Cultura d'impresa ed ideologia

John Kotter è docente di leadership alla Harward Business School. Utilizzeremo le "idee" guida di questo consulente, scritte in un testo intitolato "guidare il cambiamento, rinnovamento e leadership (1998)" per fare una disanima di quella che è la relazione tra cultura d'impresa oggi, ideologia e pensiero liberista.

In questo saggio i punti fondamentali che emergono sono:
1- "un'economia globalizzata va creando più rischi e più opportunità per tutti" Lo scenario competitivo che viene descritto ha come punto di riferimento la necessità di avere un "drive" che, per diminuire i rischi, necessita di una trasformazione del sistema impresa che si trasformi attraverso azioni di reengineering, ristrutturazione, progetti per la qualità, fusioni, cambiamento strategico e cambiamento culturale.
2- il processo di cambiamento necessita di:
-creazione di un senso di urgenza
-costruzione di una coalizione di governo
-sviluppo di una visione strategica
-comunicazione della visione del cambiamento
3- le modalità di creazione del senso di urgenza possono essere supportate da azioni quali:
- Creare una crisi, ad esempio una di tipo finaniaria, esponendo il sistema agli attacchi dei concorrenti in condizioni di debolezza.
" ho visto dei dirigenti avviare con successo delle ristrutturazioni o dei progetti di miglioramento durante un periodo in cui le aziende andavano a gonfie vele"
-Fissare obiettivi che non possano essere raggiunti lavorando nel modo consueto.
-Bombardare le persone con informazioni sulle opportunità future e sull'attuale incapacità dell'organizzazione di coglierle.
4- Le azioni non possono produrre risultati se, nello stesso tempo, non si costruisce una coalizione di governo forte. Questo punto è essenziale per lanciare qualsiasi progetto di ristrutturazione del sistema.
Avere cura di non scegliere persone con un ego accentuato sia in senso positivo che negativo.
5- Creare una visione che offra un quadro allettante ed intelligente del futuro, comunicare in modo logico il modo in cui conseguire la visione, attivare la parte operativa (management) che attui le strategie.
6-Comunicare la visione : ripetere, ripetere, ripetere.

L'impatto sulle organizzazioni del XXI secolo sarà:

STRUTTURA
-meno regole
-meno dipendenti
-meno livelli di comando
-i manager guidano, i quadri gestiscono
-procedure e politiche che non creino interdipendenza

SISTEMI
-aumento dei sistemi di controllo e di informazione
-diffusione dati sulle prestazioni

CULTURA
-propensione al rischio
-rapidità nelle decisioni
-orientamento all'esterno


La sintesi di questo pensiero riporta ad una questione legata alla centralità dell'impresa, oggi, dei suoi valori "veri" e del sistema economico ed alla subordinazione che di fronte a questi elementi hanno la politica e lo stato.
L'ideologia "forte" che permea questa visione, delle organizzazioni e del futuro, utilizza un linguaggio in cui si comunicano, oltre a valori indipendenti rispetto alle condizioni concrete di vita delle persone e sul modo in cui le "azioni" impattano su queste, immagini di una tensione continua nel vivere e della necessità di organizzare se stessi all'interno di un contesto che offra un riparo rispetto ai marosi della "competizione".
Il "costo" passa attraverso l'accettazione di una cultura di leadership elitaria, in cui i ruoli vengono disegnati in modo preciso e dentro regole che possano garantire il raggiungimento di ciò che è esplicitato nella vision.
La dialettica ed il conflitto sono, sicuramente, elementi di disturbo rispetto al sistema ed in questo è fondamentale il modo in cui si comunica (ripetere, ripetere, ripetere) e si crea il valore dell'appartenenza.
E se questa vision necessita anche della produzione di azioni che determinano "crisi" guidate (il cenno alla crisi finanziaria), l'accettazione del "costo" è funzionale ad un obiettivo che altrimenti non potrà essere raggiunto con la determinazione e consapevolezza necessaria.

In buona sostanza siamo in guerra signori.
Questa cultura, con la quale mi sono confrontato per anni, da tempo affascina la politica e ne è diventata punto di riferimento.
Il mito dell'efficienza e del cambiamento continuo, la fine delle ideologie e dei valori a scapito del pragmatismo e della ragionevolezza.
Non vogliamo affrontare in modo morale questa "ideologia", solo conoscerla e dare modo di scoprirla per quello che veramente è.In tutto questo il punto di debolezza del sistema disegnato è l'incapacità di avere un'anima e la necessità di produrre sempre una cultura ripetitiva della competizione che alla fine non potrà che produrre conflitto. La questione è ricondurre il conflitto su binari di una "visione" che sia altro.

Commenti

faustpatrone ha detto…
dire che le élites siano sempre esistite e da sempre abbiano plasmato modi e forme dell'economia, della cultura e della politica è cosa sin troppo semplicistica e scontata.

potremmo più semplicemente riconoscere che le élites sono probabilmente nate durante il passaggio dall'agricoltura nomade di sussistenza (caccia e raccolta) alle primitive economie agricole, prima seminomadi e poi stanziali. perché i contadini - trovandosi più esposti a un attacco diretto e obbligati a seguire le coltivazioni - hanno rinunciato alla loro quota di sovranità comunitaria in favore di una élite che li proteggesse "manu militari" e che garantisse l'organizzaione necessaria alla produzione agricola, dalla semina al raccolto e allo stoccaggio.

da allora in poi è stata storia nota. i potenti hanno sempre consolidato il predominio a spese della maggioranza e dei ceti produttivi. e se ci son stati rivolgimenti sono avvenuti per lo più fra élites rivali, non produttrici, ma forti del prelievo di quel surplus. iniziando con il re mesopotamico, passando dal re romano-germanico, fino al borghese mitteleuropeo.

questo capitalismo ultraliberista ha però qualcosa di nuovo e inquietante. i proclami delle sue élites - i CdA delle multinazionali - hanno necessariamente un tono neutro, asettico, ma non per questo privo di contenuti né di conseguenze. infatti mentre fino al fordismo - forse compreso - il più cinico capitalista era un prodotto anche culturale e politico, era immerso nella politica della sua nazione (dal padrone del vapore inglese che aveva l'Union Jack imperiale in cuore, al proprietario dell'acciaieria tedesca imbevuto di "kultur" pangermanista e guglielmina...).

ora invece la politica e l'ideologia sono diventate un peso inutile. resta solo la buccia di una "cultura" superficiale esclusivamente propagandista. l'ideologia e la categoria del politico deve necessariamente essere bandita nei fatti in un mondo di puri consumatori e di pure transazioni commerciali.

l'ideologia, soprattutto se radicale e violenta con la sua vocazione alla stabilità e all'intransigenza è uno dei nemici peggiori di queste élites, perché disfunzionale rispetto a quel mondo fluttuante di puro e necessario consumismo. è un virus che intaccherebbe la pura neutralità dei bisogni indotti e dei capricci mercificabili. tanto più che verranno persino a essere pesantemente mercificati anche i bisogni primari.

resta solo la buccia di una cultura persuasiva, una "réclame" del buon cittadino: che non deve protestare ma solo consumare compulsivamente.

di questa pessima cultura abbiamo un magistrale esempio nell'opera di delegittimazione dell'ideologico e del radicalismo politico, e non è un caso che penso a Erszemberger come uno dei più infidi "intellettuali" proni ai desiderata delle nuove élites e pronti a screditare con campagne ben orchestrate quella categoria di uomini ancora ostinatamente ideologici e ancora pronti ad agire radicalmente nel politico.

la mia speranza e impressione è che questo "pericolo" delle ideologia non sia cosa morta o debellata, ma possa tornare a essere non solo possibile, ma persino auspicabile come ultima speranza di redenzione dal meccanismo perverso della mercificazione totale. solo l'aggarvamento (auspicabile) delle condizioni di vita - crisi energetica e materiale o dei consumi - potrebbe garantire ciò.

in questo senso credo che usare la crisi contro questa (finta) dottrina della crisi indotta economica sia forse la strategia migliore per battere con le sue stesse armi il nemico.
Anonimo ha detto…
Ottima dritta, come al solito.
mario ha detto…
XFurio,
la cultura d'impresa, in modo vuoto, utilizza un linguaggio asettico e ragionevole, nella sostanza è un linguaggio di guerra. Andrò avanti su questi aspetti utilizzando un pò di testi dei "guru" che plasmano l'ideologia "aziendale", così come proverò a fare qualche salto nei fatti della "storia".
faustpatrone ha detto…
non è tanto il linguaggio "di guerra" che mi turba.... ma le cause, le ragioni e i mandanti di questa guerra.

O.T. Ho sentito il tema di tuo figlio, sei fortunato ad avere un figlio che già a quell'età faceva riflessioni del genere sul silenzio. I miei allievi tredicenni - tranne pochissimi - si limitano a dire che del silenzio non vogliono saper nulla, o che non lo hanno mai sperimentato.
Anonimo ha detto…
sono d'accordo con le considerazioni allarmate suddette.
D'altra parte occorre ridurre al governo locale delle idee ciò che genericamente è auspicato dal Sistema globale, quindi non da una Spectre che decide il da farsi ma da una serie di aggiustamenti tra indirizzi che le grandi multinazionali tendono a darsi.
Si tratta di linee di tendenze che a volte anche tra loro differiscono.
Ciò che quindi viene considerato un trend futuro, così anche nel testo riportato, forse (e invece) non è che la conseguenza di azioni giuste o sbagliate intraprese dalle multinazionali e dai pensatori dei maggiori governi, di fronte a crisi improvvise o deviazioni del normale corso economico/politico.
La tendenza alla riduzione dei cervelli pensanti non è quindi una decisione tout court, ma una conseguenza della rincorsa alla ottimizzazione dei risultati. E qualunque medio imprenditore sa bene che meno persone pensano meglio è.
D'altra parte non è all'ideologismo che occorre guardare ma al concetto ben più nobile di fratellanza, basato sulla condivisione e sul rispetto reciproco, rispetto sia delle parti deboli ma anche delle ragioni delle parti forti. Rispetto che non significa accettazione, ma solo punto di partenza per uno sviluppo comune nella dimensione umana.
Rigettare a priori ogni "ragione" del sistema produttivo equivale a negare la possibilità che esso esista. D'altra parte il sistema produttivo deve pur tenere conto che la sua finalità è l'essere umano e non la mera circolazione di prodotti (destinati a chi, sennò?).
Insomma, siamo al solito al Medio Evo dello sviluppo, dove da una parte c'è l'infinita rincora al profitto e dall'altra l'infinita rincorsa all'emancipazione.
C'è altro.....

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