Teoria della crisi, modelli previsionali 2
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Adesso che abbiamo familiarizzato con i quattro schemi (o modelli ad alto livello di astrazione) vediamo quali diagrammi si producono con i dati dell'economia reale, a cominciare dall'andamento nel tempo dei dati di un paese-tipo, gli Stati Uniti. Li confronteremo poi con quelli della produzione industriale dei maggiori paesi (ricordiamo che l'andamento della produzione industriale è analogo a quello del saggio medio di profitto). Per questi paesi abbiamo una gran quantità di dati, se pur spesso frammentari e non del tutto comparabili, raccolti nell'arco di mezzo secolo (cfr. Il corso del capitalismo mondiale) e riguardanti l'intero ciclo dal 1860 agli anni '80 del secolo scorso. Per la produzione industriale abbiamo continuato la serie cercando di riempire le lacune; qui la visualizzeremo solo dal 1914 al 2008, periodo più che sufficiente allo scopo che ci prefiggiamo. Per gli anni dal 1980 a oggi i dati sono tutti di fonte ufficiale, principalmente OCSE. A sottolineare la continuità di un lavoro collettivo nel tempo, metodo, criteri e dati sono qui integrati continuando i precedenti lavori. Per gli approfondimenti sui lavori del passato, oltre al citato Corso, raccomandiamo specificamente al lettore: Scienza economica marxista come programma rivoluzionario; La crisi storica del capitalismo senile; Dinamica dei processi storici – Teoria dell'accumulazione. Incominciamo ad introdurre il nostro modello facendo parlare dati e grafici.
Nella figura 2, che ricaviamo, aggiornando i dati, dal nostro volume Dinamica dei processi storici del 1992, è percettibile, a partire dalla metà degli anni '70, un punto di flesso, ovvero il cambiamento della tendenza storica della produzione industriale. Molto evidente la struttura "frattale" dei dati: vi è autosomiglianza fra i singoli periodi e l'intero ciclo, secondo la legge di Mandelbrot. Con l'aggiornamento dei dati dal 1990 ad oggi l'andamento asintotico della curva a "S" risulta assai pronunciato.
Figura 2. Indice della produzione industriale USA dal 1860 al 1990 e curva regolarizzata.
Per ragioni di compatibilità, l'integrazione degli incrementi relativi anno per anno, ricavati dal diagramma di figura 5, con i dati che utilizzammo nel 1992 rapportati all'indice 1913=100 è solo indicativa. Per una valutazione esatta diamo separatamente la tabella dei dati aggiornati dal 1990 al 2008 con relativo grafico (figura 2 bis), dal quale è ugualmente possibile rilevare l'andamento discendente:
Incrementi relativi della produzione industriale USA dal 1990 al 2008. Fonte: OCSE, CIA Factbook
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1990
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1991
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1992
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1993
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1994
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1995
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1996
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1997
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1998
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1999
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2000
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2001
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2002
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2003
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2004
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2005
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2006
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2007
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2008
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1,7
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− 2,7
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0,8
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3,4
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5,4
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4,9
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4,5
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6
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3
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2,5
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2
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4,5
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− 3
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− 0,4
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− 0,3
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4,4
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3,2
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4
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(0,5)
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La figura 3, sempre ricavata dal volume citato, mostra in modo molto evidente non solo l'andamento asintotico a "S", ma una marcata diminuzione del numero di operai d'industria. Il punto di flesso è situato intorno agli anni '50, il calo assoluto inizia negli anni '80. Questa curva è particolarmente significativa perché indica, insieme al flesso, all'andamento asintotico e alla magnifica struttura frattale fra gli anni '20 e '30, gli effetti dell'aumento di produttività mentre nello stesso tempo aumenta regolarmente la popolazione. Questo andamento è un classico rivelatore della legge della caduta del saggio di profitto. L'aggiornamento agli anni successivi non è stato possibile per l'incompatibilità delle serie (le attuali tabelle storiche offrono il dato integrato di manifattura, miniere, trasporti e artigianato), ma anche in questo caso l'andamento è confermato da cifre isolate rinvenute in sedi diverse: di fronte al picco massimo del 1980 indicato nella figura 3, 20 milioni di salariati d'industria, abbiamo 17,4 milioni nel 2000, 16,2 nel 2005 e 15,9 nel 2007.
Figura 3. Popolazione operaia dell'industria manifatturiera degli Stati Uniti dal 1900 al 1990. Dati assoluti e curva regolarizzata. La curva è correlata a quella del saggio di profitto per via dell'aumento di produttività che è sempre indice della diminuzione degli operai in rapporto sia al capitale messo in moto che al valore unitario delle merci.
Nelle statistiche americane non compare ovviamente l'enorme massa di illegal workers, di cui si sa soltanto che sono circa il 10% degli immigrati clandestini (12 milioni secondo il governo, 20 milioni secondo un'inchiesta bancaria pubblicata da USA Today). Siccome solo nella zona di Los Angeles e nel sud della California il numero dei lavoratori in nero è stato stimato intorno al mezzo milione, è plausibile la cifra totale di 2 milioni (10% di 20 milioni). Anche le cifre sull'immigrazione e sui lavoratori clandestini sono molto significative perché sono un sintomo fondamentale della caduta del saggio di profitto. Una delle più potenti controtendenze alla legge della caduta è infatti il ricorso al lavoro in ambiente di bassa composizione organica del capitale. Nel settore delle costruzioni si ha il numero più alto di clandestini, il 15% della forza lavoro. A ciò si deve aggiungere la delocalizzazione di interi settori della produzione, per quanto riguarda gli USA specie in Messico e in Cina.
La figura 4 (ancora dal volume citato) mostra il classico, incredibile impennarsi della curva dei prezzi delle materie prime. Avevamo utilizzato i prezzi non depurati dall'inflazione in quanto, significativamente, è il loro stesso andamento a contribuirvi, mentre il valore dei prodotti dell'industria manifatturiera tende storicamente a scendere. Il grafico in questo caso non mostra alcun segno di struttura frattale perché la legge della rendita non permette recuperi nei cicli minori del sistema, se non molto parziali ed effimeri: il vulcanico esprimersi della produzione, teoricamente infinito, trova un limite nella finitezza fisica delle risorse della Terra, per di più pesantemente ipotecate dall'esistenza della proprietà.
Figura 4. Prezzi delle principali materie prime minerali e agricole dal 1860 al 1980.
La figura 5 completa l'andamento fino ai giorni nostri. I due grafici non sono integrabili a causa della diversa scala e soprattutto per la differenza dei "panieri" di materie prime che contengono. È comunque ben visibile lo stesso picco tra il 1972 e il 1981. La relativa stabilità della curva prima di tale periodo, addirittura dal 1860, e l'impennarsi successivo, dimostrano il cambiamento epocale dovuto alla crescita esponenziale della produzione che entra in contraddizione con la finitezza delle risorse. Di qui l'esplosione della rendita e quindi del capitale fittizio dovuto al drenaggio di plusvalore e alla sua conversione in credito bancario, il quale, a sua volta, in mancanza di valorizzazione nella sfera produttiva, genera massa monetaria "speculativa". Si tratta di un processo storico irreversibile. L'enorme drenaggio dovuto alla rendita va a gonfiare il capitale finanziario già esistente, soverchiante rispetto a quello industriale. La sua valorizzazione nei settori produttivi si fa ancora più problematica, e nella frenetica ricerca di un profitto o di un interesse, tutto viene reso vendibile; e diventa fittizio non solo il capitale ma anche il lavoro umano in "servizi" che sembrano produttivi di valore ma che in realtà lo ripartiscono soltanto nella società. Di qui l'inflazione, che superò il 20% in seguito alla crisi "petrolifera". Quando di fronte a questo meccanismo non c'è inflazione, e addirittura scende il prezzo delle materie prime (vedi il crollo del 2008), ciò significa che tutto il sistema è malato a partire dalla fondamentale produzione di plusvalore e che la crisi "finanziaria" è solo la febbre, non la malattia.
Figura 5. Prezzi delle principali materie prime fino al primo semestre del 2008.
Figura 6. Diagramma degli incrementi relativi della produzione industriale dei maggiori paesi dal 1914 al 2008 (dati di giugno, proiezione a dicembre). L'andamento della produzione industriale rispecchia fedelmente quello del saggio di profitto.
Che il sistema è malato lo si vede dalla figura 6 la quale, con la 7 e la 8 ricavate dalle stesse tabelle storiche, è la più interessante fra tutte quelle presenti in questo studio. Essa evidenzia la progressiva sincronizzazione delle maggiori economie, ovvero lo storico andamento asintotico degli incrementi relativi della produzione industriale. Questo diagramma è di importanza fondamentale perché rivela una contraddizione insanabile del sistema: l'impossibilità per i maggiori paesi di produrre, esportare merci, esportare capitali ed espandersi tutti insieme nel mondo globalizzato. I dati cinesi, riportati solo per gli ultimi anni, mostrano un'economia per il momento fuori dal coro. Quelli indiani sarebbero analoghi a quelli cinesi. La cosiddetta globalizzazione è nello stesso tempo una via di salvezza e un pericolo mortale per il capitalismo: un Capitale che prende sempre più le distanze dalle sue basi, cioè dalla proprietà e dalla nazionalità, diventa incontrollabile. E questo fenomeno non può che acuirsi. Nella divisione internazionale del lavoro molte tipologie di merci vengono abbandonate dalle industrie dei vecchi paesi capitalisti e la produzione si sposta nei paesi emergenti, i quali dispongono sia di forza-lavoro a basso costo, sia delle più recenti tecnologie, sia di nuovi e agguerriti apparati finanziari. Di conseguenza, in brevissimo tempo, i maggiori cinque o sei paesi di fresco capitalismo potrebbero rappresentare da soli l'intera produzione industriale del mondo. Già oggi avrebbero un potenziale produttivo in grado di soddisfare l'intera domanda di beni di consumo, anche durevoli. E stanno intaccando anche il settore primario dei mezzi di produzione.
Ma la produzione industriale coincide grosso modo con la produzione di plusvalore (lavoro produttivo) e quindi l'accumulazione mondiale tende a polarizzarsi, a far sì che i vecchi paesi capitalisti, produttori di servizi ormai per l'80% del PIL, debbano essere tributari di valore verso i nuovi paesi industriali. (Questo spiega ad esempio la situazione degli Stati Uniti nei confronti della Cina). Inoltre tutti i paesi industriali, vecchi e nuovi, devono versare un enorme tributo in valore alla rendita (petrolio e altre materie prime), la quale si trasforma immediatamente in capitale finanziario, aggravando la tendenza all'autonomizzazione del Capitale mondiale.
L'ingrandimento (fig. 7) di un tratto del diagramma di figura 6 ci permette di veder meglio la progressiva sincronizzazione, specie per quanto riguarda la caduta del 1975-76 e il periodo immediatamente successivo. L'estrema sincronizzazione delle economie industriali al picco negativo del 1975 è quasi esclusivamente dovuta al drenaggio di valore in seguito alla decuplicazione del prezzo del petrolio. Se togliessimo il Giappone che all'epoca era l'economia più vitale, (linea più alta) la sincronizzazione sarebbe ancora più evidente.
Figura 8. Incrementi relativi della produzione industriale/saggio di profitto 1870-1982 per i maggiori paesi. L'andamento indicativo medio dei massimi e dei minimi evidenzia le due grandi sincronizzazioni durante le crisi del 1929 e del 1975. Il finale assottigliamento della fascia di oscillazione indica la perdita di energia del sistema.
Nella figura 8 abbiamo reso con evidenza grafica la storica perdita di energia del sistema. I dati utilizzati sono gli stessi che sono serviti per il diagramma di figura 6 ricavati dal modello anni '50 (qui aggiornati solo al 1982). Dal 1870 al 1900 per tutti i paesi è crescita, quindi la fascia di oscillazione si amplia per poi sincronizzarsi verso il basso per la crisi del 1929. La ricostruzione postbellica porta la fascia di oscillazione − ancora relativamente ampia − quasi costantemente al di sopra della linea dello zero. Poi le economie si sincronizzano e precipitano nel 1975 procedendo con oscillazioni minime come in un encefalogramma che, una volta giunta la morte clinica del soggetto, diventa inesorabilmente piatto.
Man mano che il Capitale accumula, l'economia si finanziarizza, sale la capitalizzazione di borsa, aumentano le oscillazioni dei prezzi azionari, come mostrato in figura 9. L'andamento dell'indice Dow Jones offre una chiara visualizzazione del suddetto processo: la più grande catastrofe finanziaria, quella del 1929, è quasi impercettibile nel diagramma storico. Si nota appena un po' di più quella del 1987, quando in un sol giorno Wall Street crollò di quasi un terzo del suo valore. Ma a partire dalla metà degli anni '90 si nota una ripidissima ascesa dei prezzi, giustificata con l'esplosione delle nuove tecnologie, in realtà un mero sfogo del Capitale su di un ramo della produzione che non poteva mettere in moto l'economia come invece i rami classici, i quali richiedevano investimenti in fabbriche, infrastrutture, forza-lavoro, tecnologie, metodi. Infatti lo stesso diagramma mostra la fibrillazione del 1997-2000 con il precipizio dei prezzi in misura mai riscontrata prima. Senza però le ripercussioni sulla società che si ebbero con le oscillazioni del passato, specie nella Grande Crisi del 1929.
Figura 9. Indice Dow Jones dei principali titoli alla borsa di New York dal 1916 a oggi: valori assoluti delle rilevazioni giornaliere.
Figura 10. Indice Dow Jones dei principali titoli alla borsa di New York dal 1916 a oggi: variazione giornaliera dei valori assoluti.
Nella figura 10 abbiamo gli stessi dati della figura 9 ma espressi in variazioni giornaliere dei valori assoluti invece che in valori assoluti. Siccome il valore complessivo della capitalizzazione di borsa a Wall Street è cresciuto con una dinamica simile a quella della produzione industriale, le variazioni giornaliere dell'indice misurate in valore assoluto appaiono enormemente amplificate. Ad esempio: nel 1929 vi fu un crollo percentuale alto, ma la borsa capitalizzava molto meno di adesso e quindi il crollo in valore fu minore. Oggi la borsa capitalizza molto di più e quindi anche una piccola variazione percentuale risulta molto ampia se misurata in valore. Infatti le oscillazioni del 1929 sono poco visibili, mentre fra il 1987 e il 2000 sono ampie, da –700 a +500 circa.
Il diagramma di fig. 10, visualizzando anch'esso un sistema in crescita auxologica, è una immagine speculare del diagramma della produzione industriale (figura 6). In quello si visualizza un sistema che va da una dinamica elevata a una oscillazione asfittica intorno allo zero; in questo, che rappresenta la finanziarizzazione, si visualizza un sistema che va dalla calma relativa di un'economia ancora basata sui "fondamentali" alla fibrillazione parossistica di un'economia impazzita, che tenta di slegarsi, senza riuscirvi, dalla produzione di plusvalore nel ciclo industria-servizi. I due "imbuti", perfettamente simmetrici, ci mostrano una contraddizione tremenda del capitalismo, simile a quella di una coltura batterica che sta morendo: più scende il livello energetico del sistema (per i batteri una carenza nell'ambiente-cibo), più aumenta il bisogno di energia del sistema stesso, dato che ogni batterio si agita disperatamente contro ogni altro per accaparrarsi la poca energia rimasta.
Individuare con precisione quale sia la dinamica del capitalismo di ieri e di oggi è indispensabile per affrontare il suo futuro, perché, come abbiamo visto, la semplice catalogazione statica dei fatti nel tempo, dal passato al presente, o la semplice traduzione in formule matematiche, non è scienza. Non a caso alcuni epistemologi affermano che la matematica non è una scienza bensì un suo strumento. Ma ritorniamo un momento agli Stati Uniti. Se scomponiamo la loro produzione totale (salario + plusvalore) nei tre classici settori: agricoltura, industria e servizi, abbiamo il diagramma di figura 11. Esso rappresenta l'andamento tipico valido per tutti i paesi di vecchia industrializzazione presenti nel grande diagramma di fig. 6. Nella formazione del valore totale quello dovuto all'agricoltura è ormai trascurabile, mentre cresce poco quello dovuto all'industria e si impone clamorosamente quello dovuto ai servizi. Qui non siamo dunque più soltanto di fronte alla mineralizzazione della società ma a una sua crescente smaterializzazione per quanto riguarda la produzione di merci. Di fronte ai servizi, merce immateriale per eccellenza che copre ormai l'80% del valore prodotto nelle società occidentali, le altre merci quasi non contano, pur tenendo presente che nella voce "industria" è inglobata quella estrattiva, compreso il petrolio.
Commenti
"Che cosa è "giusta ripartizione"? Non affermano i borghesi che l'odierna ripartizione è "giusta"? E non è essa in realtà l'unica ripartizione "giusta" sulla base dell'odierno modo di produzione? Sono i rapporti economici regolati da concetti giuridici oppure non sgorgano, al contrario, i rapporti giuridici da quelli economici? Non hanno forse i membri delle sètte socialiste le più diverse concezioni della "giusta" ripartizione?".
Il punto è assolutamente chiaro da tutto il pensiero di Marx (lo dice, per es., anche il tizio che citi tu nel post sotto).
Quanto al resto, sei liberissimo di credere sia che io abbia frainteso Marx, sia che io sarei
in 'polemica' con il poveretto che sappiamo, ecc.: non è vero, ma pazienza.
Ciao.
Luca