Un pò di tecnologia e spariscono i problemi

E' di moda, tra gli economisti in genere (e tra quelli di sinistra in particolare), trastullarsi con l'idea che questo paese perde costantemente terreno sul piano della competitività a causa della mancanza di una politica industriale seria.
In buona sostanza circola l'idea che se si fosse in grado di ristrutturare l'apparato produttivo, incentivando la nascita di aziende in grado di produrre business ad alto valore tecnologico e, quindi, ad alto valore aggiunto, avremmo la possibilità di migliorare la produttività del sistema (rapporto tra fatturato e tempo di lavoro necessario), occupare una posizione strategica nel panorama internazionale ed avere vantaggi sul fronte dei redditi della manodopera impiegata.

La prima questione è: a fronte di un contesto economico che ama la deregolamentazione e la flessibilità, chi dovrebbe guidare questo processo?
La seconda è: a vantaggio di chi e, cosa non secondaria, secondo quale ordine gerarchico di interessi?

Queste sono le domande che pongo. E' ovvio che da comunista , per quanto mi riguarda, ho una opinione sulle due questioni.

Per dare un contributo mi limiterò a focalizzare la mia attenzione su due aspetti:
1- la politica aziendale rispetto al concetto di valore per gli azionisti
2- mercati finanziari e business

1- Eravamo abituati, un tempo, a valutare la forza di un'azienda in base ad una serie di indicatori che ne misuravano lo stato di salute nel breve e nel lungo periodo. Possiamo dire che, in genere, il rapporto tra attivo e passivo, il cash flow, la capacità di generare utili e la capacità di far fronte agli investimenti nel medio lungo periodo erano gli elementi su cui si centrava una analisi di tipo finanziario. Insieme a questa una proiezione dell'azienda sul contesto competitivo , le sue strategie di mercato, l'innovazione nell'offerta ed il posizionamento rispetto a segmenti di business maturi, in crescita o in declino.
Questo approccio necessitava di un contesto stabile, in cui il punto di riferimento era una logica "distributiva" : divisione degli utili e rapporto tra questi ed il valore nominale delle azioni.

Tutto l'armamentario, descritto prima, subì un notevole ridimensionamento nel periodo della new economy. In quel periodo ( che ricordo molto bene avendone frequentato da vicino qualche esponente di primo piano) quello che contava era il "valore" del progetto, il "valore" del management, l'idea di una economia immateriale in grado di creare valore indipendentemente dalla produzione tradizionale (manifatturiera).Sicuramente sono nate aziende importanti (poche) in grado di sfruttare meglio le nuove tecnologie (internet in primis) e di proporre nuovi prodotti e servizi al mercato, ma molto più vasto è stato il fronte di chi ha fallito trascinandosi dietro risorse importanti e distruggendo in men che non si dica i posti di lavoro che aveva creato.

Al mutare del contesto (flessibilizzazione di salari e prezzi) è mutata la strategia delle aziende.
Quella esperienza consolidò l'approccio ad una logica del capitale più interessato a massimizzare nel breve i profitti che a rendere stabile la certezza di poterne godere anche nel futuro. Tra gli esempi di questa "miopia" possiamo riportare alcuni esempi citati da Shankar Jha.
Nel 2000 Morgan Stanley aumentò i ricavi netti del 28% e gli utili per azione del 31%. Mancò, però, la previsione degli analisti del 6,8%. Il titolo, a dispetto dei risultati, subì una flessione del 6,8%.
Intel, nello stesso periodo, perse il 20% del proprio valore in borsa perchè (in quel trimestre) il fatturato era aumentato "solo" del 5% contro una previsione degli anlisti del 12%.

Quello che conta è massimizzare, nel breve, il capitale investito (valore dell'azione). Più questo aumenta meno interesse ha l'utile distribuito.In questa prospettiva l'azienda è interessante (per chi investe) in funzione delle sue strategie di valorizzazione del capitale.

Le prime leve, su cui si gioca per massimizzare i profitti, sono quelle dei costi del lavoro (salari) e di quelle attività che non rivestono una importanza strategica per le aziende.Su queste si opera con processi di terziarizzazione che hanno l'obiettivo di rendere flessibile l'impatto dei costi di quel "processo" sul prodotto, in funzione del suo andamento sul mercato.
Si danno a terzi i magazzini di stoccaggio, chi gestisce la logistica terziarizza a sua volta la distribuzione, si terziarizza il call center ed il centralino, la struttura commerciale subisce delle modifiche per cui si privilegiano agenti monomandatari rispetto a venditori diretti, l'I.T. aziendale viene tagliato e si standardizzano i software ed i processi di lavoro. In sostanza inizia una corsa verso l'efficienza che ha come prezzo, per le persone, un ridimensionamento delle mansioni (che impoveriscono in termini di valore) e del salario.Il valore creato deve remunerare l'investimento azionario.
Qualsiasi riorganizzazione dell'apparato produttivo in questa logica, ammesso che interessi a lor signori veramente, se lasciato in quelle mani perchè dovrebbe produrre risultati diversi in termini di distribuzione del "valore" creato per la comunità?

2- quello che contribuisce a condizionare questo approccio è il mercato finanziario e la deregolamentazione che ha subito.
I nuovi attori che decidono di investire in azioni hanno l'esigenza di massimizzare i profitti in conto capitale.
Sul fronte dell'offerta, la tecnologia ha spinto verso un abbattimento delle barriere che in qualche modo cercavano di rendere più cauti gli istituti di credito e le finanziarie nella concessione dei prestiti.
Il combinato di questi elementi funziona da detonatore di crisi violente. Se da un lato le deregolamentazioni spingono verso una precarizzazione delle fonti di reddito ed impattano pesantemente sulla sostenibilità degli standard di vita degli individui, nello stesso tempo producono aree di affari che il capitale non ignorerà mai nei periodi di espansione (quando è necessario trovare nuove forme di impiego alla liquidità generata dal sistema), ma che è pronto a sacrificare immediatamente nell'istante in cui si realizza in modo negativo il rischio.
Tra gli attori fondi pensione che legano il destino dei propri assistiti alle oscillazioni del mercato.

Se questi sono due elementi fondamentali del contesto economico, con quali proposte si presenta la sinistra (tutta) su questo scenario? E' sufficiente pensare che il contesto possa mutare solo perchè così sarebbe meglio? lasciando a quelle forze strategie e direzione di marcia?Cosa cambia, nella sostanza, per i lavoratori?

Commenti

scrooge ha detto…
concordo su tutti gli aspetti da te affrontarti, solo non capisco la consequenzialità.

Tu parli di economisti di sinistra che ritengono che il maggior problema della competività dell'imprese italiane sono politiche industriali serie. E poi, riporti esempi delle distorsioni del ricercare il risultato di breve periodo!
Beh, poltiche industriali serie sono politiche di lungo periodo...che quindi dovrebbero combattere le distorsioni che tu hai precisamente descritto.

Sul fatto che l'impresa capitalistica segua lo shareholder value, concordando con te, ritenendo che non sia un first best. Ma se siamo e vogliamo restare in un sistema capitalistico, lo shareholder value sarà comunque (pre)dominante.

Però nulla vieta che possiamo lavorare per dare all'impresa obiettivi che vadano oltre l'arricchimento degli azionisti; in questo senso, ad esempio, si muovono molti economisti (di sinistra) che cercano di introdurre una responsabilità sociale di impresa.

A conclusione, comunque, in Italia mancando un mercato azionario vero e mancando grandi imprese, già soprattutto nei dist4retti industriali si ha una visione di impresa che è più ampia del mero shareholder value.
mario ha detto…
"Tu parli di economisti di sinistra che ritengono che il maggior problema della competività dell'imprese italiane sono politiche industriali serie. E poi, riporti esempi delle distorsioni del ricercare il risultato di breve periodo!
Beh, poltiche industriali serie sono politiche di lungo periodo...che quindi dovrebbero combattere le distorsioni che tu hai precisamente descritto."

Io riporto quello che accade nel mercato, da tempo.Le politiche industriali tese a riorganizzare la filiera a fini "sociali", a mio modo di vedere, in questo contesto non hanno spazio.entrano in collisione con i processi di concentrazione del capitale che non sono più di tipo nazionale ma transnazionale.
Quindi la questione che pongo è legata al sapere chi, in queste condizioni, dovrebbe gestire questi processi. Lo stato per conto di gruppi d'interesse privato?
lo stato per conto dei suoi cittadini e quindi in conflitto con gli interessi privati?
Non credo che ci sia spazio per dare all'impresa obiettivi di responsabilità sociale.Sicuramente sono buone intenzioni ma, se l'obiettivo è la massimizzazione del profitto, la socialità si perde al primo sbandamento.Nella mia esperienza non mi è mai capitato di vederle realizzate, o meglio sono foglie di fico da esibire in momenti di conquista di un certo mercato e del consenso necessario per entrarvi, non per consolidarsi e mantenere nel tempo quelle promesse. se ci sono condizioni diverse si cambia scenario e mercato.E lavoratori.
Per quanto riguarda i distretti industriali e la visione più ampia, a parte l'obiezione sul numero (credo che sia un pò più articolato il contesto), ricordo che quando lavoravo nelle Marche ho visto aziende del territorio decidere (a decine) di andarsene in Romania a produrre perchè costava molto meno.
Con buona pace dei sindaci, dei lavoratori e della comunità.
meinong ha detto…
Ho cercato di risponderti sul mio sito.
Aggiungo che non è che dobbiamo l'impresa, ma lo Stato costretto salle lotte operaie deve selezionare gli aiuti alle imprese (Cavallaro dice basta ai finanziamenti a pioggia)

Pensatoio
meinong ha detto…
Correggo:
"Non è che dobbiamo aspettare l'impresa"
"Dalle lotte operaie"

Per me è possibile, come è stato possibile per alcuni Stati ben organizzati e determinati. gestire meglio questo momento.

Pensatoio

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