cala la "filosofia" della non violenza di Gandhi in due contesti storici precisi:
1- il nazismo e lo sterminio degli ebrei
2- la lotta contro il colonialismo inglese
Una delle conclusioni, a cui giunge il ragionamento, è che una strategia di tipo gandiano non avrebbe avuto, contro il nazismo, gli stessi risultati raggiunti con la lotta per l'indipendenza dell'India.
Questo concetto parte dalla visione che Hitler aveva (all'epoca) del diverso modo in cui i due imperialismi (il suo e quello inglese) si ponevano nei confronti di chi li osteggiava.
Secondo Hitler "La primissima necessità, in un tipo di lotta fondato sull'uso della forza bruta, è e sarà sempre la persistenza.non appena la forza vacilla e si alterna alla tolleranza, la dottrina da reprimere non solo recupererà vieppiù vigore, bensì sarà in condizione di trarre nuovi vantaggi da ogni persecuzione,perchè quando l'ondata di pressione si attenua, lo sdegno per le sofferenze inflitte attira alla vecchia dottrina nuovi adepti...."
Secondo l'autore, uno dei segreti del successo di Gandhi risiede proprio nella diversa soglia di "determinazione" usata dagli inglesi nei confronti suoi e dei suoi seguaci.
In sostanza nel contesto indiano e con interlocutori di quel tipo, una strategia pacifista di massa ha avuto un senso ed ha portato a dei risultati. nei confronti di un "mostro" come quello nazista non avrebbe prodotto nulla.
Spostandoci ai giorni nostri devo confessare, senza ipocrisia, che per lungo tempo ho pensato che l'uso della violenza, come strumento di emancipazione e di lotta,fosse legittimo anche nel nostro paese.
Ho praticato una militanza politica dura, a Torino, senza sottrarmi nè a scontri di piazza nè ad azioni di militanza nei confronti di quelli che, all'epoca, identificavo come "nemici":i fascisti.
All'epoca in nessun modo sorse il dubbio che una strategia diversa potesse servire meglio gli obiettivi che ci prefiggevamo.
Oggi, qui ed in questo contesto, credo che una forma radicale di uso della non violenza offre maggiori opportunità rispetto ad una qualsiasi manifestazione di tipo contrario.
Quando penso ad un uso radicale, vedo le esperienze recenti di forme di lotta antagoniste come quelle degli operai di Melfi (corpi e mani alzate contro i manganelli della polizia), piuttosto che l'esperienza della Val di Susa.
Significa questo essere pacifisti?
Come singolo individuo penso di no. Io non sono un pacifista.Non credo che questo modello abbia un valore universale.
Nel 1992 (31 di Dicembre) ho assistito alla occupazione di S.Cristobal da parte degli zapatisti.Appena arrivati in paese, quelle persone, saccheggiarono la farmacia distribuendo le medicine agli indios.Nei giorni seguenti ci furono scontri cruenti con l'esercito messicano.I morti furono diverse centinaia.
In quella occasione l'intelligenza politica mischiò un uso della forza a manifestazioni di non violenza che garantirono (e garantiscono) al movimento uno spazio fisico (occupazione di un intero territorio-Selva la candona) ed uno mediatico internazionale oltre che la sopravvivenza.
Anni prima ho visitato paesi come il Guatemala ed il Salvador.I miei viaggi mi hanno portato a contatto con persone che, in quei luoghi, lottavano clandestinamente contro i rispettivi governi.
Dai discorsi, fatti sia con militanti comunisti che cattolici, mai è emerso il dubbio sulla legittimità dell'uso della violenza.
Il comune denominatore di quelle esperienze, oltre che la visibilità su un mondo in cui non esistono sfumature o vie di mezzo, è stato il verificare come quelle scelte erano sempre fondate sul reagire ad un potere che tendeva a conservare i privilegi di pochi con la forza e la brutalità.L'impressione che avevo, parlando con le classi "ricche", era identica a quella che ho avuto leggendo quel pensiero di Hitler. Una spietatezza non incline a considerare altri metodi, se non lo stermino fisico, di chi non accettava il proprio status.
(continua)
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