Struttura produttiva e classi sociali



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Qual'è il cuore della struttura produttiva italiana e qual'è il taglio delle aziende nazionali? Il posizionamento nell'economia del terzo millennio? E la classe operaia che cosa è oggi?
Su questi argomenti sentiamo tutto ed il contrario di tutto.
E' un fatto che, a livello internazionale, si intensificano quei processi (in particolar modo nei settori strategici di dominio)di aggregazione che fanno della grande impresa il nodo centrale del modo in cui si organizza l'intera filiera dell'apparato produttivo.In questo scenario l'Italia evidenzia alcune arretratezze di carattere storico manifestando una realtà fatta da una nebulosa di piccole e medie aziende che fanno fatica a stare sul mercato e reggere la competizione a livello internazionale.

L'origine di questo elemento lo possiamo ritrovare nella evoluzione dell'apparato produttivo dal primo dopo guerra ad oggi.

Per avere un'idea della capacità produttiva del paese all'epoca in confronto a quella della Germania, possiamo fissarla a 10% rispetto ai tedeschi.
Gli investimenti americani, permisero alla RFT uno sviluppo economico rapidissimo. tanto per avere un'idea le quote di mercato tedesche nel 55/56 nella chimica organica a fronte del nostro 3,24% erano del 28,17%, negli strumenti di precisione rispettivamente del 36,77% contro il nostro 2,03%, macchine elettriche 19,14% contro il 1,69%.

E' indubbio che il capitale investito in Germania ebbe l'obiettivo di rimettere in moto un tessuto industriale già esistente a fronte di una realtà italiana in cui si dovette partire dal livello più basso: artigianato, piccola impresa ed agricoltura.
Questo sviluppo tardivo ha sicuramente determinato le condizioni per una polverizzazione dell'apparato produttivo ed un suo sviluppo piuttosto limitato.

La nostra lentezza e la struttura dei settori che compongono l'apparato produttivo italiano dipendono anche dalla divisione internazionale del lavoro che il capitale ha prodotto. E' evidente che la spinta al rinnovamento tecnologico ed alla crescita degli impianti (composizione tecnica ed organica del capitale) è ben diversa per chi produce scarpe, tessuti ed elettrodomestici e per chi opera in settore come strumenti di precisione, elettronica o acciai speciali.
Si può dire che l'industrializzazione del nostro paese è stata una "industrializzazione rachitica".Non è stata abbastanza prolungata nel tempo da permettere la costruzione di un tessuto industriale integrato, ma ha conservato una polarizzazione simile a 40 anni fa, con la grande industria concentrata a livelli europei e la piccola e la piccolissima estremamente polverizzata che fatica a coagularsi in medie imprese.
L'opinione he abbiamo è che questa situazione vada a collocarsi nella collocazione subalterna dell'economia italiana all'interno della divisione capitalista internazionale del lavoro.


In questo contesto le uniche aziende manifatturiere di un certo peso rimangono, Fiat, Pirelli ed il gruppo Finmeccanica.Se guardiamo alla capitalizzazione, cioè al valore di borsa delle aziende, ci sono solo 10 aziende italiane tra le prime 500 del mondo (classifica Forbes 2005). Di queste la maggior parte fa parte di aziende del settore finanziario (banche/assicurazioni), servizi (telefonia),energia.

Nelle prime 500 aziende per fatturato nel mondo, l'unica azienda manifatturiera di un certo peso rimane la Fiat.Da notare che le prime 10 aziende dell'elenco appartengono ai settori dell'automotive e del petrolio.

Le tabelle pubblicate dall'istat fotografano una situazione del tipo di azienda dal punto di vista del n° di addetti che è il seguente:

fatta base 100 delle aziende attive
  • Il 58,5 ha 1 addetto ed occupa il 15,2% dei lavoratori
  • il 36,5 ha da 2 a 9 addetti ed occupa il 31,7% dei lavoratori
  • il 3,2% ha da 10 a 19 addetti ed occupa l'11% dei lavoratori
  • il 1,3% ha da 20 a 49 addetti ed occupa il 9,7% dei lavoratori
  • lo 0,5% ha da 50 a 249 addetti ed occupa il 12,5% dei lavoratori
  • lo 0,1% ha più di 250 addetti ed occupa il 19,9% degli addetti
Per quanto riguarda il n° assoluto suddiviso per macro attività, questa è la situazione:

525 mila imprese sono industria in senso stretto
585 mila imprese di costruzioni
1 milione 500 mila commercio ed alberghi
1 milione 700 mila altri servizi

I primi due settori per fatturato sono :
-metalmeccanico
-alimentare

In questo contesto emergono alcune considerazioni di ordine generale:

-la polverizzazione delle aziende ed il numero di addetti per azienda correlato alle leggi che hanno ulteriormente indebolito sul fronte dei diritti il mondo del lavoro, vanno nella direzione di un accentua mento del tasso di sfruttamento della manodopera e della crescita dei rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori. Osservazione questa confortata dai dati sugli infortuni e gli incidenti mortali che, a fronte di un ridimensionamento del fenomeno in termini generali, vede una crescita significativa ed in controtendenza su due categorie :
    • -lavoratori precari in genere
      • -lavoratori extracomunitari

Sul fronte del salario, un mondo produttivo fatto da piccole aziende offre il fianco ad uno sfruttamento illegale della manodopera (lavoro nero) ed un freno alla crescita dei redditi dei lavoratori.
Se questo è accompagnato dalla intensificazione del ricorso di contratti a termine sia per le grandi aziende che per le aziende pubbliche e dello stato, il quadro di quella che è la situazione in termini di potere negoziale dei lavoratori dimostra una loro debolezza strutturale nelle relazioni con la controparte.

Di fronte a questa realtà la direzione da percorrere dovrebbe essere, guardando agli interessi del mondo del lavoro, il contrario di quello che le organizzazioni sindacali vogliono proporre.
In particolare la strategia dovrebbe convergere sulla necessità di non fornire ulteriori strumenti di disgregazione di quello che è il mondo del lavoro e della coscienza delle persone.Gli interessi da salvaguardare sono trasversali ai vari settori di appartenenza ed alle varie realtà, in particolare sul fronte della lotta al precariato maggiore dovrebbe essere la pressione nei confronti del governo.

Partendo da queste prime considerazioni cercheremo di indagare sul fronte dell'offerta quella che è la qualità del lavoro che oggi è presente da noi. In funzione anche di quella che è la parola d'ordine che , sia dal fronte politico che industriale, arriva: riconvertire l'apparato produttivo per produrre una offerta di lavoro più qualificata. Sarà vero?





Commenti

Anonimo ha detto…
Io sono fra quanti pensano che sia necessaria (anche) una rivoluzione nella struttura produttiva italiana. Per cui sarò attento lettore delle tue riflessioni.

Una sola aggiunta: oltre alle molte ragioni che tu hai elencato per spiegare la polverizzazione del sistema produttivo, ci aggiungo pure una politica fiscale assurda, che ha sempre favorito il nanismo imprenditoriale (su questo più volte si è pronunciato Marcello De Cecco).

Se ti interessa, poi, Luciano Gallino ha scritto un bellissimo libro dal titolo La scomparsa dell'Italia industriale. Davvero un'ottima lettura.

Saluti
Anonimo ha detto…
dopo aver letto il post, volevo come prima cosa citare quel libro di Gallino, come dimostrazione che c'e' stata anche una perversa volonta', ed incapacita' intrinseca del capitalismo industriale italiano, per arrivare alla situazione di oggi.
Paradossalmente, il fascismo, nel suo ideale nazionalista, che pero' non era poi tanto diverso, economicamente da quello degli altri paesi europei, era riuscito a costruire qualcosa di meglio, in paragone, di quanto siano poi stati capaci i nostri capitalisti democratici, molto piu' interessati alle rendite di posizione che al rischio industriale.
Ma e' un discorso lungo e complesso.... ti prego di continuare...
meinong ha detto…
Ottima analisi


Pensatoio
Anonimo ha detto…
Scusa, Mario.
Ammesso e non concesso che questa divisione internazionale del lavoro -che, ricordiamocelo, non ha però impedito che Paesi prima sottosviluppati come il Giappone e poi Corea, India, Cina e molti altri competessero con i vecchi paesi industrializzati nei settori a grande valore aggiunto - penalizzi chissà eprché proprio l'Italia, davvero basterebbe, a contrastare i disegni globali di questo kattivo kapitale internazionale, " non fornire ulteriori strumenti di disgregazione di quello che è il mondo del lavoro e della coscienza delle persone"?
Non sarà invece il caso di ammettere che la ragione per cui la competitività italiana cala e per cui stiamo uscendo proprio dai settori a grande valore aggiunto non risiede affatto in oscuri ed inevitabili disegni del Capitale, ma nel fatto più banale e prosaico che la nostra politica industriale (compresa la politica tributaria cui prima si è giustamente richiamato Titollo) fa SCHIFO da almeno trent'anni?
Ciao,
KK
mario ha detto…
Sulla questione dello sviluppo mi soffermerò sugli anni 70 per sviluppare di più il ragionamento.
per il resto, da chi dipende la politica industriale? Da quelli che lavorano nelle boite o da precari?
Io penso che la classe dirigente italiana, oltre ad aver subito una riorganizzazione dell'economia a livello internazionale, si sia particolarmente distinta (insieme ai poltici) di preoccuparsi dellle randite di posizione sul mercato interno (grandi gruppi) e nello scambio di "pochi investimenti nelle strutture" a fronte di niente tasse da pagare (evasione, piccola e media impresa).
In questo scenario a me interessa la sorte dei più deboli, i lavoratori, ai quali le politiche attuali (e passate) in materia di diritti faranno pagare il conto.
Ciao

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