Rovesciare il tavolo
Due questioni, apparentemente lontane tra di loro, sono oggetto di dibattito da parte degli economisti e dei politici.
La prima fa riferimento alla libertà necessaria al capitale per poter realizzare meglio i suoi obiettivi e, di converso, produrre valore e ricchezza per la società nel suo insieme.
La seconda è legata al welfare e, per quanto ci riguarda, alle risorse da destinarci, al come distribuirle tra assistenza e pensioni.
L'orientamento prevalente è quello di far passare un'idea per la quale l'economia ha bisogno di pochi vincoli.Che questo è dato dai processi di globalizzazione in atto e che per poter competere e mantenere standard di vita adeguati bisogna :
-rendere ancora più flessibile il sistema di utilizzo del lavoro salariato
-spostare risorse da asset improduttivi, come le pensioni, al sistema economico che ha bisogno di un minor carico fiscale e di politiche mirate(e risorse economiche di sostegno).
In questa visione "liberal" si inseriscono due interventi distonici rispetto all'appiattimento generale.
Partiamo dal primo.
Il professor Paul Krugman insegna economia all'università di princeton.E' un fervente sostenitore del liberismo e della necessità di rendere globale il mercato.Senza nessun tipo di protezionismo.
recentemente in un suo articolo manifesta molti dubbi rispetto a questo suo modo di vedere le cose.Il titolo è di per sé esemplificativo "SE GLI SCAMBI AUMENTANO L'INGIUSTIZIA".
Il ragionamento parte da una preoccupazione che si manifestò tra gli anni 80 e 90:
-la globalizzazione avrebbe favorito l'aumento delle disuguaglianze di reddito.
La tesi contraria affermava che questo fenomeno sarebbe stato marginale fino ad annullarsi nel tempo.
A sostegno di questa ultima tesi, Krugman, affermava che una più alta specializzazione degli esportatori dei paesi in via di sviluppo avrebbe prodotto maggiori opportunità di reddito e maggiore ricchezza per quei paesi (e per i suoi lavoratori).
Nel 95 scriveva " Di pari passo con la loro crescita, il vantaggio comparato dei paesi di nuova industrializzazione può allontanarsi dalle produzioni a bassissima intensità di specializzazione".
rispetto a questa prospettiva, due sono gli elementi che hanno mutato lo scenario e che, all'opposto, hanno prodotto risultati inversi (aumento delle disuguaglianze):
1- la Cina
2- l'ulteriore frammentazione del processo produttivo
I dati e l'esempio che fornisce sono i seguenti:
- l'ingresso della Cina nel mercato globale ha significato un ulteriore abbassamento del parametro del costo del lavoro. Se nel 95 il costo orario delle 4 tigri asiatiche era il 25% del costo orario statunitense, oggi la Cina sposta questo parametro al 3%.
- il commercio crea nuove aree di alta intensità di produzione e bassa specializzazione anche per prodotti e servizi ad alta tecnologia e specializzazione.
Ad esempio la produzione di microprocessori prevede due fasi,la fase "fabs"(stampaggio dei circuiti su dischi di silicone) è sempre localizzata in paesi avanzati. le fasi di assemblaggio e prova son appannaggio di paesi meno avanzati.
Che impatto hanno questi assetti nella nostra società?
La prospettiva per chi è nella parte finale della catena (la maggior parte delle persone che lavorano), posto nel quale si esplicano attività a basso valore aggiunto, è quello di un confronto con una logica economica che vede nel costo della manodopera e nella intensità del suo sfruttamento l'unico parametro di riferimento. Le aziende non hanno una missione sociale nei confronti della comunità, il loro obiettivo è una crescita dei margini di profitto attraverso una compressione dei costi.
L'altro articolo l'ho copiato direttamente dal sito della repubblica.Tratta delle pensioni e cita una ricerca dell'economista Roberto Pizzuti e sfata alcuni "dogmi" dell'opinione prevalente sull'argomento.
La mia considerazione, nel merito,è legata alla relazione tra fiscalità generale ed assistenza e sistema pensionistico e contribuzione allo stesso da parte dei lavoratori.
Nell'assistenza rientrano anche, ad esempio, la cassa integrazione nei casi di ristrutturazione aziendale.
Perché di questo si debbano fare carico i pensionati ancora non lo ha spiegato nessuno. Perché non lo si debba fare pagare, quel costo, a quella classe d'individui che ne sono i maggiori beneficiari (industriali) è questioni di scelte di classe sociale e di forza di rappresentanza nel paese.
la prospettiva "sociale" con cui dovremo confrontarci è quello di un sistema che schiaccia verso il basso ampi strati della popolazione, che crea "concorrenza" tra i poveri perché è questo l'effetto di questo processo organizzativo.Che destina poco o nulla a chi da queste dinamiche risulterà schiacciato (pensionati, precari, lavoratori precari etc.).Che crea classi di privilegiati ed un sistema di valori e controllo coerente.
Costruire una politica altra, significa partire da questi scenari.Forse è il caso di pensare che quel tavolo, più che di riforme, ha bisogno di essere rovesciato.
DA LA REPUBBLICA
Sono i pensionati che finanziano il bilancio pubblico, e non viceversa. L’affermazione, decisamente controcorrente, è contenuta nel “Rapporto sullo Stato sociale 2007”, presentato oggi, 27 giugno, all’università di Roma La Sapienza. La tesi è sostanziata da una tabella a pagina 231 del Rapporto. Il saldo tra spesa e prestazioni è negativo per circa 50 miliardi di euro, ma 30 di questi sono dovuti a prestazioni assistenziali (quelle a fronte delle quali non ci sono contributi versati e dovrebbero dunque essere poste a carico della fiscalità generale); rimarrebbe un deficit di 20 miliardi, ma lo Stato ne incassa quasi 28 dalla normale tassazione sul reddito dei pensionati. Alla fine, dunque, il saldo risulta attivo per il bilancio pubblico, per quasi 7.300 miliardi.
Il Rapporto, curato come ogni anno dall’economista Felice Roberto Pizzuti e promosso dal Dipartimento di economia pubblica della Sapienza e dal Criss (Centro di ricerca interuniversitario sullo Stato sociale, presieduto da Maurizio Franzini), contesta a suon di cifre una serie di affermazioni considerate scontate nel dibattito economico-politico. Sul costo dell’abolizione dello “scalone” previdenziale, per esempio: negli attuali conteggi, osserva il Rapporto, non si considera che la prospettiva dello “scalone” ha già modificato i comportamenti, accelerando la “fuga” dal lavoro di chi ha potuto permetterselo, mentre molti sono comunque obbligati a rimanere il più possibile – a prescindere da qualsiasi norma – per procrastinare la riduzione del reddito che avranno andando in pensione. Se si rifanno i conti tenendo conto di questi fattori, il costo dell’abolizione – o della trasformazione dello scalone di tre anni in tre scalini da un anno – risulta assai ridotto.
Quanto alla famosa “gobba”, cioè l’aumento della spesa per pensioni previsto intorno al 2030, era stata calcolata stimando l’ingresso di 150.000 lavoratori stranieri l’anno, ma la media degli ultimi anni è stata un numero più che doppio: tutti lavoratori che verseranno contributi che non erano stati considerati, facendo così sparire la “gobba”.
La prima fa riferimento alla libertà necessaria al capitale per poter realizzare meglio i suoi obiettivi e, di converso, produrre valore e ricchezza per la società nel suo insieme.
La seconda è legata al welfare e, per quanto ci riguarda, alle risorse da destinarci, al come distribuirle tra assistenza e pensioni.
L'orientamento prevalente è quello di far passare un'idea per la quale l'economia ha bisogno di pochi vincoli.Che questo è dato dai processi di globalizzazione in atto e che per poter competere e mantenere standard di vita adeguati bisogna :
-rendere ancora più flessibile il sistema di utilizzo del lavoro salariato
-spostare risorse da asset improduttivi, come le pensioni, al sistema economico che ha bisogno di un minor carico fiscale e di politiche mirate(e risorse economiche di sostegno).
In questa visione "liberal" si inseriscono due interventi distonici rispetto all'appiattimento generale.
Partiamo dal primo.
Il professor Paul Krugman insegna economia all'università di princeton.E' un fervente sostenitore del liberismo e della necessità di rendere globale il mercato.Senza nessun tipo di protezionismo.
recentemente in un suo articolo manifesta molti dubbi rispetto a questo suo modo di vedere le cose.Il titolo è di per sé esemplificativo "SE GLI SCAMBI AUMENTANO L'INGIUSTIZIA".
Il ragionamento parte da una preoccupazione che si manifestò tra gli anni 80 e 90:
-la globalizzazione avrebbe favorito l'aumento delle disuguaglianze di reddito.
La tesi contraria affermava che questo fenomeno sarebbe stato marginale fino ad annullarsi nel tempo.
A sostegno di questa ultima tesi, Krugman, affermava che una più alta specializzazione degli esportatori dei paesi in via di sviluppo avrebbe prodotto maggiori opportunità di reddito e maggiore ricchezza per quei paesi (e per i suoi lavoratori).
Nel 95 scriveva " Di pari passo con la loro crescita, il vantaggio comparato dei paesi di nuova industrializzazione può allontanarsi dalle produzioni a bassissima intensità di specializzazione".
rispetto a questa prospettiva, due sono gli elementi che hanno mutato lo scenario e che, all'opposto, hanno prodotto risultati inversi (aumento delle disuguaglianze):
1- la Cina
2- l'ulteriore frammentazione del processo produttivo
I dati e l'esempio che fornisce sono i seguenti:
- l'ingresso della Cina nel mercato globale ha significato un ulteriore abbassamento del parametro del costo del lavoro. Se nel 95 il costo orario delle 4 tigri asiatiche era il 25% del costo orario statunitense, oggi la Cina sposta questo parametro al 3%.
- il commercio crea nuove aree di alta intensità di produzione e bassa specializzazione anche per prodotti e servizi ad alta tecnologia e specializzazione.
Ad esempio la produzione di microprocessori prevede due fasi,la fase "fabs"(stampaggio dei circuiti su dischi di silicone) è sempre localizzata in paesi avanzati. le fasi di assemblaggio e prova son appannaggio di paesi meno avanzati.
Che impatto hanno questi assetti nella nostra società?
La prospettiva per chi è nella parte finale della catena (la maggior parte delle persone che lavorano), posto nel quale si esplicano attività a basso valore aggiunto, è quello di un confronto con una logica economica che vede nel costo della manodopera e nella intensità del suo sfruttamento l'unico parametro di riferimento. Le aziende non hanno una missione sociale nei confronti della comunità, il loro obiettivo è una crescita dei margini di profitto attraverso una compressione dei costi.
L'altro articolo l'ho copiato direttamente dal sito della repubblica.Tratta delle pensioni e cita una ricerca dell'economista Roberto Pizzuti e sfata alcuni "dogmi" dell'opinione prevalente sull'argomento.
La mia considerazione, nel merito,è legata alla relazione tra fiscalità generale ed assistenza e sistema pensionistico e contribuzione allo stesso da parte dei lavoratori.
Nell'assistenza rientrano anche, ad esempio, la cassa integrazione nei casi di ristrutturazione aziendale.
Perché di questo si debbano fare carico i pensionati ancora non lo ha spiegato nessuno. Perché non lo si debba fare pagare, quel costo, a quella classe d'individui che ne sono i maggiori beneficiari (industriali) è questioni di scelte di classe sociale e di forza di rappresentanza nel paese.
la prospettiva "sociale" con cui dovremo confrontarci è quello di un sistema che schiaccia verso il basso ampi strati della popolazione, che crea "concorrenza" tra i poveri perché è questo l'effetto di questo processo organizzativo.Che destina poco o nulla a chi da queste dinamiche risulterà schiacciato (pensionati, precari, lavoratori precari etc.).Che crea classi di privilegiati ed un sistema di valori e controllo coerente.
Costruire una politica altra, significa partire da questi scenari.Forse è il caso di pensare che quel tavolo, più che di riforme, ha bisogno di essere rovesciato.
DA LA REPUBBLICA
Sono i pensionati che finanziano il bilancio pubblico, e non viceversa. L’affermazione, decisamente controcorrente, è contenuta nel “Rapporto sullo Stato sociale 2007”, presentato oggi, 27 giugno, all’università di Roma La Sapienza. La tesi è sostanziata da una tabella a pagina 231 del Rapporto. Il saldo tra spesa e prestazioni è negativo per circa 50 miliardi di euro, ma 30 di questi sono dovuti a prestazioni assistenziali (quelle a fronte delle quali non ci sono contributi versati e dovrebbero dunque essere poste a carico della fiscalità generale); rimarrebbe un deficit di 20 miliardi, ma lo Stato ne incassa quasi 28 dalla normale tassazione sul reddito dei pensionati. Alla fine, dunque, il saldo risulta attivo per il bilancio pubblico, per quasi 7.300 miliardi.
Il Rapporto, curato come ogni anno dall’economista Felice Roberto Pizzuti e promosso dal Dipartimento di economia pubblica della Sapienza e dal Criss (Centro di ricerca interuniversitario sullo Stato sociale, presieduto da Maurizio Franzini), contesta a suon di cifre una serie di affermazioni considerate scontate nel dibattito economico-politico. Sul costo dell’abolizione dello “scalone” previdenziale, per esempio: negli attuali conteggi, osserva il Rapporto, non si considera che la prospettiva dello “scalone” ha già modificato i comportamenti, accelerando la “fuga” dal lavoro di chi ha potuto permetterselo, mentre molti sono comunque obbligati a rimanere il più possibile – a prescindere da qualsiasi norma – per procrastinare la riduzione del reddito che avranno andando in pensione. Se si rifanno i conti tenendo conto di questi fattori, il costo dell’abolizione – o della trasformazione dello scalone di tre anni in tre scalini da un anno – risulta assai ridotto.
Quanto alla famosa “gobba”, cioè l’aumento della spesa per pensioni previsto intorno al 2030, era stata calcolata stimando l’ingresso di 150.000 lavoratori stranieri l’anno, ma la media degli ultimi anni è stata un numero più che doppio: tutti lavoratori che verseranno contributi che non erano stati considerati, facendo così sparire la “gobba”.
Commenti
Ciao!
Un amichevole saluto,
Carlo