Giavazzi, cazzata detta ed una recensione
Francesco Giavazzi è un liberista duro e puro. Domenica, in un editoriale del Corsera, lo ha ricordato con insolita violenza. Sosteneva che il governo è una pappamolla pronto a fare «un passo indietro» sul protocollo welfare per paura dei sindacati. E faceva anche l'esempio di Fincantieri, non privatizzata per «paura di sfidare un sindacato cui sono iscritti 500 dei 10mila dipendenti». La Fiom, tirata in ballo, ha pacatamente fatto sapere di avere in quell'azienda 3.411 iscritti, il 37% del totale. E che l'appello contro la privatizzazione è stato firmato da 6.443 dipendenti (il 71%). E' un bene che Giavazzi non si occupi di scelte operative: se provasse a trattare le persone in carne e ossa come tratta i numeri, provocherebbe certamente conflitti sanguinosi. Ma proprio non si trova uno più esperto che provi a indottrinarci senza inventare numeri e teorie economiche?
Fonte:http://www. ilmanifesto.it
Perchè Giavazzi ci vuole convincere che il liberismo è di sinistra? Misteri della fede. Io penso che il liberismo è liberismo e basta.La sua natura è tale che si trova di più a suo agio con un conservatore borghese che con un comunista o un socialista.
La scala dei valori a cui fa riferimento è lontana mille miglia dalla nostra cultura e dalla nostra storia.
Perchè ostinarsi? In attesa di capire un'interessante recensione all'ultimo libro del professore. Consiglio di non comperarlo.
La scala dei valori a cui fa riferimento è lontana mille miglia dalla nostra cultura e dalla nostra storia.
Perchè ostinarsi? In attesa di capire un'interessante recensione all'ultimo libro del professore. Consiglio di non comperarlo.
I precedenti sono illustri. Nello stilare l'elenco di cosa è di sinistra e cosa no, di cosa è rock e cosa è lento, si erano già cimentati Nanni Moretti e Adriano Celentano, mettendo in luce i paradossi e le assurdità di queste tassonomie. Si aggiungono ora Alberto Alesina e Francesco Giavazzi con il loro Il liberismo è di sinistra (Saggiatore, pp. 126, euro 12). Affermazione fatta per stupire, ma che dovrebbe stupire prima di tutti i liberisti.
Si potrebbe infatti dire, che il liberismo consiste in primo luogo nel liberare il mercato da vincoli e ingerenze che ne alterano la dinamica e l'espansione. Un'affermazione che equivarrebbe in qualche modo a sostenere che il mercato è di sinistra. Ma c'è da dubitare che il mercato l'apprezzerebbe, essendosi sempre autorappresentato come l'antitesi di un disegno politico, come un dispositivo spontaneo, quando non come una legge di natura. Comunque qualcosa di Altro dalla politica. E, del resto, anche chiedersi se lo stato (e lo statalismo) siano di destra o di sinistra sarebbe piuttosto ozioso, essendo stati, disgraziatamente, entrambe le cose. Dunque meglio sarebbe chiedersi se il liberismo sia ragionevole, se abbia contribuito a incrementare il benessere dei singoli e la ricchezza della società.
Metafisica del mercato
Prima ancora converrebbe tuttavia interrogarsi se qualcosa come il libero mercato e la concorrenza tra eguali siano mai esistiti nella realtà. Come sarebbe difficile rispondere con un secco no alla prima domanda (è Marx stesso a guardarsene bene) pur avendo sotto gli occhi i disastri della storia del capitalismo, altrettanto azzardato sarebbe rispondere affermativamente alla seconda. I monopoli, le lobby, i poteri corporativi, la corruzione non si sviluppano solo attraverso interventi, per così dire abusivi sul mercato, ma anche a partire dalla sua dinamica interna, dalla sua spontanea evoluzione. Sono un fatto, per dirla all'antica, strutturale.
Tant'è che Alesina e Giavazzi confidano fortemente nelle autorità di controllo indipendenti (Antitrust, Consob, Comunicazioni, Energia, etc.), per imporre il rispetto delle regole auree del mercato. Queste costituirebbero l'ossatura di uno «stato liberista forte». Dietro questa fede si cela un'idea molto platonica della politica. che considera queste entità come una sorta di emanazione della «dea ragione» al riparo da interessi confliggenti, rapporti di forze, scontri di potere. Fuori dalla storia. Idea astratta e ben lontana da una realtà in cui monopoli, cartelli, corporazioni, fioriscono lussureggianti e le regole sono tutt'altro che neutrali. Basterebbe ripercorrere la storia recente dei diritti di proprietà intellettuale per illuminare quanto arbitrio e sopraffazione abbiano agito nella definizione di queste regole.
Ma di siffatte astrazioni il pamphlet di Alesina e Giavazzi è prodigo. Nel cantare le lodi della «meritocrazia» gli autori si guardano bene dall'entrare nel merito del merito, dallo spiegarci, insomma, di che cosa si tratti. Il famigerato Sessantotto ne coltivò, invece, un'idea piuttosto realistica: il merito - sostenne - è l'approvazione dei poteri costituiti. E, in conseguenza, si schierò contro il merito conformista e a favore del talento, che però non è «cratico» tant'è che nessuno ha mai sentito parlare di «talentocrazia». Il merito è un giudizio e dipende da chi lo pronuncia. E dove starebbe oggi quel «tribunale della ragione» incaricato di attribuirlo? Nei quiz demenziali che aprono le porte dell'università? Nell'incubo bancario che domina il corso degli studi? Nell'astuzia ipocrita che sottende le carriere politiche? Nell'insindacabile giudizio dei baroni e degli opinionisti alla moda?
Lo spreco produttivo
Il vizio degli economisti «liberisti e di sinistra» è quello di ridurre tutto a un calcolo costi-benefici e, per di più, di credere che si tratti di una cosa semplice, pacifica, al riparo da fattori imprevisti, anomali, incalcolabili, con il risultato di precipitare continuamente in una gretta contabilità. Per esempio si pretende dall'«azienda universitaria» di ottenere un rapporto ottimale tra input di materia prima (gli studenti) e output di prodotto finito (laureati e diplomati). Fatto sta che gli innumerevoli giovani che hanno partecipato all'acculturazione di massa senza diventare prodotto finito, costituiscono l'insostituibile bacino del consumo culturale a tutti i suoi livelli. E siccome i consumatori sono l'alfa e l'omega dei nostri due autori, non dovrebbero sottovalutare questa circostanza. Il problema dello «spreco», della dispersione, delle eccedenze è molto più complesso di quanto uno schema economicistico possa abbracciare. L'innovazione, il salto di qualità, perfino la competitività spesso si annidano proprio nei fattori che esso non contempla. Se si apprezza il rischio non si può condannare lo spreco. Se si persegue l'eccellenza bisogna migliorare il livello della mediocrità. Quanto alla figura del consumatore, la sua divinizzazione non è meno unilaterale e astratta di quella del produttore e risponde a quella medesima logica che riduce le persone a funzioni. Sostituire un «patto dei consumatori» al «patto dei produttori» non sembra condurre fuori dalla vecchia mentalità riduzionista e conciliatoria.
Non a caso i nostri due liberisti di sinistra concludono con un sentito apprezzamento per le futili politiche repressive adottate dai sindaci d'Italia. Dalla persecuzione bolognese dei nottambuli alla crociata fiorentina contro i lavavetri. Misure appunto rivolte contro quanto di buono ci ha recato il liberalismo storico: libertà di movimento, espansione dei consumi, libera impresa (quella dei lavavetri, dei centri sociali e dei lavoratori autonomi «sfigati»), libertà delle inclinazioni individuali. A dimostrazione inequivocabile che liberismo e libertà stanno divorziando, che lo stato minimo si fa massimamente prescrittivo e proibizionista, che le regole della virtù (e del mercato) continuano ad essere definite dall'alto e nell'interesse dei privilegiati. Con il decisivo contributo del dirigismo di sinistra.
I fronti opposti
Su un punto, ed è un punto importante, con Giavazzi e Alesina si deve convenire. L'idea di ricondurre tutto il lavoro flessibile al tempo indeterminato è fuori dalla storia e dalla ragione. Mantenere in piedi lavoro inutile e costoso invece di sviluppare diverse forme di sostegno al reddito, per salvaguardare l'etica del lavoro e una omogeneità biografica e politica irrimediabilmente tramontata è criminale. Sarebbe come abolire le pale meccaniche per moltiplicare il numero dei braccianti. Ma sulla flessibilità-precarietà (quando non si tratti di una maschera della subordinazione), sulle condizioni di vita, i diritti, le risorse, le libertà di scelta e di movimento del lavoro intermittente e precario la battaglia è aperta ed è improbabile che ci troveremo dalla stessa parte. Indebolire l'autonomia e i diritti dei singoli per accrescere la loro appetibilità sul mercato del lavoro è un'aspirazione che accomuna il sogno conservatore della piena occupazione e le politiche del ricatto care agli sfruttatori del lavoro precario. Liberisti e sinistre. In una stagione ormai remota, una certa corrente politica e intellettuale si autodefiniva «sinistra non marxista». Terminata la lettura di questo pamphlet, verrebbe voglia, se non fosse comunque un po' riduttivo, proclamarsi «marxisti non di sinistra».
Marco Bascetta
Fonte:http://www.senzasoste.it/
Commenti
In fondo una parziale quotazione in borsa comporta realmente ben pochi rischi per i dipendenti, una fine modello Alitalia sarebbe molto peggio.
Anche combattendo contro il liberismo selvaggio e le privatizzazioni indiscriminate secondo me bisognerebbe sempre preoccuparsi della sopravvivenza delle aziende, garantisce molto meglio l'occupazione una azienda competitiva e sana che un carrozzone che sta in piedi solo togliendo risorse pubbliche a cose piu importanti come la sanità e le pensioni.
Magari ai lavoratori, che sono quelli che hanno garantito con il loro lavoro l'azienda, interessa molto il destino di quell'azienda e non credono che un processo di privatizzazione sia indice di miglior futuro.
per quanto riguarda i lavoratori dell'ucraina non penso che sia la Fiom il loro problema.
E lamentarsi che non ci sono soldi per la sanità e poi usarli così mi sembra criminale.
Sul fatto di non investire in Ucraina potresti avere ragione.
Probabilmente i cantieri ucraini saranno acquisiti da qualche concorrente, con danni maggiori per i dipendenti Fincantieri, che si troveranno a lavorare per un azienda meno competitiva.
Perchè comunque si giri il discorso quei cantieri hanno un costo del lavoro molto minore e la scelta è se questo vada a vantaggio di Fincantieri o di un cncorrente.
E su questo fatto la FIOM non ha nessun influenza.
Quindi secondo te Fincantieri deve acquisire un sito produttivo per far produrre dove il costo del lavoro pesa di meno e licenziare i suoi operai in Italia. Da questo punto di vista è come darsi una martellata sulle palle.Se è vero che settori ad alto valore aggiunto (come la cantieritistica)forse questi sono settori in cui le esternalizzazioni producono danni al paese .In ogni caso queste sono le critiche di Fiom all'ipotesi di collocazione in borsa ed alla questione Ucraina.
Un pò più di sostanza al modo superficiale in cui tu poni la questione
" Le critiche della Fiom e l’opposizione al collocamento in borsa
I progetti dell’esecutivo e del top management trovano l’opposizione della Fiom Cgil. Il sindacato contesta sia numerosi punti del piano industriale che la collocazione in borsa. Rinviamo al libro bianco per la critica puntuale ai singoli punti del piano e ci limitiamo alle contestazioni che appaiono maggiormente significative.
Il punto di maggiore discordanza sul piano industriale sembra riguardare gli investimenti in cantieri all’estero, a cui dovrebbero essere destinati 250 milioni di euro. Fincantieri vuole infatti investire negli Stati Uniti, perché questa è la condizione per partecipare alle gare per forniture militari; nei Carabi e nel Baltico per una rete per il refitting (ovvero attività per allungare la vita delle navi). Ma il progetto osteggiato dalla Fiom riguarda l’acquisizione di un cantiere low cost in Ucraina, che da solo è grande una volta e mezza tutti i cantieri italiani messi insieme. Il top management dell’azienda sostiene che l’acquisizione è da considerarsi strategica, poiché consentirebbe il raddoppio della produzione, e quindi la delocalizzazione delle produzioni a minore intensità tecnologica (in particolare gli scafi). Ne deriverebbero un aumento dei profitti e quindi della redditività dell’impresa. La Fiom respinge la proposta sostenendo che: a) la riduzione dei costi non è così significativa da consentire, in ogni caso, la competizione con i paesi asiatici; b) le perdite occupazionali in Italia sarebbero gravi; c) non vi è certezza che l’azienda sia in grado di reggere una tale espansione in termini di risorse manageriali e costi.
D’altra parte, se il top management di Fincantieri sostiene che l’azienda necessita di investimenti per circa 800 milioni, la Fiom sostiene che tali fondi possono essere raccolti facendo ricorso a 173 milioni di liquidità del gruppo; all’autofinanziamento (50 – 60 milioni all’anno per 5 anni = 250-300 milioni); agli aiuti Ue per ricerca e sviluppo; a risorse nazionali per l’innovazione; al credito d’imposta per finanziare programmi di ricerca; al cuneo fiscale. Tutte queste voci, aggiunte al possibile ingresso di investitori istituzionali e degli enti territoriali, potrebbero portare circa 550 – 600 milioni di euro. Il rimanente potrebbe essere reperito con l’indebitamento.
La Fiom sostiene inoltre che Fincantieri, pur essendo un’azienda sana, non ha i fondamentali che la possano rendere appetibile in borsa, perché la redditività è inferiore al 2% e perché, in aggiunta, il valore complessivo dell’azienda subirebbe un danno dal fatto di non essere scalabile. Questa tesi è sostenuta anche da Duccio Valori, il quale osserva che il mercato offre, per esempio, il Bund tedesco decennale con interessi al 4,5%. Se si tiene conto anche del fatto che il settore presenta significativi rischi d’impresa, sul mercato borsistico Fincantieri non appare competitiva. L’ex manager dell’Iri vede poi ulteriori pericoli: la presenza in ambito pubblico di “privatizzatori” colpevoli di non voler apprendere le lezioni provenienti dalle precedenti esperienze – Telecom Italia su tutte – che si sono risolte in una riduzione della concorrenza e del numero dei dipendenti, oltre che in un danno per gli azionisti. Inoltre, prosegue il manager, i rappresentanti dei privati nel cda potrebbero orientare decisioni in contrasto con l’interesse generale dell’azienda e del paese.