Definire un genocidio, seconda parte
SOCIOLOGIA
Le analisi sociologiche
Per diverso tempo, a partire dal processo di Norimberga e dall'approvazione della Convenzione, la discussione sul genocidio fu ristretta in un ambito quasi esclusivamente giuridico. Anche se di pari passo si sviluppava un'analisi filosofica e storica sempre più ricca sulla Shoah. Pur se le prime riflessione delle scienze sociali sul genocidio, infatti, appartengono agli anni Ottanta del XX secolo, è soltanto nel decennio successivo che esse diventano oggetto di approfondimento e dibattito, offrendo posizioni molteplici e spesso divergenti e iniziando a interagire in modo sempre più intenso con il lavoro che andava svolgendosi ormai da anni presso gli Holocaust Studies, luogo d'incontro e dibattito prevalentemente tra storici. Uno dei più frequenti interrogativi che era stato dibattuto in quest'ambito, era stato quello relativo all'unicità o alla singolarità della distruzione degli ebrei europei all'interno delle esperienze di mass killing e mass murder (omicidi di massa) del XX secolo. Nei Genocide Studies, sorti successivamente per opera in genere di scienziati sociali, lo scopo principale sembrava essere, invece, la ricerca di una definizione che potesse soddisfare tanto la conoscenza e spiegazione della Shoah quanto dei genocidi compiuti precedentemente e successivamente all'invenzione del termine.
La spinta a costruire modelli interpretativi capaci di racchiudere le diverse esperienze storiche di genocidio ha accompagnato fin dagli anni Ottanta la ricerca, soprattutto di carattere sociologico. Al primo contributo di Horowitz (1980), che vedeva il genocidio come la politica statale più estrema, utilizzata per imporre il proprio modello ideologico e sociale, e che lo considerava come culmine di una tendenza repressiva presente in tutti gli stati autoritari moderni, che tendeva a radicalizzarsi nei poteri totalitari (>> Autoritarismi; >> Totalitarismi), aveva fatto seguito la più articolata proposta di Leo Kuper (1981), che racchiudeva in tre categorie le motivazioni dei responsabili di genocidio: fare i conti con le differenze razziali, etniche e religiose; terrorizzare popolazioni conquistate; imporre un'ideologia politica. Ne derivava un elenco che, dai massacri di popolazioni indigene alla Shoah, da Hiroshima alla guerra nel Vietnam, includeva praticamente la maggioranza dei mass killing della storia moderna e contemporanea. Una nuova tipologia venne proposta da Helen Fein (1991), ipotizzando di inserire tutti i massacri di massa in quattro categorie (genocidi di sviluppo, genocidi dispotici, genocidi vendicativi, genocidi ideologici). L'approccio sociologico, in effetti, oltre a rimuovere completamente l'origine giuridica del termine, tendeva a destoricizzare gli eventi presi in considerazione per individuare un modello metastorico entro cui poterli inserire tutti quanti. L'idea del genocidio come «una forma di omicidio di massa unilaterale in cui uno stato o un'altra autorità intende distruggere un gruppo, così come esso e la sua appartenenza sono definiti dai colpevoli» (Chalk e Jonassohn, 1990), si prestava ad accomunare lo sterminio e riduzione in schiavitù degli abitanti di Melo e i massacri di Gengis Khan nel corso della conquista mongola, la crociata contro gli albigesi e la caccia alle streghe nella Scozia del XVI e XVII secolo, lo sterminio completo dei tasmaniani e quello all'80% degli herero, per non parlare dei numerosissimi casi inseriti accanto alla Shoah e ai crimini staliniani per riassumere il genocidio nel Novecento.
Il tentativo compiuto recentemente da Michael Mann (2005), di attribuire definizioni particolari (classicidio, politicidio, etnocidio) per eventi spesso sussunti sotto lo stesso termine di genocidio non gli ha impedito, al tempo stesso, di determinare i tratti comuni di quest'ultimo, individuati sommando tutti quelli presenti negli eventi storici ritenuti o ipotizzabili genocidio. Il risultato è quello di una definizione particolarmente articolata ma anche eccessivamente lunga e onnicomprensiva, che fa perdere al modello teorico la funzione riassuntiva e di generalizzazione, per attribuirle quella di sommatoria analitica dei caratteri degli eventi storicamente determinati.
Fonte: Marcello FloresDIRITTO
Quand’è che un massacro è genocidio?
I massacri prodotti da guerre di conquista, di religione, colonialiste, etniche sono stati via via archiviati nei libri di storia e altri ne sono seguiti. Da sempre si cerca di tessere una tela di regole, istituzioni, antidoti alla violenza volta ad annientare l’“altro”, sempre parzialmente disfatta, che si tratti degli indios d’America, degli armeni, degli ebrei, degli zingari, dei babula nel Congo, delle tribù indigene in Brasile e in Paraguay, degli hutu nel Burundi e dei tutsi in Ruanda, dei musulmani in Serbia o delle tribù “africane” nel Darfur.
Del massacro di più di 7000 musulmani bosniaci a Srebrenica nel 1995 si è occupata la Corte Internazionale di Giustizia in un’importante sentenza emessa il 26 febbraio 2007. La Corte ha confermato che a Srebrenica fu commesso un genocidio e ha condannato la Serbia per non aver impedito che il genocidio fosse compiuto dall’esercito della c.d. Repubblica Srpska e per non aver adeguatamente cooperato con il Tribunale penale internazionale per i crimini commessi nella ex Jugoslavia, in particolare evitando di catturare e consegnare al Tribunale il generale Mladić.
Nel raggiungere questa conclusione la Corte ha fornito un’interpretazione piuttosto articolata della Convenzione di New York del 9 dicembre 1948 per la prevenzione e la repressione del genocidio, in vigore dal 12 gennaio 1951, attualmente per 140 Stati, compresi gli Stati coinvolti nella controversia.
La Convenzione, dopo aver ribadito che “il genocidio, sia che venga commesso in tempo di pace sia che venga commesso in tempo di guerra, è un crimine di diritto internazionale” (art. I), riprendendo così la risoluzione n. 96 del 1946 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, definisce il genocidio all’art. II come
“a) l’uccisione di membri del gruppo;
c) la sottoposizione deliberata del gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale;
d)le misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo;
e) il trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro” (c.d. elemento oggettivo del crimine, o actus reus) che siano “commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte,
un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso” (c.d. elemento soggettivo del 74 | In.Law | 2 (2007) crimine, o mens rea). L’elemento soggettivo del crimine di genocidio comporta la volontà non solo di uccidere, ma anche quella di distruggere il gruppo in quanto tale (dolus specialis). In altre parole, la vittima del genocidio non viene colpita in quanto singola persona e per le sue qualità, bensì in quanto (e solo in quanto) appartenente al gruppo.
L’essenza del genocidio sta quindi nella spersonalizzazione della vittima per colpirla in nome dell’appartenenza a un gruppo-bersaglio, un’ingiustizia tanto più intollerabile in quanto le si toglie la stessa dignità di vittima.
A termini dell’art. III sono punibili non solo il genocidio in quanto tale, ma anche l’accordo mirante a commetterlo (conspiracy), l’istigazione diretta e pubblica a commetterlo (incitement), il mero tentativo (attempt) e la complicità (complicity).
L’art. IV stabilisce che “le persone che commettono il genocidio o uno degli atti elencati nell’articolo III saranno punite, sia che rivestano la qualità di governanti costituzionalmente responsabili o che siano funzionari pubblici o individui privati”. Ne deriva che gli organi statali che abbiano commesso atti di genocidio ne rispondono personalmente senza poter eccepire il fatto che ricoprissero una carica ufficiale dello Stato.
Si ritiene comunemente – e sia i lavori preparatori che la giurisprudenza anche più recente lo confermano – che la definizione di genocidio fornita dalla Convenzione è piuttosto ristretta e non comprende né il “genocidio culturale” (cioè la distruzione della cultura di un gruppo, di cui viene colpita ad esempio la lingua o i simboli religiosi), né il “genocidio politico” (cioè lo sterminio degli avversari politici, ad esempio tutti i comunisti in un regime fascista, o viceversa),né la “pulizia etnica” (ossia l’espulsione forzata di civili appartenenti a un gruppo da un’area geografica o da una città, nella misura in cui essa non comporta necessariamente la distruzione del gruppo).
L’art. II non richiede, a differenza delle norme sui crimini contro l’umanità, l’esistenza di una “prassi diffusa o sistematica”, cosicché non occorre che essa venga provata in giudizio, anche se
in pratica difficilmente il genocidio può essere commesso attraverso atti isolati o sporadici. Del resto un singolo atto di genocidio rende assai difficile provare il dolo specifico, cioè l’intenzione di distruggere il gruppo in tutto o in parte.
Quanto ai rimedi contro la violazione del divieto di genocidio, la Convenzione prevede, all’art. IV, la competenza dei giudici del solo Stato in cui il genocidio è stato commesso (locus commissi delicti), escludendo così la giurisdizione “universale” dei giudici di qualsivoglia Stato, nonché di un Tribunale penale internazionale da istituire (all’epoca) e che oggi, come la Corte internazionale di giustizia ha rilevato, può essere considerato qualsiasi Tribunale penale internazionale di In.Law | 2 (2007) | 75 carattere potenzialmente universale, compreso il Tribunale per i crimini commessi nella ex Jugoslavia istituito dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nel 1993.
A parte la Convenzione, che vincola i soli Stati contraenti, il genocidio è altresì vietato dal diritto internazionale consuetudinario, che vincola invece tutti gli Stati, riconducibile secondo la communis opinio alla categoria dello jus cogens e degli obblighi erga omnes.
Il genocidio è inoltre contemplato come crimine rientrante nella competenza del Tribunale per i crimini commessi nella ex Jugoslavia, del Tribunale per i crimini commessi in Ruanda e della Corte Penale Internazionale, talvolta con qualche variazione rispetto alla Convenzione del 1948. Ad esempio, l’art. 6 dello Statuto della Corte Penale Internazionale non accoglie l’ipotesi di conspiracy che invece compare all’art. III della Convenzione.
ad esaminare il crimine di genocidio esclusivamente dal punto di vista della responsabilità penale delle persone che hanno commesso gli atti di genocidio, si 76 | In.Law | 2 (2007) aggiunge oggi anche la citata sentenza della Corte Internazionale di Giustizia, che è invece incentrata sull’accertamento della responsabilità internazionale delloStato. Nel presente fascicolo di “In.Law” vengono esaminate due questioni assai delicate e centrali affrontate dalla Corte Internazionale di Giustizia nella sentenza su Srebrenica, concernenti il dolo specifico che caratterizza il genocidio, soprattutto riguardo alla distinzione tra genocidio e “pulizia etnica”, e la responsabilità dello Stato allorché un genocidio venga commesso. Entrambi i profili si prestano ad osservazioni critiche, che sono poi riprese nella recensione di una recente
monografia dedicata per l’appunto al genocidio.
Carlo Focarelli
Ordinario di Diritto internazionale
Università di Perugia
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