Quello che scrivono Sofri e Bifo su Gaza
{Le vittime che servono per dire basta}
diAdriano Sofri (la Repubblica, 04.01.2009)
C’è una domanda cui bisogna rispondere. Sembra una domanda facile, e il
guaio è là. Che il numero dei morti palestinesi per l’offensiva israeliana a
Gaza sia così alto, e cresca ancora, è un segno di vittoria di Israele, o di
sconfitta, o di che cosa? E una sottodomanda, in apparenza ancora più
facile: che i morti palestinesi siano tantissimi, e quelli israeliani
pochissimi, è una vittoria o una sconfitta di Israele? Leggo che il generale
Yoav Galant, comandante della regione sud, ha dato la sua risposta secca ad
ambedue le domande, illustrando il proposito dell’offensiva: "Ributtare
indietro di decenni la striscia di Gaza in termini di capacità militare,
facendo il massimo di vittime presso il nemico e il minimo fra le forze
armate israeliane". Il massimo dei loro, il minimo dei nostri. Noi, i
generali, le donne e i bambini, e loro, i bambini, le donne e gli sceicchi.
Ah, come sono difficili le domande facili!
Si tratta del capriccio con cui il libero mercato fissa il pregio delle
diverse vite umane. Avete visto a che ritmo vertiginoso è cresciuto da noi
l’impiego del termine: Bioetica. L’impiego, e gli impiegati. La bioetica ha
a che fare coi progressi spettacolosi della medicina, della biologia,
dell’ingegneria genetica, gli inseguimenti trafelati della filosofia e del
diritto, e le supervisioni delle chiese. Una sua esemplare dichiarazione è
che "la vita umana è sacra e va difesa dal concepimento alla morte". La cito
non per ridiscuterla qui, ma per osservare che la nostra fresca sensibilità
bioetica si concede il lusso di concentrarsi sui due poli, il concepimento,
o almeno la nascita, e la morte, il capo e la coda, riservando un’attenzione
minore a quello che sta fra l’inizio e la fine, cioè alla vita nella sua
durata, che poi è la vita.
Così, benché le innovazioni che la scienza introduce e la filosofia insegue
col fiato corto e la religione rilega in pergamena, valgano per tutte le
disgrazie che investono l’intermezzo fra nascita e morte - la fame, le
malattie, le guerre - ce ne commuoviamo meno. La nostra guerra (di
religione) sulla trovata secondo cui la vita è così sacra da essere
"indisponibile" alla stessa singola persona vivente sta ai luoghi in cui la
vita viene mietuta all´ingrosso, come i nostri botti di Capodanno, adorati
da tutti tranne i cani i bambini e chi ha conosciuto una sola notte di
guerra, stanno ai bombardamenti su Gaza. Così vicino, oltretutto - due
sponde dirimpettaie- che si potevano sentire reciprocamente, e raddoppiare
l’allegria degli uni e lo spavento degli altri.
Io resto affezionato a Israele come a quella che potrebbe essere, "per un
pelo", la miglior madrepatria di un cittadino della terra di oggi, così come
lo sarebbe stata l’Atene del V secolo - per un pelo, la questione degli
schiavi. Siccome voglio così bene a Israele, e ne taccio da un bel po’ di
tempo, dirò come si è andato incupendo il mio stato d’animo settimana per
settimana. Ogni settimana, la rivista "Internazionale" pubblica una
rubrichetta di poche righe, intitolata "Israeliani e palestinesi", che
aggiorna il numero dei morti dell’una e dell’altra parte a partire dalla
seconda Intifada, cioè dal settembre del 2000.
Piano piano, ma inesorabilmente, la sproporzione è cresciuta, e se i morti
israeliani erano sempre stati meno numerosi, a un certo punto arrivarono a
essere solo la metà di quelli palestinesi, e già questo provocava un
turbamento complicato; poi il divario ha continuato ad accrescersi, finché
all’inizio di dicembre, ben prima dell’attacco a Gaza che fa impennare le
cifre, il totale dei morti palestinesi superava di più di cinque volte
quello dei morti israeliani (5.301 a 1.082). Complicato, il turbamento:
perché si è involontariamente indotti, come di fronte a ogni sproporzione
eccessiva, a desiderare che la forbice si riduca, ciò che può avvenire
riducendo le morti degli uni o moltiplicando quelle degli altri...
Descrivo qualcosa che assomiglia più a un riflesso condizionato che a un
pensiero. Del resto il mondo, benché secondo molti e benevoli suoi
passeggeri continui a progredire, è platealmente pieno di smisuratezze, a
cominciare dalla differenza fra ricchi e poveri, e fra vite medie che si
allungano spettacolosamente e vite medie dimezzate.
La popolazione ottuagenaria e passa dell´Europa potrebbe protestare di non
avere colpa nella popolazione sì e no quarantenne dello Zimbabwe: ma non
sarebbe del tutto vero. E non è vero, certo non del tutto, che gli
israeliani non c’entrino con la mortalità di guerra cinque volte superiore
dei loro vicini. La sproporzione si riproduce e si moltiplica in una
quantità di circostanze. Negli scambi di prigionieri, che Israele rilascia a
centinaia in cambio di uno o due propri, o anche di due salme, com’è appena
successo con gli hezbollah libanesi. Israele ha pressappoco undicimila
prigionieri palestinesi, la Palestina, cioè Hamas, uno solo, il povero Gilad
Shalit.
Negli ultimi otto anni, se non sbaglio, dalla striscia di Gaza sono stati
lanciati sulle città del sud di Israele migliaia di razzi sempre più
micidiali (l’ultimo ha colpito una scuola per fortuna evacuata di Beersheva,
aveva dunque una gittata di 40 km) facendo in tutto 18 morti. L’offensiva
aerea su Gaza ne ha fatti oltre 400 in pochi giorni, contro 4 dalla parte
israeliana: in ragione di più di 100 a uno. E’ vero che il conto dei morti
non dice tutto. Ad Ashkelon, Sderot, Ashdod, Gan Yavne, è un decimo della
popolazione di Israele a vivere sotto la minaccia quotidiana dei missili.
Tuttavia quel complicato turbamento resta, e anzi si fa sempre più pungente.
Dunque, la domanda: più morti palestinesi facciamo, più vinciamo? E la
sottodomanda: più forte è la differenza fra "il massimo dei morti loro" e
"il minimo dei morti nostri", più vinciamo?
C’è un argomento forte in favore di Israele. Israele fa tesoro della vita
dei suoi figli. Guarda con orrore il fanatismo islamista che addestra i
figli al suicidio assassino, e si inebria del loro "martirio". E’ appena
successo un episodio esemplare e agghiacciante. Nizar Rayan, sceicco
invasato, già mandante di un figlio kamikaze e reclutatore per amore o per
forza di scudi umani, nemico feroce di Israele come di Fatah, bersaglio
prelibato della caccia israeliana, si trovava in un edificio al quale è
arrivata la telefonata di avvertimento dello Shin Bet: sarebbe stato
bombardato di lì a poco. Rayan "non è scappato", dicono i suoi. Ha voluto
morire da martire, e si è tenuto stretti qualcuno dei dodici figli, qualcuna
delle quattro mogli: proprietà sue, vite consacrate non alla vita, ma alla
morte. Ma gli invasati, o i farabutti, non rendono un popolo correo del loro
fanatismo: nemmeno quella metà del popolo che li ha votati in un’elezione.
Tanto meno i bambini, e le sorelle e i fratelli ammazzati insieme dalle
incursioni, com’è inevitabile in uno zoo così fitto di umani e così
prolifico. Ci sono madri che non trionfano per la morte da shahid delle loro
creature, e invece rinfacciano al cielo e alla terra la doppia misura. La
madre delle cinque sorelline di Jabaliya ammazzate: "Se venisse ucciso anche
un solo bambino israeliano, il mondo intero si indignerebbe... Ma il sangue
dei nostri bambini non conta niente per il mondo". Non importa nemmeno da
che parte sia venuta la strage, come per le due sorelline di Beit Lahya,
ammazzate dal razzo kassam di Hamas, "per errore". Dice quel padre: "Non s’è
scusato nessuno. Siamo poveri".
La bioetica, dunque. Se davvero un’azione militare mirasse al "massimo di
vittime nel nemico", l’ideale sarebbe lo sterminio. Se la confermasse, il
generale che ha pronunciato una frase del genere andrebbe messo ai ferri. Ma
resterebbero sempre gli altri. Quelli - quasi tutti, fra le autorità, e a
gara di sondaggi e di voti- che dicono amaramente: "E’ la guerra. La guerra
esige le vittime civili. Noi facciamo di tutto per ridurne il numero". Non è
un buon argomento, non più. Non è "la guerra". E’ qualcosa di più, per il
soffocante odio di vicinato, e di meno, per la sproporzione delle forze. Di
quella sproporzione (provvisoria, peraltro, con l’Iran che incombe) Israele
non dovrebbe avvalersi per proclamare preziose le vite dei bambini
palestinesi come quelle dei proprii, e agire di conseguenza? Utopia? Certo,
bravi, continuiamo così. Se l’utopia troverà mai un luogo, sarà in quel
pezzetto di terra in cui il Dio di tutti gli eserciti ha deciso da sempre
(dalla strage degli innocenti, che nessun angelo avvertì, sospira Massimo
Toschi) di togliere il senno alle sue creature. Continuiamo così. Il sangue
dei martiri è il seme della cristianità ? diceva Tertulliano. Il sangue dei
martiri, anche di quelli equivoci e abusivi, è seme di qualunque pianta. Si
vuole cancellare Hamas? Sarebbe bello.
Ma i bambini e i ragazzi di Gaza che sopravviveranno ai bombardamenti aerei
(l’esperienza più paurosa) non avranno un futuro ragionevole e gandhiano.
L’ammasso di profughi e figli e nipoti di profughi che è Gaza ha un’età
media, ho letto, di 17 anni. Quanto al resto del mondo, dei razzi su
Ashkelon ha sentito sì e no parlare. Ma le immagini di questi giorni le ha
viste. Israele sembra aver smesso da tempo di badare all’opinione del mondo.
E’ vero che il mondo, quando gli ebrei erano al macello, applaudì o guardò
dall’altra parte. Appunto. Tzipi Livni si è industriata di spiegare al mondo
le sue buone ragioni, poi è bastata una frase ?"A Gaza non c’è una crisi
umanitaria"- per cancellarne ogni effetto.
Mi dispiace delle parole rassegnate di Yehoshua: "Non avevamo altra scelta".
Non è possibile che Israele, cioè gli israeliani, pensino e sentano di "non
avere altra scelta" ? dunque di non avere scelta. Ce l’hanno, sanno anche
qual è: tutti, o quasi. Sanno qual è, e vanno da un’altra parte. In cielo e,
tanto peggio, in terra. Nel giorno della strage nella moschea - ci sarà la
battaglia di propagande sul fatto che fosse un deposito di armi, o un
deposito di umani, o le due cose insieme, ma non cambia – l’ingresso dei
soldati israeliani fa temere che tutta la macabra contabilità della morte
stia per impazzire. Soldati bravi, ben equipaggiati e risoluti ad andare
avanti si troveranno di fronte, oltre a nemici votati alla morte, una gente
disperata ed esasperata, in cui i bambini sono la maggioranza. I carri
armati dovranno decidere che cosa fare quando si troveranno davanti una
folla di bambini. Poi, comunque vada, dovranno chiedersi ancora una volta
come tornare indietro.
Che dirò ai miei studenti nel giorno della memoria?
Franco Berardi "Bifo"
[15 Gennaio 2009]
«Hai fatto una strage di bambini e hai dato la colpa ai loro genitori dicendo che li hanno usati come scudi. Non so pensare a nulla di più infame […] li hai chiusi ermeticamente in un territorio, e hai
iniziato ad ammazzarli con le armi più sofisticate, carri armati indistruttibili, elicotteri avveniristici, rischiarando di notte il cielo come se fosse giorno, per colpirli meglio. Ma 688 morti palestinesi e 4 israeliani non sono una vittoria, sono una sconfitta per te e per l’umanità intera».
[Stefano Nahmad, la cui famiglia ha subito le persecuzioni naziste]
Insegno in una scuola serale per lavoratori, in gran parte stranieri.
E’ un ottimo osservatorio per capire quel che accade nel mondo. L’anno scorso, avvicinandosi il giorno della memoria che ogni anno si celebra nelle scuole, leggemmo brani dal libro Se questo è un uomo di Primo Levi. Avevamo parlato molto della questione ebraica, e della storia del popolo ebreo dalle epoche lontane al ventesimo secolo. Proposi che tutti scrivessero un breve testo sugli argomenti di cui avevamo parlato.
Claude D, un ragazzo senegalese di circa venti anni, piuttosto pigro ma dotato di vivacissima intelligenza concluse il suo lavoro con queste parole: «Ogni anno si fanno delle cerimonie per ricordare lo sterminio degli ebrei, ma gli ebrei non sono i soli che hanno subito violenza. Perché ogni anno dobbiamo stare lì a sentire i loro pianti quando altri popoli sono stati ammazzati ugualmente e nessuno se ne preoccupa?»
Questa frase mi colpì, e decisi di proporla alla discussione della classe, in cui oltre Claude c’erano cinque italiani due marocchini un peruviano una brasiliana, un somalo, due ragazze romene una ucraina e due russi. L’opinione di Claude era quella di tutti. Sia ben chiaro: nessuno mise in dubbio la verità storica dell’Olocausto, neppure Yassin, un ragazzo marocchino appassionato alla causa palestinese e sempre pronto a criticare con durezza Israele. Tutti avevano seguito con attenzione e partecipazione la lettura delle pagine di Primo Levi.
Però tutti mi chiedevano: perché non si fanno cerimonie pubbliche dedicate allo sterminio dei rom, dei pellerossa, o allo sterminio in corso dei palestinesi? Claude a un certo punto uscì fuori con una
frase che non potevo contestare: perché nessuno ha pensato a un giorno della memoria dedicato all’olocausto africano? Pensai ai milioni di suoi antenati deportati da negrieri schiavisti, pensai
all’irreparabile danno che questo ha prodotto nella vita dei popoli del golfo d’Africa occidentale, e conclusi il discorso in maniera che a tutti apparve risolutiva [vorrei quasi dire salomonica]: «Nel giorno della memoria si ricorda l’Olocausto ebraico perché attraverso questo sacrificio si ricordano tutti gli Olocausti sofferti dai popoli di tutta la terra».
Ammesso che la parola «identità» significhi qualcosa, e non lo credo, per me l’identità non è definita dal sangue e dalla terra, blut und boden come dicono i romantici tedeschi, ma dalle nostre letture, dalla formazione culturale e dalle nostre mutevoli scelte. Perciò io affermo di essere ebreo. Non solo perché ho sempre avuto un interesse fortissimo per le questioni storiche e filosofiche poste dall’ebraismo della diaspora, non solo perché ho letto con passione Isaac Basheevis Singer e Abraham Jehoshua, Gerhom Sholem, Akiva Orr, Else Lasker Shule e Daniel Lindenberg, ma soprattutto perché mi sono sempre identificato profondamente con ciò che definisce l’essenza culturale dell’ebraismo diasporico. Nell’epoca moderna gli ebrei sono stati perseguitati perché portatori della Ragione senza appartenenza. Essi sono l’archetipo della figura moderna dell’intellettuale. Intellettuale è colui che non compie scelte per ragioni di appartenenza, ma per
ragioni universali. Gli ebrei, proprio perché la storia ha fatto di loro degli apatridi, hanno avuto un ruolo fondamentale nella costruzione della figura moderna dell’intellettuale ed hanno avuto un
ruolo fondamentale nella formazione dell’Illuminismo e della laicità, e anche dell’internazionalismo socialista.
Come scrive Singer, nelle ultime pagine del suo Meshugah, «La libertà di scelta è strettamente individuale. Due persone insieme hanno meno libertà di scelta di quanto ne abbia una sola, le masse non hanno virtualmente nessuna possibilità di scelta».
Per questo io sono ebreo, perché non credo che la libertà stia nell’appartenenza, ma solamente nella singolarità. So bene che nel ventesimo secolo gli ebrei sono stati condotti dalla forza della
catastrofe che li ha colpiti, a identificarsi come popolo, a cercare una terra nella quale costituirsi come stato: stato ebraico. E’ il paradosso dell’identificazione. I nazisti costrinsero un popolo che
aveva fatto della libertà individuale il valore supremo ad accettare l’identificazione, la logica di appartenenza e perfino a costruire uno stato confessionale che contraddice le premesse ideologiche che proprio il contributo dell’ebraismo diasporico ha introdotto nella cultura europea.
In Storia di amore e di tenebra scrive Amos Oz: «Mio zio era un europeo consapevole, in un’epoca in cui nessuno in Europa si sentiva ancora europeo a parte i membri della mia famiglia e altri ebrei come loro. Tutti gli altri erano panslavi, pangermanici, o semplicemente patrioti lituani, bulgari, irlandesi slovacchi. Gli unici europei di tutta l’Europa, negli anni venti e trenta, erano gli ebrei. In
Jugoslavia c’erano i serbi i croati e i montenegrini, ma anche lì vive una manciata di jugoslavi smaccati, e persino con Stalin ci sono russi e ucraini e uzbeki e ceceni, ma fra tutti vivono anche dei nostri fratelli, membri del popolo sovietico».
Il mio punto di vista sulla questione mediorientale è sempre stato lontano da quello dei nazionalisti arabi. Avrei mai potuto sposare una visione nutrita di autoritarismo e di fascismo? E oggi potrei forse sposare il punto di vista dell’integralismo religioso che pervade la rabbia dei popoli arabi e purtroppo ha infettato anche il popolo palestinese nonostante la sua tradizione di laicismo? Proprio perché non ho mai creduto nel principio identitario non ho mai provato particolare affezione per l’idea di uno stato palestinese. I palestinesi sono stati costretti all’identificazione nazionale
dall’aggressione israeliana che dal 1948 in poi si è manifestata in maniera brutale come espulsione fisica degli abitanti delle città, come cacciata delle famiglie dalle loro abitazioni, come espropriazione delle loro terre, come distruzione della loro cultura e dei loro affetti.
«Due popoli due stati» è una formula che sancisce una disfatta culturale ed etica, perché contraddice l’idea -profondamente ebraica – secondo cui non esistono popoli, ma individui che scelgono di associarsi. E soprattutto contraddice il principio secondo cui gli stati non possono essere fondati sull’identità, sul sangue e sulla terra, ma debbono essere fondati sulla costituzione, sulla volontà di una maggioranza mutevole, cioè sulla democrazia.
Pur avendo un interesse intenso per l’intreccio di questioni che la storia ebraica passata e recente pone al pensiero, non ho mai scritto su questo argomento neppure quando l’assedio di Betlemme o il massacro di Jenin o l’orribile violenza simbolica compiuta da Sharon nel settembre del 2000 o i bombardamenti criminali dell’estate 2006 provocavano in me la stessa ribellione e lo stesso orrore che provocavano gli attentati islamici di Gerusalemme o di Netanja o gli omicidi casuali di cittadini israeliani provocati dal lancio di razzi Qassam.
Non ho mai scritto nulla, mi dispiace doverlo dire, perché avevo paura. Come ho paura adesso, non lo nascondo. Paura di essere accusato di una colpa che considero ripugnante – l’antisemitismo. So di poter essere accusato di antisemitismo a causa della convinzione, maturata attraverso la lettura dei testi di Avi Shlaim, e di cento altri studiosi in gran parte ebrei, che il sionismo, discutibile nelle sue
scelte originarie, si è evoluto come una mostruosità politica. Pur avendo paura non posso però più tacere dopo aver discusso con lo studente Claude.
Considero il sionismo causa di infinite ingiustizie e sofferenze per il popolo palestinese, ma soprattutto lo considero causa di un pericolo mortale per il popolo ebraico. A causa della violenza sistematica che il sionismo ha scatenato negli ultimi sessant’anni, la bestia antisemita sta riemergendo, e sta diventando maggioritaria se non nel discorso pubblico nel subconscio collettivo.
Dato che non è possibile affermare a viso aperto che il sionismo è una politica sbagliata che produce effetti criminali, molti non lo dicono, ma non possono impedirsi di pensarlo.
Aprendo la discussione sulle parole dello studente Claude, ho scoperto che gli altri studenti, italiani e marocchini, romeni e peruviani, che pure nel loro svolgimento avevano trattato la questione secondo gli stilemi politicamente corretti, costretti ad approfondire il ragionamento e a far emergere il loro vero sentimento, finivano per identificare il sionismo con il popolo ebraico e quindi a ripercorrere
la strada che conduce verso l’antisemitismo. Considerando criminale e arrogante il comportamento dello stato di Israele, identificandosi spontaneamente con il popolo palestinese vittimizzato, finivano
inconsapevolmente per riattivare l’antico riflesso anti-ebraico.
Proprio la rimozione e il conformismo che si coltivano nel giorno della memoria stanno producendo nel subconscio collettivo un profondo antisemitismo che non si confessa e non si esprime. Perciò credo che occorra liberarsi della rimozione e denunciare il pericolo che il sionismo aggressivo rappresenta soprattutto per il popolo ebraico.
Trasformare la questione ebraica in un tabù del quale è impossibile parlare senza incorrere nella stigmatizzazione benpensante sarebbe [anzi è già] la condizione migliore per il fiorire dell’antisemitismo.
Si avvicina il 27 gennaio, che sarà anche quest’anno il giorno della memoria. Come potrò parlarne nella classe in cui insegno quest’anno? Non c’è più Claude, ma ci sono altri ragazzi africani e arabi e slavi ai quali non potrò parlare dell’immane violenza che colpì il popolo ebraico negli anni Quaranta senza riferirmi all’immane violenza che colpisce oggi il popolo palestinese. Se tacessi questo riferimento apparirei loro un ipocrita, perché essi sanno quel che sta accadendo.
E come potrò tacere le analogie tra l’assedio di Gaza e l’assedio del Ghetto di Varsavia del quale abbiamo parlato recentemente? E’ vero che gli ebrei uccisi nel ghetto di Varsavia nel 1943 furono 58.000 mentre i morti palestinesi sono per il momento solo mille. Ma come dice Woody Allen i record sono fatti per essere battuti. La logica che ha preparato la ghettizzazione di Gaza [che un cardinale cattolico ha definito «campo di concentramento»] non è forse simile a quella che guidò la ghettizzazione degli ebrei di Varsavia? Non vennero forse gli ebrei di Varsavia costretti ad ammassarsi in uno spazio ristretto che divenne in poco tempo un formicaio? Non venne forse costruito intorno a loro un muro di cinta della lunghezza di 17 chilometri di tre metri di altezza esattamente come quello che Israele ha costruito per rinchiudere i palestinesi? Non venne agli ebrei polacchi impedito di uscire dai valichi che erano controllati da posti di blocco militari? Per motivare la loro aggressione che uccide quotidianamente centinaia di bambini e di donne, i dirigenti politici israeliani denunciano i missili Qassam che in otto anni hanno causato dieci morti [tanti quanti l’aviazione israeliana uccide in mezz’ora]. E’ vero: è terribile, è inaccettabile che il terrorismo di Hamas colpisca la popolazione civile di Israele. Ma questo giustifica forse lo sterminio di un popolo? Giustifica il terrore indiscriminato, la distruzione di una città? Anche gli ebrei di Varsavia usarono pistole, bombe a mano, bottiglie molotov e perfino un mitra per opporsi agli invasori. Armi del tutto inadeguate, come lo sono i razzi Qassam. Eppure nessuno può condannare la difesa disperata degli ebrei di Varsavia.
Cosa posso dire, dunque, nel giorno della memoria? Dirò che occorre ricordare tutte le vittime del razzismo, quelle di ieri e quelle di oggi. O questo può valermi l’accusa di antisemitismo?
Se qualcuno vuole accusarmi a questo punto non mi fa più paura. Sono stanco di impedirmi di parlare e quasi perfino di pensare ciò che appare ogni giorno più evidente: che il sionismo aggressivo, oltre ad aver portato la guerra e la morte e la devastazione al popolo palestinese, ha stravolto la stessa memoria ebraica fino al punto che nelle caserme israeliane sono state trovate delle svastiche, e fino al punto che cittadini israeliani bellicisti hanno recentemente insultato
cittadini israeliani pacifisti con le parole «con voi Hitler avrebbe dovuto finire il suo lavoro».
Proprio dal punto di vista del popolo ebraico il sionismo aggressivo può divenire un pericolo mortale. L’orrenda carneficina che Israele sta mettendo in scena nella Striscia di Gaza, come i bombardamenti della popolazione di Beirut due anni fa, sono segno di demenza suicida. Israele ha vinto tutte le guerre dei passati sessant’anni e può vincere anche questa guerra contro una popolazione disarmata. Ma la lezione che ne ricavano centinaia di milioni di giovani islamici che assistono ogni sera allo sterminio dei loro fratelli palestinesi è destinata a far sorgere un nuovo nazismo.
Israele può sconfiggere militarmente Hamas. Può vincere un’altra guerra come ha vinto quelle del 1948 del 1967 e del 1973. Può vincere due guerre tre guerre dieci guerre. Ma ogni sua vittoria estende il fronte dei disperati, il fronte dei terrorizzati che divengono terroristi perché non hanno alcuna alternativa. Ogni sua vittoria approfondisce il solco che separa il popolo ebraico da un miliardo e duecentomilioni di islamici. E siccome nessuna potenza militare può mantenere in eterno la supremazia della forza, i dirigenti sionisti aggressivi dovrebbero sapere che un giorno o l’altro l’odio accumulato può dotarsi di una forza militare superiore, e può scatenarla senza pietà, come senza pietà oggi si scatena l’odio israeliano contro la popolazione indifesa di Gaza.
Commenti
"Nizar Rayan, sceicco
invasato, già mandante di un figlio kamikaze e reclutatore per amore o per
forza di scudi umani, nemico feroce di Israele come di Fatah, bersaglio
prelibato della caccia israeliana, si trovava in un edificio al quale è
arrivata la telefonata di avvertimento dello Shin Bet: sarebbe stato
bombardato di lì a poco. Rayan "non è scappato", dicono i suoi. Ha voluto
morire da martire, e si è tenuto stretti qualcuno dei dodici figli, qualcuna
delle quattro mogli: proprietà sue, vite consacrate non alla vita, ma alla
morte. Ma gli invasati, o i farabutti, non rendono un popolo correo del loro
fanatismo: nemmeno quella metà del popolo che li ha votati in un’elezione."
questo fa la differenza tra chi sa morire per il proprio popolo e le proprie idee e chi gioca a fare l'intellettuale con le chiappe al caldo, sia pur del gabbio.
Sofri, va a ca**re! se questa è la qualità degli intellettuali pro palestina, allora è meglio che si diano all'ippica o al giardinaggio, come lord indifferenti di fronte al massacro. avrebbero più dignità e farebbero meno danni.
il fatto che abbia scelto di morire così portandosi dietro la sua famiglia non ne fa un eroe.
Io sono abituato a gente che preferiva salvarli i figli affinché continuassero la lotta.
Sul fatto che fosse un farabutto è opinione di Sofri sulla quale io non concordo. In ogni caso,Sofri, dovrebbe ricordare molto bene la logica da martirio che accompagna i combattenti islamici avendo frequentato la cecenia durante il massacro perpetuato dai russi da quelle parti.
Furio, non credo che si possa avere la pretesa di spaccare con il bisturi in modo perfettamente esatto e collimante con quello che ognuno di noi pensa su questa vicenda ed in questo chiedere che tutto il perimetro del ragionamento coincida.
In qualche modo anche Sofri è un eroe. ha scelto di farsi della galera invece che scappare. Io non lo avrei fatto.
so che toccare Sofri è come toccare la madonna(forse non è il tuo caso, o almeno, forse tu non arrivi a difenderlo come fanno troppi che si dicono "di sinistra").
e posso anche rispettare, non avendone esperienza di quello che sofri ha passato, il passato di Sofri come militante di LC.
diciamo allora che il Sofri opinionista "in galera" coccolato dall'establishment benpensante di sinistra, per me ha scritto più stronzate che altro. senza dire, ma dovremmo farlo, che per ogni Sofri che scrive e si fa sentire ci sono migliaia di ospiti delle patrie galere più integri di lui e più meritevoli di attenzione, regolarmente negata e relegati in assoluto e disumano isolamento, umano, affettivo e culturale.
mi spiace, ma io non riesco a considerarlo un valido esempio di militanza. né di coerenza. e credo che prima di sputtanare gente più valorosa di lui dovrebbe pensare a quanto è fortunato a non finire in una galera israeliana, ma in una galera italiana con amichetti forse non abbastanza potenti da farlo uscire, ma di certo abbastanza potenti e pronti da garantirgli condizioni che gli altri detenuti - politici, e sottolineo politici - manco si sognano.
sui figli dello sceicco posso dire che c'è stata probabilmente la consapevolezza che, come i figli di Saddam, i suoi non avrebbero avuto via di scampo alcuna.
e come dico sempre: meglio una morte valorosa che l'umiliazione della cattura e della prigionia.
c'è chi riesce a morire libero per sua mano che a vivere prigioniero di canaglie. per fortuna.
Articoli interessanti per avere ancora una volta la conferma di un verità sintetizzata dai cinesi all'epoca di Mao che suonava pressappoco così:
"Hai solo un "proiettile" (metaforico) e devi scegliere tra un "revisionista" e un "imperialista". Punta al revisionista, lui lo hai alle tue spalle ed è il più pericoloso".
versione più "politica" del vecchio proverbio "Dagli amici mi guardi Dio, dai nemici mi guardo io"
Personalmente è un principio di giudizio che applico da sempre e non mi sono mai sbagliato.
Il mio pensiero in breve: due articoli cerchiobottisti che fanno il danno più insidioso perché confondono le idee di molti. Apparentemente solidali con le ragioni degli aggrediti (i palestinesi!!) per poi essere sentimentalmente vicini e/o clementi con gli orrori degli aggressori.
E' la solita vecchia tecnica del "tirare a campare": riempire cartelle di parole e pensieri ricorsivi o involuti (finti approfondimenti) per non andare alla radice dei fatti ed evitare così una posizione chiara e coraggiosa ma inevitabilmente rischiosa.
A Bif, che ha chiuso la lezione con la "spiegazione" che l'olocausto ebraico è il simbolo di tutti gli olocausti, vorrei segnalare l'eccellente libro di Finkelstein "L'industria dell'olocausto" poi ne riparliamo...
... o forse l'ha pure letto ma ha preferito la strada più comoda e quel giorno l'ha ricacciato nell'oblio della memoria.
Poi su Sof: ma come si fa a scrivere "Io resto affezionato a Israele come a quella che potrebbe essere, "per un pelo", la miglior madrepatria di un cittadino della terra di oggi, così come
lo sarebbe stata l’Atene del V secolo..." !! Ma non ha un po' di pudore? Possibile che qualunque cosa si dica sul neo quarto Reich debba essere sempre condito da genuflessioni e/o rassicurazioni verso lo stesso?
Questa è la mia posizione e sono sostanzialmente d'accordo con F.Detti.
Rimanendo in tema mi permetto di segnalare:
IL TRADIMENTO DEGLI INTELLETTUALI
http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=5456
E così possiamo escludere dalla nostra stima anche il Triviaglio.
Poi, se stare in galera a Pisa è poca cosa o sarebbe meglio una cella un metro per due è solo un modo per dire non è abbastanza?
Io so solo che dall'esperienza di L.C. e della commissione carceri nacque un filone di lotta armata (i Nap) proprio mentre quelli del MSI si dilettavano in esercitazioni di maggior ordine e disciplina.
Lo sappiamo bene che in galera ci stanno gli ultimi della terra, Furio.
Il fatto di avere chiari i presupposti dell'aggressione (che io definisco sionista proprio perché con l'ebraismo e le religioni in genere non mi ci mischio)
non significa che non veda come lì, purtroppo, quelli che sono rimasti a combattere sono quelli di Hamas e che l'OLP ha perso la leadership della lotta nel momento in cui si è trasformata in una congrega di gestori di aiuti internazionali e basta.
E fossi nella dirigenza OLP mi porrei il problema di sostenerli ed aiutarli combattendo, proprio per dare una prospettiva che sia altro rispetto all'orrore israeliano ed una resistenza che non ha altro in termini di prospettiva che un razzo Qassam.
Ora, detto questo io sono un laico ed un comunista e penso che avrei una qualche difficoltà a vivere (per usare un eufemismo) e condividere valori e modi di stare insieme tipici della cultura e dei valori di Hamas.
Tra quei valori c'è il fatto che penso di poter disporre della mia vita per come credo sia giusto usarla, ma non per quella di mio figlio o di mia moglie.
Perché dovrei accettare e convincermi del contrario?
Mi chiedo, al contrario, se quella gente una scelta l'abbia avuta in realtà. Lì, in quel contesto ed in quelle condizioni.
E dico che quella persona è morta insieme ai suoi cari perché un macellaio ha deciso comunque di bombardare un palazzo in cui sapeva esserci donne e bambini.
Indipendentemente da quel gesto quel carico di morte se la porta sulla coscienza chi ha ucciso.
non facciamo di questa roba, però, solo una roba estetica, in cui ci sono eroi da usare come simboli.
Dire che Bifo è solo apparentemente solidale con i palestinesi non sta né in cielo né in terra. Vuol dire non sapere nulla di Bifo e della sua storia.
Per chiudere su Israele, è vero che il sionismo ha costruito sulla tragedia della Shoa un collante che permette ed ha permesso di tutto, che il problema stia tutto lì in quella risoluzione del 1948 che di fatto sancì la violazione del diritto di un popolo.
Ma da lì a pensare di analizzare il contesto storico degli anni 30, delle leggi razziali, e dei campi di concentramento assumendo il punto di vista di qualche negazionista ne corre, cacchio se ne corre.
Oltre modo, in modo speculare, vedo che già gli israeliani si cimentano da par loro in una sorta di negazionismo che riguarda i palestinesi.