Spunti ed opinioni: il materialismo storico,Keynes e Marx
IL MATERIALISMO STORICO
La concezione materialistica ha come assioma che la materia esiste indipendentemente dall'esistenza o meno di un ente sopranaturale.
Il materialismo storico parte dal presupposto che l'uomo, evoluzione della materia, materia organica e pensante, prima di essere tale (cioè pensante) è materia organica, e quindi deve nutrirsi, ovvero è la produzione e riproduzione della vita materiale che permette all'uomo di progredire intellettualmente e socialmente.
Questo può sembrare un modo molto rozzo di ragionare, ma è da tenere presente quando si affronta qualsiasi argomento filosofico.
Per dirla con Marx: "[...] il primo presupposto di ogni esistenza umana,e dunque di ogni storia, il presupposto cioè che per poter «fare storia» gli uomini devono essere in grado di vivere. Ma il vivere implica prima di tutto il mangiare e il bere, l'abitazione, il vestire e altro ancora. La prima azione storica è dunque la creazione dei mezzi per soddisfare questi bisogni, la produzione della vita materiale stessa [...].
(Karl Marx, "L'ideologia tedesca"-Editori Riuniti 1993, pag. 18)
Dunque, prima di dire "cogito, ergo sum" l'uomo ha sicuramente esclamato "o mangio o non esisto", e questo è incontestabile. Senza tranquillità economica, e quindi surplus alimentare, non vi è produzione di idee sociali e tantomeno sviluppo economico-sociale.
Il rapporto è quindi dialettico, l'intelligenza umana ha permesso lo sviluppo economico che di riflesso ha permesso lo sviluppo sociale; a sua volta lo sviluppo sociale ha dato all'uomo tempo per coltivare l'arte e la filosofia, che a loro volta hanno influenzato lo sviluppo sociale.
Questo è un presupposto da cui si sviluppa la concezione materialistica della storia, ed ogni testo che tratta tale argomento.
La maturazione di Marx ed Engels dalle posizioni democratiche a quelle comuniste, compiuta nei primi anni '40 del secolo XIX, avvenne parallelamente al passaggio dalla concezione idealistica, che ebbe nel tedesco Hegel il suo massimo esponente, a quella materialistica. Essa, al contrario dell'idealismo, vede nell'elemento materiale la base di tuta la realtà: dalla natura, all'uomo, alla società, alle stesse idee che l'uomo si fa nella propria testa su tutte queste cose. É applicando questa concezione che Marx ed Engels poterono affrontare lo studio scientifico in un campo dove sembrava non poter valere alcuna regola precisa: la storia, la politica.
Leggiamo uno dei passi più significativi in proposito:
"Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L'insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere ma è, al contrario, il loro essere sociale a determinare la loro coscienza.
A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (il che è l'equivalente giuridico di tale espressione) entro i quali queste forze fino ad allora si erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono nelle loro catene. E allora subentra un'epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura.
Quando si studiano simili sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche, che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo. Come non si può giudicare un uomo dall'idea che egli ha di sé stesso, così non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che ha di sé stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale, con il conflitto esistente tra le forze produttive della società e i rapporti di produzione.
Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; i nuovi superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza. Ecco perché l'umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose da vicino, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione.
A grandi linee, i modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese, possono essere designati come epoche che marcano il progresso della formazione economica della società. I rapporti di produzione borghesi sono l'ultima forma antagonistica del processo di produzione sociale; antagonistica non nel senso di un antagonismo individuale, ma di un antagonismo che sorga dalle condizioni di vita sociali degli individui. Ma le forze produttive che si sviluppano nel seno della società borghese creano in pari tempo le condizioni materiali per la soluzione di questo antagonismo. Con questa formazione sociale si chiude dunque la preistoria della società umana."
[Karl Marx: introduzione a "Per la critica dell'economia politica - 1859"]
Vi sono moltissime opere storiche scritte utilizzando il materialismo dialettico come strumento interpretativo,e vi sono molti scritti di Marx e di Engels sull'argomento; ma il testo che proporrò al navigatore è "Del materialismo storico" di Antonio Labriola.
Lascio quindi il lettore al saggio del grande pensatore italiano.
Antonio Maggio 05/06/2006
Keynes e Marx
[Lenin, Lo stato e la rivoluzione]
“Gli scritti di Marx e di Engels furono mai letti per intero da nessuno, il quale si trovasse fuori della schiera dei prossimi amici e adepti, e quindi dei seguaci e degli interpreti diretti degli autori stessi? Furono mai quegli scritti fatti tutti oggetto di commento e di illustrazione?” – si chiedeva con giustificata preoccupazione, circa cent’anni fa Antonio Labriola, Discorrendo di socialismo e di filosofia. E continuava chiedendosi se ci sia “molta gente al mondo che abbia la pazienza di mettersi a leggere tutti gli scritti dei fondatori del socialismo scientifico, parso fino a ora come un privilegio da iniziati! Che meraviglia, dunque, se molti e molti scrittori, e specie tra i pubblicisti, abbiano avuto la tentazione di ritrarre, o da critiche di avversari, o da citazioni incidentali, o da frettolose illazioni ricavate da brani speciali, o da vaghi ricordi, gli elementi per foggiarsi un “marxismo” di loro invenzione e maniera? Di fatti – concludeva il vecchio Antonio – i dottrinari e i presuntuosi d’ogni genere, che han bisogno degli idoli della mente, i facitori di sistemi classici buoni per l’eternità, i compilatori di manuali e di enciclopedie, cercheranno per torto e per rovescio nel marxismo ciò che esso non ha mai inteso di offrire a nessuno”.
Ora, la ragione di un tale “cominciamento” dovrebb’essere fin troppo evidente e chiara: nulla di nuovo risplende sotto il sole. “Per torto e per rovescio”, diceva infatti Antonio Labriola, giacché ancora oggi veri nemici e falsi amici del marxismo continuano a rivoltarlo da tutte le parti per attribuire a esso le affermazioni più infondate e foggiate “di loro invenzione e maniera”. Serietà vorrebbe che si parlasse solo di ciò che si conosce – e per questo non basta che l’oggetto in questione sia “noto” ai più, direbbe Hegel. “Ignoranza” – in italiano – vuol dire semplicemente, infatti, che una cosa la si ignora, non la si conosce: e dunque sarebbe meglio tacerne. Invece, ecco che nemici e “amici”, pur di parlarne e di far parlare di sé, assumono – con stucchevole scherno keynesiota – Marx a “profeta”: certo, disconoscendolo, per poterlo meglio irridere e demonizzare.
Ecco perciò che fioriscono i “marxismi” (con la “i”, al plurale), perché pubblicisti o dottrinari, dottrinari pubblicisti e pubblicisti dottrinari – per non dir dei politici d’accatto – non sospettano neppure che la verità scientifica che si ricerca con gran fatica (ma soltanto da parte di coloro che realmente vogliono ricercarla) è una sola e non ammette vacue “interpretazioni” di “invenzione e maniera”, presuntivamente buone per ogni uso. Non si può, insomma, “usare” una teoria, nessuna teoria degna di tale nome, che sia stata laboriosamente costruita su sue specifiche basi, per applicarla a contenuti e fini diversi, come fosse un volgare attrezzo! Il povero Hegel, che ha passato un’intera vita per spiegare tutto ciò a colti e profani, riuscendo però a farsi capire pienamente almeno da Marx, si rivolterebbe nella tomba, al cospetto proprio di coloro che insistono a definirsi “marxisti”, pur nel loro più rozzo e sincretico eclettismo.
Non per niente, proprio Marx – criticando i socialdemocratici tedeschi – invocava perentoriamente di non fare “alcun traffico di princìpi”. Succede invece che, ripetutamente e sempre più spesso, Marx(ismo) e Keynes(ismo), che sono fondamentalmente irriducibili – e più avanti si ripeterà brevemente, per l’ennesima volta, il perché – vengano inopinatamente messi uno accanto all’altro, l’uno sopra o sotto l’altro, l’un dentro l’altro, come se fossero indifferentemente intercambiabili e integrabili. Del resto, non rappresenta neppure una novità ciò che i moderni “marxologi” si compiacciono di chiamare arricchimento, integrazione, approfondimento di Marx: fin dai tempi del giovane Lenin ci sono state successive ondate di “marxisti” i quali, procurando i guasti che tutti sanno, hanno “approfondito” Marx! Quel che non si capisce – non è la prima volta che lo si dice – è perché “asinistra” si insista tanto per passare da “marxisti”: non ce n’è nessun motivo. Non c’è niente di male – oddio, insomma, si fa per dire – a essere socialdemocratici, basta dirlo: orgoglio riformista!
L’eclettismo di cui si sta parlando consiste essenzialmente nel cercare disperatamente di rendere compatibili due analisi contrapposte a causa degli opposti punti di vista di classe. Ma ciò cui questo eclettismo ambisce consiste proprio nel cancellare l’analisi di classe, e le classi stesse con la loro lotta: altrimenti esso non potrebbe “usare” una pseudoteoria spuria di parte borghese, come il keynesismo, per “approfondire” il marxismo comunista. Né servono scappatoie luxemburgiane per salvare il keynesismo.
Sicché si finge di ignorare che il keynesismo è liberale; e pur se non si possono trascurare le differenze esistenti nello stesso fronte liberale capitalistico – differenze emergenti a seconda delle fasi di accumulazione e crisi, nelle diverse attitudini “premiali” o “punitive” volta a volta necessarie al comando del capitale – i loro fondamenti non mutano. In questo senso, il keynesismo va, per così dire, sempre peggio, anche e soprattutto quello “asinistra”. In effetti, l’aggressività padronale, dovuta all’espansione della crisi, si è necessariamente manifestata nella soppressione delle precedenti regole, come liberismo monetarista, tanto che il “regolazionismo” così caro al “mondiplomatismo” francofono ha facilmente preso il posto del socialismo scientifico marxista nei cuori post(!!!)keynesiani dell’asinistra. Veramente bello questo attribuirsi il post per designare tutto ciò che si vuole come “nuovo” nella sedicente sinistra!
Tantissime sarebbero le cose da dire e da scrivere contro siffatte mistificazioni del marxismo, in nome del keynesismo-post. Ma: ne vale la pena? Assolutamente no! I keyneso-marxisti sono totalmente sordi a ogni considerazione critica, che non sia più che benevola e permissiva nei confronti del loro indeterminato, quanto sciagurato, eclettismo. Le aggressioni classiste di Keynes nei confronti di proletari e comunisti sono innumerevoli. Per elencarle tutte, ed esaminarle sia pur brevemente, occorrerebbe almeno lo spazio di un libro (non che il materiale non ci sia e non sia già disponibile in abbondanza*). Senonché, anche l’ordine in cui esporre le argomentazioni andrebbe ponderato e ragionato, ma questa impresa è ardua e il luogo divulgativo e contro/informativo qui previsto non è quello idoneo.
Non conviene, perciò, dar qui altro ordine che quello abbastanza casuale, fornito dalla stessa esposizione polemica data dai nostri involontari interlocutori, “fratelli Ignorantelli dell’economia politica borghese” [per usare la bella espressione che Marx, nel 1873, contro Proudhon e i proudhoniani, consegnò ai lettori lodigiani, e italiani in genere, di La plebe, nella sua critica all’indifferenza nella politica]. Del resto – volendo qui colpire il peccato e non il peccatore – vanno dette un paio di cose. Da un lato, ci sono quelli che più ignorano, non comprendono e contraffanno Marx, cercando di trovarlo dentro Keynes o mettendo questi dentro Marx, senza giustificazione alcuna. Dall’altro, non tutti ignorano o travisano completamente Marx; cionondimeno, anche i migliori tra loro, facendo veri e propri salti mortali, lo torcono al punto da provare a renderlo “compatibile” con Keynes, per tentare di salvare il salvabile di quest’ultimo: impresa eroica e disperata.
Basterà, dunque, fare qui un volo pindarico su alcuni soltanto – una decina, per far cifra tonda – dei troppi luoghi comuni diversamente visitati (chi mettendo l’accento più sull’una cosa, chi più sull’altra) da molti di tali soggetti, nel nome del keynesismo:
i. nella sua falsa critica a Say, Keynes integra l’insulso francese con la “visibilità” della mano, che fino ad allora, con Smith, era supposta invisibile; ma: a che serve tale escamotage? evidentemente, in una chiave che è palesemente irriducibile al marxismo, solo a rabbassare ogni cosa a forma di reddito anziché di capitale; quest’ultima questione rappresenta la forma alla quale si riduce tutta la sapienza keynesiana, in quanto – in ultima analisi – è proprio alla sola considerazione del “reddito”, che implica perciò la non considerazione del “capitale” (nel modo di produzione capitalistico!), che si possono ricondurre tutte le storture keynesiane; del resto, esse non sono affatto nuove, se si considera la nota 73 che Marx ha riservato a James Mill (sr.) nel cap.3 sul denaro del libro I del Capitale (ripresa, da Marx stesso, dalle pagine in II.2,a di Per la critica dell’economia politica del 1859, dove tra l’altro si legge: “la circolazione del denaro può avvenire quindi senza le crisi, ma non possono esservi crisi senza la circolazione del denaro”); il rapporto sociale, che il capitale implica nei confronti del lavoro salariato sottomesso, sul quale comanda, sparisce in un attimo; cosicché, pure la crisi può essere mollemente ascritta a semplice sottoconsumo, anziché a un’oggettivamente immanente sovraproduzione;
ii. Keynes non ha mai criticato sostanzialmente Say, a differenza di Marx; il lord inglese, nel suo splendido elitarismo, ha ripreso alcune formulette – così rese perciò insignificanti – da un certo Mc Cracken [sic!?] e non da Marx stesso (un po’ perché non lo capiva e un po’ per fare il prezioso); ne è risultato un pastrocchio, adorato però da keynesisti e post-keynesiani, in cui emerge tutta la falsità di Keynes a proposito della (a suo dire) casuale eccedenza di D’ su D, il che illustra a dovere sia la propensione affaristica di Keynes, sia la sua incomprensione scientifica verso la speculazione, ecc.: ma – ancòra - che c’entra il marxismo?
iii. ridurre a “domanda”, sia pure come categoria implicita, il modo di produrre nel capitalismo, è assolutamente estraneo all’autonomo operare del capitale in Marx: tutta questa mistificazione discende, ovviamente, dal rabbassamento a reddito appena indicato; del resto, le decisioni separate e contrapposte dei capitalisti in lotta per il profitto, in Marx, sono l’anarchia del modo di produzione capitalistico, in quanto tale, e null’altro; sicché la crisi da eccesso di sovraproduzione di valore e la conseguente caduta ciclica del tasso di profitto non ne sono altro che conseguenze, totalmente inconciliabili con il keynesismo di ogni risma.
iv. l’oggettività della sovraproduzione – per non parlare della caduta (tendenziale) del tasso di profitto – è, non solo implicitamente, negata dalle precedenti accettazioni dei vaniloqui borghesi; ma i keyneso-marxisti – al cospetto di una tale incontrovertibile oggettività della crisi – si dilungano scioccamente su banalità quali il presunto “sciopero degli investimenti”!; proprio in forza di tale oggettività, sicuramente non per caso, Marx parla della “società odierna per la sua stessa struttura economica”: e non certo per le “scelte” soggettive di capitalisti e loro funzionari politici;
v. l’esercito industriale di riserva è una cosa molto seria; non è possibile ridurre tutto tale discorso al semplice tema keynesiano della “disoccupazione”; sicché – nella vigenza del modo di produzione capitalistico – lo slogan della “piena occupazione”, non per caso rabbassata sovente a semplice “massima occupazione”, rivela tutta la sua illusorietà e pochezza (del resto, non è certo questa la prima volta che i marxisti che si rispettano ne denunciano la stupidità); in Marx l’antagonismo è nella produzione, ovverosia nella vendita della forza-lavoro come merce ad altri, e non nella distribuzione; se tale vendita non va a effetto, o è costretta a cedere terreno e denaro nello scambio, i lavoratori “in riserva” guadagneranno sempre meno, essendo reso più “liquido” e flessibile il loro lavoro stesso, e non saranno affatto disoccupati, ma ancor più comandati dal capitale, nel loro lavoro irregolare, emarginato e precario, pagati cioè a “cottimo” con salari detti d’efficienza e partecipazione: in una sola parola, si tratta di neocorporativismo, altro che keynesismo “sociale”!
vi. contro un tale soggettivismo, Marx non esitava a sostenere che il salario, in quanto determinato come valore capitalistico, è già minimo; viceversa, oggi, oltre alla pretesa di fissare un “salario minimo” o un “reddito di cittadinanza” (sempre minimo, naturalmente), va assai di moda anche ricercare quale sia il cosiddetto nairu (tasso di disoccupazione naturale antinflazionistico!!) per “regolare” non solo il salario ma anche il livello di occupazione “sostenibile” – per il capitale, naturalmente; che ciò lo perseguano padroni e loro sicofanti è più che “naturale”; ma che sia ambìto anche dai “marxisti” è veramente ridicolo! è totalmente vanificata la lotta di classe del proletariato contro la borghesia [già: ma che cosa sono siffatte classi?!];
vii. l’oggettività del sistema salariale, in Marx, è tale che il salario stesso è sociale, cioè riferito all’intera classe, e non è semplicemente la forma monetaria del reddito individuale derivato dalla busta-paga; né, tantomeno, può essere dato – marxianamente – il benché minimo ascolto all’idea che la forza-lavoro non sia una merce, ma invece un’ideologia, tale che il “contratto di lavoro” sarebbe una jattura e, al contrario, un bel “contratto d’opera”, da prestare al padrone, sarebbe la risoluzione di tutti i mali e l’annullamento dello sfruttamento (ridotto a mera categoria morale, da evidenza scientificamente oggettiva che era in Marx);
viii. corollario di simili chiacchiere è la fandonia del salario “variabile indipendente”, di cui veramente non se ne può più; mentre per Marx, seguendo Smith, era chiaro che esso poteva, sì, variare in relazione all’accumulazione di capitale – e cioè alla storia – è evidente che i keyneso-sraffiani più o meno “sindacalizzati” utilizzino codesta fandonia per derubricare il salario stesso da valore della forza-lavoro, storicamente determinato, a quota di reddito “pariteticamente” prodotto e distribuito secondo la contribuzione di ciascuno: come se si stesse già nel socialismo [“a ciascuno secondo le sue capacità”, era la critica di Marx al programma di Gotha], anziché nel capitalismo, e segnatamente nella sua fase imperialistica; che il “salarimperialismo” si fondi sulle differenze nazionali dei salari, e che su tali briciole sia “fiorita” (si fa per dire) l’aristocrazia operaia inglese col connesso stato sociale fabian-laburista, agli “oltremarxisti” non passa neppure per l’anticamera del cervello; così come non sembra loro necessario denunciare la ricordata finzione “sociale” del neocorporativismo, presentata invece dai padroni con le espressioni di “efficienza” e “mercato”, naturalmente liberi!;
ix. in tema di reddito e sua distribuzione, su cui i keynesiani-post si deliziano per ipotizzarne (im)possibili “regolazioni” e redistribuzioni, non casualmente spicca la leva fiscale e monetaria dello stato; ma questa è pura follia, secondo Marx, giacché in base alla sua critica lo stato borghese stesso (e solo di questo, storicamente, ha senso parlare) si fonda sul dominio di tale classe sopra tutta la società, non esprime per nulla sentimenti o mediazioni universalistiche, e sancisce unicamente gli esiti, a volte mortali, della lotta tra capitali: se no, che altro sarebbe lo stato capitalistico – altro che la “terza parte” di cui si beano i neocorporativi keynesiani!?; altra cosa è la ricaduta indiretta (da non sottovalutare, certo) di quella lotta tra capitali, che, eccezionalmente e occasionalmente, può costringere lo stato borghese a concedere in “acconto” alcuni “buoni” servizi pubblici, fisco, ecc.; altra cosa, ancòra, è la limitazione legale, in quanto sia antagonistica, della giornata lavorativa, ottenuta cioè a séguito di un’imposizione giuridica conquistata con la lotta tra le classi.
x. le trovate keynesiane su moneta e denaro rinviano immediatamente alla mancata differenziazione tra reddito e capitale; sicché il denaro sia (anche linguisticamente, secondo la limitatezza anglosassone) rabbassato a semplice e generica “moneta”, che sempre e sola funziona come reddito, anche quando essa, per épater le bourgeois (è proprio il caso di dire!), è simbolicamente da Keynes chiamata “capitale”; perciò, quella che il lord definisce “preferenza per la liquidità”, sulla traccia del marginalismo fisheriano che l’ha preceduto, attribuisce erroneamente all’agente del capitale l’avversione al rischio; poco importa ai keynesiani-post-marginalisti che Pietranera abbia marxianamente mostrato come sia specificità del comportamento capitalistico l’esatto contrario: e cioè, non avversione bensì propensione al rischio, il che logicamente dovrebbe comportare un tasso di preferenza temporale e, perciò, di interesse negativo; con il che ogni illusione marginalistica e keynesiana di “spiegare” l’interesse naufraga miseramente; inutile aggiungere che simili bravate, in una forma o nell’altra, appena modificata, si ritrovano tutte in Proudhon o Gesell: con buona pace di Marx – e ho detto tutto (chiuderebbe Totò)!
In conclusione, e in estrema sintesi*, basta tirare le fila dei ragionamenti svolti. Se si trattasse soltanto dell’“arricchimento” di Marx tentato da tanti “sentimentalsocialisti” – per usare la bella e sferzante definizione marxiana – seguaci di Proudhon (dei quali, per carità teoretica, è meglio tacere i nomi, ché tanto negherebbero recisamente di esserlo prima del terzo canto del gallo!), secondo cui le classi sono sociali e storiche, e non di reddito, beh!, allora basterebbe leggere con un minimo d’attenzione, nel senso auspicato da Antonio Labriola, le parole scritte da Marx stesso, per capire che codesta considerazione era stata già abbondantemente argomentata proprio da Marx. Ma, ahinoi, non si tratta solo di questo.
Il fatto è – com’è stato anticipato – che sono le classi stesse, e la loro lotta, a essere espunte dalla scientificità dell’analisi marxista; sicché tale considerazione possa essere presentata come “cattiva” ideologia comunista. Ma – se non ci si arresta alla superficie dell’esposizione, e si scende a un livello adeguato di analisi critica dell’economia politica – considerare le classi moderne e la loro lotta vuol dire capire che si è al cospetto dello scambio ineguale tra lavoro morto e lavoro vivo. Qualora si rabbassi, invece, l’analisi a produzione e, soprattutto, scambio semplice di merci (nella migliore ipotesi, ché altrimenti si sta nella mera circolazione di valori d’uso), il modo capitalistico della produzione sociale si dilegua nel nulla. Ed è precisamente, come sopra si è rammentato, ciò che Marx rimproverò a tutta l’economia politica (a cominciare da James Mill e Say), e che dal XX sec. si ritrova senza tèma nelle diverse forme di keynesismo.
Non è per ciò affatto strano che – dal keynesismo gesell-proudhoniano – discenda immediatamente quella citata presunzione di definire “lavoratori” tutti coloro che svolgano una qualsiasi attività, diversa dal “tagliar cedole” del redditiero parassita, e quindi anche quella dell’agente del capitale in quanto attivo sfruttatore del lavoro altrui. Di qui, pel tramite dell’ipocrisia del “risparmio” – oggi tanto di moda, attraverso la speculazione borsistica, di cui cade vittima la cosiddetta “mano debole” del “parco buoi” di coloro che si affidano ciecamente ai cosiddetti “consulenti finanziari” – trae spunto anche la definizione, opposta, che qualifica perciò come “capitalisti finanziari” perfino i lavoratori dipendenti, quelli cioè che erogano gratuitamente pluslavoro per i padroni capitalisti. L’insulsaggine della concezione monetaria che c’è dietro, tale che ogni distinzione tra liberismo e neoliberismo mostra sùbito quanto sia fittizia e altrettanto ridicola, fa da corollario a tutto ciò, ed è stata dianzi considerata.
In generale, anche il keynesismo di ogni fatta, al pari delle altre tesi borghesi dominanti, trasforma ogni relazione unidirezionale in una che vien mostrata come, impropriamente, biunivoca (lo si è visto prima, a es., a proposito del rapporto tra crisi e denaro). Perciò, anche i keynesiani-post invertono continuamente la causa con l’effetto, sì che possa essere vanificato ogni tentativo di ricercare le cause delle contraddizioni capitalistiche, nella dimostrazione scientifica dello sfruttamento del lavoro altrui. Dileggiando il “secondo principio eterno” di Proudhon, laddove i di lui seguaci affermano perentoriamente, appunto, che “la proprietà è il frutto del lavoro”, Marx commenta sarcasticamente “ ... degli altri, essi si sono dimenticati di aggiungere”.
Dunque, non può sorprendere più di tanto che cospicui post-keyneso-marxisti attribuiscano alle pressioni neoliberiste degli anni 1980 – tenute mondiplomaticamente ben distinte da quelle liberiste, ché includerebbero pure quelle keynesiane! – nientemeno che la causa della “disoccupazione di massa” nell’intero mercato mondiale capitalistico. Ma tali “pressioni” – che richiedono una marcia a ritroso, altrimenti non si “capirebbe” perché i padroni non abbiano “premuto” prima!? – sarebbero la risposta soggettivamente data dal grande capitale transnazionale alle lotte operaie del decennio precedente. Pertanto, sarebbe questo insieme di presunte “cause”, a scaricabarile, ad aver indotto i governi dei paesi capitalistici ad abbandonare le cosiddette politiche keynesiane. Tutti quanti codesti neo-soggettivisti della regolazione sociale non ipotizzano neppure lontanamente che le loro supposte “cause” siano in realtà effetti, ed abbiano come loro causa causante comune la stringente e inevitabile oggettività dell’eccesso di sovraproduzione che periodicamente erompe nelle crisi.
Di fronte a tali differenze concettuali, perciò, non si vede come si possa cercare di rendere compatibile il keynesismo col marxismo. Ma, a questo punto, sembrerebbe inutile anche raccattare qua e là punti empirici di convergenza parziale tra le due impostazioni, per un duplice motivo: l’uno perché, a ben guardare, assai poche sono le considerazioni pratiche che il keynesismo potrebbe portare in aggiunta al marxismo (se questo fosse adeguatamente conosciuto), senza cozzare con la dialettica storica con cui quest’ultimo analizza il divenire materiale del modo di produzione capitalistico; l’altro, per l’appunto, perché anche la maggior parte delle intuizioni empiriche del keynesismo sono fondate (epperò proprio empiristicamente) su categorizzazioni e classificazioni in definitiva antitetiche a quanto sviluppato dal marxismo.
In questo senso – tra l’altro, sia detto per mera incidenza, e in netta contrapposizione al romanticismo economico – va chiarito che non è neppure da ritenere soddisfacente il cosiddetto “marxismo analitico”, perché esso, o scivola nel neomarxismo sraffiano, o, qualora a quest’ultimo pur si contrapponga radicalmente, ne rimane comunque condizionato dal terreno (“analitico”, appunto) che sostituisce la ricerca “quantitativa” positivistica a quella storica dialettica. [Non è un caso che il nesso tra valori e prezzi, col cosiddetto “problema della trasformazione”, o la questione relativa alla misurazione della composizione tecnica (e organica) del capitale, con la connessa “caduta tendenziale del tasso di profitto”, siano i temi privilegiati da quella scuola di marxismo, che per ciò stesso è portata a polemizzare, magari implacabilmente, sul terreno sraffiano, perdendo ogni riferimento hegeliano di Marx, che potrebbe anche essere criticabile, ma che è certo innegabile].
Insomma, allora, perché i “sentimentalsocialisti” devono esclamare: viva Hegel? Sembrerebbe piuttosto assai più corretto, per loro, ripetere: viva Proudhon!
Nota
Si rimanda qui ai diversi scritti sulle tematiche in questione; sia chiaro che indico qui solo quanto pubblicato sotto il mio nome, non perché io ritenga ciò più rilevante di altro, copioso, materiale variamente presente; ma solo perché a me personalmente è stato richiesto di esprimere la mia opinione sul rapporto tra Marx e Keynes; sicché, se qualche lettore fosse interessato a considerare argomentazioni più analiticamente dettagliate, si dànno qui appresso (in doppio ordine cronologico e suddivisi, il primo gruppo per la specificità teoretica, il secondo gruppo per un’applicazione prevalentemente politica) tutti quei riferimenti bibliografici che possono colmare l’insufficienza espositiva racchiusa in poco più di 20000 caratteri, senza appesantire un’esposizione che già così, nonostante tutto, presenta diverse ripetizioni.
Mille modi per uccidere Marx (note per un dibattito sulla "crisi e morte del marxismo"), Zero e dintorni, 1, Roma 1978
Contro l'uso culinario del marxismo, Lineamenti, 7, Padova 1985
Il sandalo e il mantello, (in Saggi in onore di Federico Caffè, vol. II), Angeli, Milano 1992
Lo stato asociale del capitale, la Contraddizione, 31, Roma 1992
Fuga da Marx, la Contraddizione, 31, Roma 1992
La ragione del marxismo, la Contraddizione, 50, Roma 1995
La via fantozzesca al socialismo, Invarianti, Roma 1996
Gli inganni dello stato sociale, L’internazionale, Napoli 1997
Opinioni discrepanti sul marxismo, la Contraddizione, 63, Roma 1998
Il valore di Marx, la Contraddizione, 64, Roma 1998
Zibaldone del tempo di lavoro, Angeli, Milano 2000
L’Ostato (cura e introduzione), la Città del Sole, Napoli 2000
Il triangolo della morte sociale - il protocollo d’intesa neocorporativa, la Contraddizione, 38, Roma 1993
Oltre la sfera del tuono, la Contraddizione, 40, Roma 1994
Il lord, il profeta e il rozzo proletario, la Contraddizione, 53, Roma 1996
Il programma minimo di classe, Laboratorio politico, Napoli 1996
... ma allora, ditelo!, la Contraddizione, 58, Roma 1997
Classe, salario, stato, in Lo stato a/sociale, Laboratorio politico, Napoli 1998
Paesi molto bassi: il “miracolo” neocorporativo olandese, la Contraddizione, 67, Roma 1998
Commenti
Ma riprendere a studiare Marx può far molto bene.