Parliamo di Brigate Rosse
Il percorso di una famiglia di compagni, all'interno della quale si dipanarono le illusioni, le contraddizioni e la tragedia della sinistra italiana negli ultimi 50 anni.
Un modo per tracciare il percorso ideologico, umano ed esistenziale di gente che coltivò fino in fondo l'illusione di assaltare il cielo.
Nel secondo due video efficaci e sintetici di ciò che muoveva lo stomaco, prima che la testa, di tantissimi compagni che non vedevano altra strada che la lotta armata per superare una fase della loro vita in cui l'unico orizzonte era, alla fine, non avere nulla e non contare niente.
La fonte di tutto questo è un sito che raccoglie e ricostruisce quello che è stato il percorso della lotta armata negli anni 70 in Italia (www.brigaterosse.org)
Questo in un momento in cui varie suggestioni ci attraversano la testa.Una situazione economica che si farà sempre più esplosiva, un tessuto sociale degradato, partiti politici che non esistono diventati solo aggregati di potere ed una massa di persone silenti ed incazzate proiettate su loro stesse e senza bussola.
Qualcosa da qualche altra parte si muove come in Grecia.E quel qualcosa si muove proprio lì dove partiti di sinistra hanno mantenuto un minimo di struttura, presenza sul territorio ed organizzazione.
Penso che forse stiamo perdendo un'occasione qui da noi.E penso che dovremmo finire di elaborare illusioni "istituzionali" se non nel senso di usare quelle istituzioni come oggetto e megafono delle nostre istanze.Stare fuori dai giochi e pensare a costruire ed organizzare una opposizione che elabori nel tempo il proprio modo per "venire fuori".
Senza cadere nel baratro di errori che hanno bruciato migliaia di vite, alla luce del sole con la forza distruttiva e propositiva, nello stesso tempo, della nostra diversità.
Pierino Morlacchi e Heidi Ruth Peusch nel 1977 durante un processo
Saga famigliare, foto di gruppo in un esterno, storia politica e generazionale. Quale di queste tre definizioni meglio può sintetizzare l’essenza ultima del tuo libro? E perché?
La mia intenzione è stata sin da subito quella di scrivere una storia, una vicenda partigiana. Ho utilizzato le esperienze umane, politiche, rivoluzionarie della mia famiglia perché le ho in parte vissute e le conosco bene e perché i Morlacchi avevano in sé tutte le sfaccettature proprie del movimento operaio e comunista del Novecento italiano. Per questa ragione le loro vicende rappresentano un bagaglio di esperienze troppo ricco per non essere recuperato e valorizzato.
La fuga in avanti non ha alcun intento storiografico. È un libro politico nella misura in cui rivendica interamente la storia dei suoi protagonisti. È un libro nel quale l’esperienza rivoluzionaria cerca di emergere da una storia famigliare lunga un secolo.
Manolo, chi erano i Morlacchi? Chi erano Pierino Morlacchi e Heidi Ruth Peusch?
Pierino Morlacchi è stato un militante rivoluzionario delle Brigate Rosse. Contribuì alla loro fondazione nel 1970 organizzando la prima brigata nel quartiere Giambellino di Milano. L’approdo alla lotta armata fu il culmine di un lungo processo storico e politico che iniziò con la militanza nelle fila del Pci, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, e che coinvolse l’intera e numerosissima famiglia (dieci fratelli). Nel 1960 Pierino e tanti altri compagni, quasi interamente operai, uscirono dal partito in polemica con le posizioni revisioniste espresse non solo da Togliatti, ma dallo stesso gruppo dirigente dell’Unione Sovietica. Fondarono il gruppo “Luglio ’60” che a Milano ebbe un notevole risalto anche per l’asprezza del confronto con il Pci. Con il 1968 e l’inizio delle lotte operaie e studentesche, la funzione di quel gruppo andò via via esaurendosi. Alcuni rientrarono nelle fila istituzionali, altri scelsero la lotta armata. Tra questi mio padre.
Heidi nacque e crebbe nella Ddr. Compiuti i diciotto anni scappò da quel grigiore e girò l’Europa. Giunse in Italia nel 1968. Dapprima si legò agli ambienti della Quarta Internazionale, poi conobbe mio padre e la realtà del Giambellino. Partirono insieme per Pergine Valsugana, dove fecero conoscenza con Renato Curcio, Mara Cagol e molti altri compagni. Rientrarono a Milano e anche lei aderì alle Brigate Rosse. La nascita di due bambini la allontanò dalla lotta attiva, ma venne comunque arrestata a più riprese fino al 1982.
Quand’è nata l’idea del progetto? E quali motivazioni ti hanno spinto a realizzarlo?
L’idea del progetto ha preso corpo dopo la morte dei miei genitori. Mio padre è scomparso nel 1999, mia madre nell’agosto del 2003. Ne parlai a più riprese con Francesco Cattaneo e altri compagni, molti dei quali ritenevano che l’idea non solo fosse bella ma che rispondesse ad una esigenza collettiva ancora in sospeso. Dell’esperienza brigatista hanno scritto tutti: giornalisti, storici, magistrati, avvocati, ex militanti di vario genere. Ciò che mi sembra abbia caratterizzato la bibliografia nel suo complesso è stato l’approccio di fondo. Scrivere di quell’esperienza è possibile solo accettando esplicitamente che fu un errore e che resta un fatto irripetibile. Da questo tipo di lettura e di approccio io mi sottraggo completamente. Non ho nulla da giustificare e non intendo fare bilanci. Tanto più che coloro che fino ad oggi ci hanno provato, anche in modo onesto, hanno raggiunto dei risultati discutibili.
L’unica vera mia intenzione è stata quella di utilizzare la storia della mia famiglia, per ricordare quei fatti, quel clima, quell’umanità con un linguaggio e un taglio che è caro a me e, credo, a tanti altri compagni.
In cosa consistono i “risultati discutibili” a cui accenni?
Un bilancio politico e storico dell’esperienza della lotta armata oggi lo ritengo ancora assai improbabile. L’argomento è ancora al centro di una furiosa battaglia politica che, peraltro, nasconde anche al lettore più accorto, anche allo storico e al giornalista più onesto, fatti che se non vengono affrontati sotto la luce del conflitto sociale, oggi vivo più che mai, portano ad una deviazione interpretativa grave. Perché, sono convinto, non è sulla storia delle Brigate Rosse che esistono dei segreti ancora da svelare. A testimonianza di quella storia e delle parti in lotta, ci sono le centinaia di processi svolti e le migliaia di anni di carcere inflitti. I veri segreti, le vere menzogne, sono quelle dello Stato. Segreti e menzogne che celano le ragioni di quel conflitto. Senza la chiarezza necessarie su questi aspetti, senza la chiarezza di cosa abbia significato e significhi nel concreto l’ordine democratico, la ricostruzione che si può ottenere è comunque monca. Oppure, peggio ancora, tale ricostruzione deve partire da un iniziale riconoscimento di resa che può assumere la forma del ricordo, dell’abiura, della dissociazione, della conclusione storica non di quell’esperienza, ma quasi della possibilità stessa del conflitto.
Nel tuo libro traspare, forte e resistente, quel filo rosso che nello scorso secolo ha legato i nonni ai padri, e i padri ai figli. Che fine ha fatto quel filo? È ancora teso?
Direi che quel filo è piuttosto allentato. Esiste oggi una profonda trasversalità tra i figli della flessibilità. La composizione di classe è tale per cui il cocopro, la forma moderna di capolarato, resta il destino dei figli degli operai e degli impiegati, via via sempre più proletarizzati. La ristrutturazione capitalista ha avuto cura di ridisegnare non solo la politica economica; i risultati forse migliori e più robusti li ha conseguiti proprio sul piano delle coscienze. Oggi i padri non hanno nessun filo rosso da consegnare ai figli. Ma è solo un problema di fasi e latitudini. Ogni giorno il dominio capitalista dimostra di essere incompatibile con il resto dell’umanità. Si tratta di avere pazienza e quel filo tornerà a tendersi.
Nella bella introduzione, Francesco Cattaneo parla del quartiere Giambellino, teatro delle storie che racconti, come di un unicum nella storia milanese recente. In che cosa consisteva questa unicità?
Al Giambellino avvenne nel 1960 una delle prime spaccature a sinistra nella storia del Pci. Ciò che rese importante quella spaccatura furono i suoi contenuti politici. Ad uscire o ad essere espulsi dal partito furono decine di operai. Ma quegli operai erano figli e protagonisti della Resistenza. Poi protagonisti delle lotte operaie negli anni Cinquanta. Consideravano il Pci un partito revisionista e traditore degli ideali della Rivoluzione d’ottobre. Lungi dal considerare conclusa la spinta propulsiva del 1917, essi intendevano riappropriarsi dei contenuti originali di quella rivoluzione e da lì ripartire. I compagni del “Luglio ’60” erano totalmente assorbiti nel tessuto sociale del Giambellino e trascinarono con sé l’intero quartiere. Questo legame, che era profondamente politico, perdurò anche agli albori della lotta armata. In Piazza Tirana si tenevano comizi delle Br con la polizia che non interveniva. Sui tetti delle case popolari non era raro vedere sventolare bandiere rosse con la stella a cinque punte. Credo che una situazione simile sia stata vissuta solo in questo quartiere.
E oggi che quartiere è il Giambellino? E che città è Milano?
La domanda meriterebbe un’ampia risposta che in questa sede non è pensabile. A Milano, come in tutte le grandi città, il potere tenta di chiudere tutti gli spazi di critica al sistema. I metodi utilizzati sono tali da indurre la sensazione dello sconforto e della rinuncia. È evidente la sproporzione esistente tra la repressione e le ragioni che la genererebbero. L’intenzione, come già avvenne ad esempio a Genova nel 2001, è quello di normalizzare la città. Il passaggio stesso verso una crescente istituzionalizzazione degli spazi storicamente più radicali di Milano, vedi i centri sociali, è la dimostrazione più evidente di questo pessimismo strisciante e del profondo conformismo che investe la sinistra antagonista.
Il Giambellino negli ultimi trent’anni è stato sventrato. È mutata la morfologia del territorio e la composizione sociale del quartiere. Si sono acuite le distanze di classe che un tempo erano cementate dalle lotte del rione. Da un lato i vecchi abitanti che difendono il proprio miserabile spazio, dall’altro le giovani famiglie di immigrati nordafricani che hanno occupato in massa le case popolari comprese tra Piazza Tirana, Via Giambellino, Via Inganni e Via Segneri. Tra questi due mondi regna una totale incomunicabilità.
«…noi Morlacchi, e per Morlacchi intendo i proletari, intendo le classi subalterne, intendo gli sconfitti della storia, abbiamo fatto un passo da giganti in avanti. Ci avete sconfitti? Va bene! Siete più forti? D’accordo! Ma intanto abbiamo fatto un passo in avanti epocale». In cosa è consistito questo passo, Manolo?
Il passo compiuto è la lotta del movimento operaio e comunista del secolo scorso. Nel Novecento questo movimento ha dato l’assalto al cielo. Ha conseguito grandi vittorie e ancora più cocenti sconfitte. Oggi sembra ridotto al silenzio. In Italia sembra del tutto seppellito. Eppure, quelle vittorie e quelle sconfitte rappresentano un bagaglio essenziale e decisivo per quando il conflitto riprenderà in forma più manifesta. In questo sta l’importanza di quelle lotte. E non si tratta unicamente di questioni politiche. Il lascito del Novecento è anche un potentissimo lascito culturale, umano, progressista che attende solo di essere riafferrato.
Ma la tua domanda mi permette anche di fare una precisazione sul titolo che, capisco, potrebbe creare dei fraintendimenti. La scelta del titolo La fuga in avanti nasce in primo luogo da un volantino del gruppo “Luglio ’60” laddove si scriveva: «…e non ci vengano a parlare di fuga in avanti, gli specialisti delle fughe all’indietro». Ma soprattutto questa fuga mi ha più volte suggerito l’immagine della fuga guerrigliera dove quel “avanti” rappresentava il senso del progresso.
Giuliano Boraso
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