Come si discuteva di diritto di sciopero nell'Assemblea costituente

[Il 7 maggio 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale del titolo terzo della prima parte del progetto di Costituzione: «Rapporti economici».]

Presidente Terracini. L'ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Riprendiamo la discussione generale sul Titolo III del progetto.

È iscritto a parlare l'onorevole Della Seta. Ne ha facoltà.

Della Seta. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, a prescindere dalla specifica valutazione dei singoli articoli, certo questo Titolo III è quello che più conferisce al progetto di Costituzione la nota della modernità. Nota comune ad altre costituzioni di altri paesi d'Europa.

Dopo i rapporti civili ed i rapporti etico-sociali, i rapporti economici. Si è consacrata, in questo progetto, la indissolubile connessione tra l'ordinamento economico e l'ordinamento politico. Si è riconosciuto che sé è vero che solo in un regime democratico è dato potere attuare una democrazia del lavoro, è altrettanto vero che la democrazia sarebbe una forma politica priva di contenuto se per essa, quale mezzo atto al fine, non si attuassero riforme realizzanti la giustizia sociale. La repubblica per la repubblica non ha significato alcuno. La figura del cittadino è ormai mutata. Il cittadino non è tale solo in quanto gode di speciali diritti politici, di speciali libertà costituzionali; è tale anche in quanto lavoratore, in quanto cooperatore, come singolo o come associato, al benessere economico della Nazione.

Ho ascoltato, ieri, in quest'Aula, da parte di un collega socialista, rievocare, con commossi accenti, i tempi nei quali quanto oggi è consacrato nel progetto veniva considerato, se non delitto, una grande utopia. Noi repubblicani comprendiamo una tale commozione e la compartecipiamo. Potremmo domandarvi se, resi oggi più sereni e più conoscitori delle nostre dottrine, se voi, dico, socialisti, riconoscete infine, alla vostra volta, che la scuola repubblicana — un Mazzini, un Cattaneo, un Pisacane, un Bovio — una qualche pagina, divinatrice e rivendicatrice, ha scritto sul problema sociale; se riconoscete che le prime nostre consociazioni operaie sono pur state, in Italia, le prime libere organizzazioni di lavoratori. Ma, al di sopra di questi reciproci nostalgici compiacimenti di parte, preferisco, in questo progetto, in questo documento, cogliere la testimonianza di un grande ammaestramento della storia: date rivendicazioni, se oneste, se giuste, non possono, contro tutte le incomprensioni, contro tutti gli egoismi, non possono, lentamente, ma ineluttabilmente, non vedere il giorno dell'auspicato trionfo.

Tralascio, per amore di brevità, talune considerazioni di ordine estrinseco.

Dovrei rilevare una qualche espressione o una qualche norma pleonastica. Occorre proprio, come all'articolo 38, specificare quali economici i beni che appartengono allo Stato, ad enti od a privati? Ed è proprio necessario ricordare in una Costituzione, come si ricorda con l'articolo 37, che ogni attività economica, privata o pubblica, deve tendere a provvedere i mezzi necessari ai bisogni individuali e al benessere collettivo? Né manca una qualche espressione troppo vaga, come quando, nell'articolo 32, si afferma che la retribuzione deve essere adeguata alla necessità di una esistenza libera e dignitosa. Chi sarà il giudice della libertà e della dignità? Criteri morali che, tutto al più, possono relegarsi in un preambolo, ma non essere consacrati lì dove, in una Costituzione, rigidamente si parla di rapporti economici. E non mi domando se, per la esigenza di una più organica sistematica, non sarebbe stato più opportuno raggruppare tutte quelle norme che accennano alle previdenze e alle provvidenze dello Stato, anziché disseminarle, come sono, nel Titolo secondo e nel terzo di questa prima parte del progetto.

Quanto al principio direttivo, cui si è conformata, nel progetto, la disciplina dei rapporti economici, esso non poteva non essere il risultato di un compromesso. Diciamo compromesso non nel senso dispregiativo della parola; ma come espressione logica e storica della risultante media tra le due forze in contrasto. C'è, innegabilmente, la tendenza a porre, in primo piano, di fronte al datore di lavoro, la figura del lavoratore; ma, come negazione delle due soluzioni estreme, dell'assoluto liberalismo individualistico e dell'assoluto totalitarismo collettivistico, si è voluto armonizzare la esigenza di dare il debito valore ai diritti dell'individuo e della iniziativa privata con le esigenze della economia associata e disciplinata, senza escludere, quando il reale benessere della Nazione lo reclami, lo stesso vigile e tempestivo intervento dello Stato.

Ma entriamo nel merito. L'articolo 31 sancisce il diritto al lavoro. Diritto incontestabile, in quanto è il diritto alla vita. Non ad altra fonte l'uomo, normalmente, può attingere per garantire la propria esistenza, se non al lavoro, al lavoro concepito né, come su taluni banchi ho inteso, quale un'espiazione propiziatoria, né, come in regime capitalistico, quale una merce qualsiasi; ma al lavoro eticamente concepito come affermazione della personalità; come primo vincolo di solidarietà nell'opera collettiva; come contributo al benessere materiale e, per esso, indirettamente, anche al bene morale dell'umana consociazione.

Ma, bisogna riconoscerlo, così come consacrato nella Costituzione, questo diritto al lavoro, se non è quel diritto astratto nel quale caddero il Locke e il Montesquieu e Louis Blanc (droit au travail) e la stessa Costituzione francese del 1848, certo rimane come un diritto potenziale, dato che oggi nessuna azione giuridica è dato al cittadino di potere esplicare, sia verso un altro cittadino, sia verso lo Stato; e dato che un rapporto esiste tra la domanda del lavoro (Stato) e l'offerta del lavoro (diritto al lavoro); e dato che la domanda dipende dalle risorse naturali e dal capitale esistente.

Se interpretato alla lettera, questo diritto al lavoro rimarrebbe nella Costituzione come una promessa che lo Stato non può mantenere; promessa pericolosissima. Può rimanere nella Costituzione come un diritto potenziale, cioè come un diritto — e Mazzini e Marx videro profondamente questo — come un diritto che solo potrà avere un concreto riconoscimento quando sarà superato l'attuale ordinamento economico ancora imperniato non sull'associazionismo, ma sull'individualismo capitalistico. Oggi, per non illudere con promesse che non possono essere mantenute, basterebbe forse che fosse detto nella Costituzione: la Repubblica promuove quelle condizioni onde il cittadino, nel lavoro, possa trovare l'equa e dignitosa garanzia della propria esistenza.

Nel secondo comma dell'articolo 31 si afferma, dopo il diritto al lavoro, il dovere del lavoro. Noi vorremmo, in verità, che la società fosse così sanamente costituita da far sentire il lavoro più come una gioia che come un dovere. Ma di fronte alle possibili evasioni è bene ribadire questo dovere. Un dovere, certo, la di cui consapevolezza deriva più da una tempestiva e saggia educazione, che non da un articolo della Costituzione. Ma la norma non poteva non essere consacrata. Se vi sono coloro che vorrebbero lavorare ma non possono, in quanto non trovano lavoro, subendo i rischi e i danni della disoccupazione, non pochi, purtroppo, in ogni classe sociale, sono coloro che potrebbero lavorare ma non vogliono, per pigrizia innata, per amore dell'ozio, per tendenza al parassitismo. Ora, come non è ammessa la libertà dell'ignoranza e perciò, sino ad una certa età, vi è la obbligatorietà della istruzione, così non è ammessa la libertà dell'ozio e perciò, conforme alle proprie attitudini, vi è il dovere del lavoro. In vera democrazia non v'è che una classe, la classe dei lavoratori. Lavoratori del braccio o della mente, ma lavoratori tutti, tutti contribuenti, con la propria opera, al bene supremo della Nazione. Chi non lavora non mangia, ha detto Paolo ed è ripetuto nella Costituzione sovietica. Noi, con espressione meno grossolana, amiamo ripetere col Maestro: chi non lavora non ha diritto alla vita.

Ma l'adempimento di questo dovere del lavoro può essere la condizione per l'esercizio dei diritti politici?

Il terzo comma dell'articolo 31 risponde recisamente, affermativamente. Noi apprezziamo il valore morale della norma. Il cittadino, che alla società, col proprio lavoro, non dà alcun contributo, pone se stesso al bando, dalla società di cui è parte. Ma un senso di giustizia impone la massima cautela. Vi sono i vecchi, i malati, gli invalidi, i disoccupati. Sarebbe ingiusto togliere a questi, per il solo fatto materiale del non lavorare, l'esercizio dei diritti politici.

Non ricorderemo che questo terzo comma dell'articolo 31 contrasta con l'articolo 45 del progetto, lì dove si afferma che, essendo il voto un dovere civico e morale, nessuna eccezione al diritto di voto può ammettersi se non per incapacità civile o sentenza penale; ma non si può non far presente che domani il divieto dell'articolo 31 potrebbe divenire, più che un pretesto, un'arma nelle mani del potere esecutivo per limitare, a scopo reazionario, il diritto dell'elettorato e dell'eleggibilità. Bisogna dunque o sopprimere — e sarebbe meglio — questo terzo comma ovvero meglio precisarlo formulandolo: l'adempimento di questo dovere, per chi ne ha la capacità e la possibilità, è condizione per l'esercizio dei diritti politici. Ma noi, ripetiamo, siamo per la soppressione pura e semplice.

Sorvolo sugli articoli 32, 33 e 34. La equa retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro; il diritto del lavoratore al riposo settimanale e alle ferie annuali retribuite; il diritto della donna lavoratrice ad avere, a parità di lavoro — e di rendimento io aggiungerei — le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore; e tutte le previdenze e le provvidenze sociali per gli inabili al lavoro e per chi non ha mezzi necessari alla vita e per i casi di infermità, invalidità, vecchiaia e involontaria disoccupazione, sono queste tutte norme che ormai tendono a far parte della legislazione sociale di ogni paese civile. Sarebbe davvero auspicabile, pel nostro Paese, un codice del lavoro, degno della comprensione che la giusta causa dei lavoratori ha ormai raggiunto tra noi, non solo nei partiti della democrazia, ma anche nelle classi più consapevoli e responsabili.

Abbiamo bisogno di manifestare la nostra piena adesione alla libertà delle organizzazioni sindacali, sancita nell'articolo 35? Negarla sarebbe negare, nel campo sociale, quel diritto di libera associazione che, già nell'articolo 13, è stato riconosciuto per tutti i cittadini.

È libertà tanto per i datori di lavoro, come per i lavoratori; è libertà di poter costituire più sindacati anche per una medesima categoria; è sopratutto libertà interna, come attuazione di una interna democrazia, nel senso che sia permessa agli associati la libera scelta dei dirigenti senza subire la imposizione degli elementi delegati dai partiti.

Noi non condividiamo la preoccupazione che qualche collega socialista ha manifestato circa l'obbligo della registrazione per quei sindacati che intendono assumere una vera personalità giuridica. Ci rendiamo conto, psicologicamente, di questa preoccupazione. Dopo il regime dittatoriale, non poteva non diffondersi uno stato di insofferenza verso lo Stato, di cui si teme la invadenza soffocatrice, una invadenza che, nel caso specifico, tenderebbe a inceppare la vita del sindacato sotto una forma, più o meno larvata, di corporativismo. Comprendiamo tutto questo; ma non possiamo non far presente che, quando diciamo Stato, noi intendiamo uno Stato realmente repubblicano; uno Stato che non può, in tutti i gangli della vita sociale, non portare lo spirito di una sana democrazia; uno Stato quindi che, col riconoscimento, attraverso la registrazione, dei sindacati, non vuol menomare, minimamente, l'autonomia interna dei sindacati, ma si propone anzi di più valorizzarli e potenziarli, ad essi conferendo una piena personalità giuridica. Libere associazioni di lavoratori in libero Stato vigilante e cooperante, questa per noi, nel campo sociale, la formula della vera democrazia.

Per quanto riguarda lo sciopero consacrato, nell'articolo 36, come un diritto dei lavoratori, esso è un diritto incontestabile. In sé e per sé esso è un ricorso alla forza; ma, spogliato ormai di quelle forme violenti onde, negli anni lontani, si caratterizzò quando si attuò, esso oggi è una forma civile di lotta per la emancipazione del lavoro.

Si potrebbe discutere se lo sciopero, non essendo un vero e proprio diritto naturale, ma un mezzo, un metodo di lotta, non ritrovi, pel riconoscimento, la sua propria sede in una legge, in un codice del lavoro, anziché nella Costituzione. È facile rispondere che ciò che con una legge si riconosce può con altra legge essere abrogato; e un nuovo vento di reazione potrebbe domani far considerare lo sciopero come in regime fascista fu considerato, cioè non come diritto, ma come delitto.

Un qualche collega ha voluto fare la distinzione tra sciopero economico e sciopero politico, ammettendo il primo, non legittimando il secondo. Vana distinzione. Ogni sciopero, in quanto astensione dal lavoro, è un fatto essenzialmente economico; ma diverso può esserne il fine. Normalmente si lotta, con lo sciopero, per talune rivendicazioni economiche; ma ciò non toglie che lo sciopero, ad una data ora, possa prefiggersi una data finalità politica. E non saremo noi davvero che lo respingeremo per usarlo, con la debita circospezione, come una valida arma di lotta in difesa delle pubbliche libertà e contro ogni possibile reazione.

Tutti i lavoratori, si legge nel testo, hanno diritto di sciopero. Tutti?. Anche i funzionari dello Stato? Anche gli addetti ai pubblici servizi? Punto oggi molto controverso.

Quanto ai pubblici funzionari, non saprei nascondere il mio grande senso di disagio quando apprendo, ad esempio, il minacciato sciopero dei magistrati o lo sciopero degli insegnanti. Sarà la mia forse una mentalità arretrata, ma così è. È un disagio il mio che non vuol essere, semplicemente, preoccupazione e deplorazione per l'astensione da alte funzioni inerenti alla vita dello Stato, ma è anche condanna di un ordinamento statale, il quale, profittando di un tradizionale dignitoso riserbo di una categoria benemerita di lavoratori, non sa assicurare a questi lavoratori, mentre tanto e tanto in altri campi si sperpera, un trattamento economico adeguato alle funzioni che esercitano e soprattutto alle mutate condizioni di vita. Non bisogna troppo abusare della dignitosa pazienza altrui. La corda a lungo tesa si spezza.

Quanto agli addetti a dati pubblici servizi io sono contro lo sciopero, recisamente. Comprendo lo sciopero dei tramvieri, non comprendo lo sciopero degli infermieri. Date prestazioni di opera implicano grande spirito di sacrificio ed alto senso di responsabilità. Il che non significa che questi lavoratori non debbano essere tutelati nei loro diritti. Io arriverei a concepire, in loro difesa, uno sciopero di solidarietà di altre categorie di lavoratori. Ma certi pubblici servizi, per senso di umanità, non debbono essere abbandonati. Non si può concepire uno sciopero degli infermieri o dei farmacisti. Hanno scioperato una volta anche i becchini. Stavo per dire che talvolta scioperano anche... i deputati (Ilarità).

Concludendo, si deve riconoscere per i lavoratori il diritto di sciopero, ma come un diritto il cui esercizio dai dirigenti responsabili deve essere severamente vigilato e disciplinato. Un diritto ad ogni modo cui, come extrema ratio, si dovrebbe ricorrere solo dopo un tentativo di conciliazione, dopo il ricorso ad un arbitrato.

Di Vittorio. Si fa sempre.

Della Seta. Concordiamo pienamente col testo della Commissione — articolo 38 — per quanto concerne il diritto di proprietà. Da un lato il riconoscimento di questo diritto che, affermazione pur esso della personalità sul mondo della materia, non può non essere legittimo quando frutto di un lavoro compiuto; dall'altro tutti quei limiti che della funzione sociale della proprietà sono il riconoscimento. Nell'interesse dello Stato i limiti alla successione legittima e testamentaria. Da parte dello Stato, per pubblico interesse, la espropriazione, salvo indennizzo, della proprietà privata.

Allo scopo di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali, molto opportunamente l'articolo 41 che, per un più logico coordinamento, dovrebbe seguire l'articolo 38, pone in rilievo i possibili vincoli alla proprietà privata terriera. Questa non può essere illimitata nella estensione, non può sottrarsi ad una eventuale necessaria opera di bonifica, non può essere abbandonata incolta, mantenendo, senza trasformazione, il latifondo e ostacolando quanto invece è da favorire, cioè la piccola e media proprietà.

Per quanto riguarda l'attività produttrice, ben si trovano, nel progetto, riconosciute le tre forme: la iniziativa privata individuale (art. 39); la iniziativa privata collettiva, cioè la cooperazione (art. 42); nonché la iniziativa esclusivamente collettiva, cioè la socializzazione (art. 40).

Noi repubblicani siamo troppo assertori di libertà, per non apprezzare, pur nel campo economico, il valore della iniziativa privata, che altro limite non può avere se non il pubblico interesse. E troppo, conforme agli insegnamenti del Maestro, siamo stati e siamo, sempre, caldi fautori del cooperativismo, per non aderire a questa forma, morale e moralizzatrice, dell'attività produttrice e per la quale l'opportuna vigilanza dello Stato — vigilanza diciamo e non tutela — non può limitare quella interna autonomia che è la condizione prima del suo retto funzionamento e del suo sviluppo. Se un qualche riserbo noi abbiamo è per la socializzazione. Riserbo diciamo e non preconcetta avversione. Noi non neghiamo che un qualche complesso industriale possa, per il pubblico interesse, essere socializzato; ma questa socializzazione deve essere suggerita, caso per caso, dalla esperienza e non obbedire ad un piano prestabilito di una radicale e totalitaria pianificazione. In questa pianificazione il cittadino lavoratore e produttore perde pur l'ombra della sua personalità. Molto apprezziamo perciò la grande sobrietà con la quale l'articolo 40 è stato formulato.

Ed apprezziamo anche la sobrietà con la quale è stato formulato l'articolo 43. Si riconosce per esso ai lavoratori il diritto di partecipare alla gestione delle aziende ove prestano la loro opera, non precisando se a titolo deliberativo o consultivo, tutto rinviando alla disciplina della legge. Anche a prescindere dal carattere superaziendale che taluni di questi consigli vanno assumendo, certo questi consigli di gestione, specie se, come si dovrebbe, si ammettono gli operai alla partecipazione degli utili, segnano un passo notevole per la pacificazione e la collaborazione tra le classi, per quanto, bisogna non dimenticarlo, essi segnano se non una fase, e non l'ultima, nella lotta, ormai secolare, per la emancipazione del lavoro.

Salvo tutte le modalità specifiche, con le quali la legge dovrà precisarla, è superfluo dire che, anche per i riflessi sullo stesso movimento cooperativistico, aderiamo in pieno alla norma sancita nell'articolo 44 e per la quale la Repubblica affida a sé stessa la tutela del risparmio, nonché la disciplina, il coordinamento e il controllo sull'esercizio del credito.

Ho finito. Mi si permetta, a conclusione, un piccolo rilievo. Si dice, all'articolo 41, che la legge intende anche promuovere la elevazione professionale dei lavoratori. Giusta esigenza cui già accennai quando parlai del problema della scuola. Ma questa esigenza non si limita alla elevazione professionale; essa, non meno imperiosa, anzi fondamentale, è anche un'esigenza, attraverso una sana educazione, di elevazione morale. Occorrono scuole, scuole per il popolo, che si prefiggano questa alta funzione educatrice. Da una maggiore educazione morale, che non può non portare ad un senso più raffinato del giusto e dell'onesto, l'operaio non solo trarrà una maggiore consapevolezza ed una disciplina maggiore nella stessa causa per cui, a proprio vantaggio, combatte; non solo si spoglierà, gradualmente, di ogni egoismo di classe e apprenderà, senza odio, quale sia il significato vero delle parole borghese e antiborghese; ma sarà portato soprattutto, a sentire ed a comprendere che la soluzione, conforme a giustizia, del problema sociale non è fine a se stessa; che la vera emancipazione dei lavoratori si avrà quando, assicurate dignitose condizioni economiche di esistenza, anche il lavoratore potrà vivere la vera vita, quella vita che non può essere il privilegio di pochi eletti, quella vita per cui l'uomo è veramente uomo, quella vita onde l'uomo conforta e innalza se stesso alla luce nobilitante dello spirito. (Applausi).

Presidente Terracini. È iscritto a parlare l'onorevole Taviani. Ne ha facoltà.

Taviani. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, è lecito, io credo, anche più che giustificato, dubitare della utilità di questa discussione generale. Tuttavia, dal momento che essa c'è, mi sia consentito adempiere al compito di precisare il punto di vista del Gruppo democristiano a proposito del Titolo III. Il punto di vista del nostro Gruppo deriva logicamente dalla risposta che cercherò di dare alle critiche che a questo Titolo sono state rivolte.

Una prima critica è affiorata nella discussione in Aula, e ancora più fuori dell'Aula; questo Titolo costituirebbe il risultato di un compromesso. Ora io mi appello all'onorevole Presidente della terza Sottocommissione, che ha elaborato le norme di questo Titolo; mi appello a tutti i Commissari. Non mai una volta le formulazioni si fondarono sul compromesso. Qualche volta esse sono state deliberate con voto di maggioranza; qualche altra volta, anzi spesso, ad unanimità o col voto dei rappresentanti dei maggiori partiti. Sempre esse hanno rappresentato un punto di incontro, non mai c'è stato un deteriore baratto su una proposizione o su una frase o su una parola. Tanto è vero che quando il voto non è stato unanime, le divergenze, più che politiche, sono state spesso tecniche, e si sono visti votare diversamente un socialista da un altro socialista, un democristiano da un altro democristiano, e anche — incredibile, ma vero — un comunista votare in modo diverso da un altro comunista.

Questo per quanto riguarda la forma; per quanto concerne la sostanza, io credo — e cercherò brevemente di dimostrarlo — che il Titolo III costituisca un complesso di norme che, superando l'impostazione individualistica del problema economico, pone le premesse della riforma sociale, senza peraltro fissare degli schemi precostituiti e rigidi, che potrebbero diventare incompatibili con lo sviluppo della tecnica e dell'economia.

Un secondo ordine di critiche riguarda particolarmente alcune norme che si ritengono vane o superflue o, comunque, non adatte ad un testo costituzionale. Ha già risposto ad esse il collega onorevole Dominedò nella seduta dell'altra sera, quando ha acutamente dimostrato come si possano dare delle norme, anche non immediatamente azionabili, che pure mantengano il loro valore: norme per il legislatore futuro. Esse costituiscono il grande binario su cui dovrà incamminarsi la legge.

Più grave è una terza critica. Questo Titolo è stato visto addirittura come l'espressione di una concezione statolatrica, soffocatrice della persona umana. Ci aspettavamo — mi aspettavo — questa critica dai colleghi di parte liberale, tenaci assertori del principio della libertà, come unico principio della realtà economica. E invece il discorso, veramente notevole, dell'onorevole Cortese, ha rivelato un liberalismo sensibile alle esigenze di giustizia sociale, un liberalismo più simile a quello del grande espositore della dottrina liberale: lo Stuart Mill, che non al rigido schematismo, al fanatismo rigido del Bastiat.

A questo fanatismo rigido si sono invece avvicinate le impostazioni dei colleghi di parte qualunquista. L'onorevole Maffioli ha parlato addirittura di una statomania; più serenamente l'onorevole Colitto si è ricondotto a un ordine naturale dell'economia, che invano la legge, lo Stato cercherebbero, attraverso questo Titolo, di disciplinare e di orientare.

Ora, a questo proposito è bene intenderci: c'è una concezione tipica del mondo economico che ha prevalso nella dottrina e, solo in parte, nella prassi del secolo scorso: la concezione naturalistica per cui i fenomeni economici si dispiegano secondo leggi naturali e inderogabili, a cui invano l'uomo cercherebbe di opporsi. Per esempio, parlando del latifondo, un oratore di parte qualunquista ha detto che esso scompare naturalmente, senza bisogno di leggi, a mano a mano che si sviluppa l'economia. Ora, io potrei rispondergli con una citazione dell'Enfantin, celebre discepolo di Saint Simon, uno degli autori dell'Esposizione della dottrina sansimoniana. Centotrenta anni fa questo antesignano di non poche riforme sociali contemporanee scriveva presso a poco così: «Certo, senza bisogno di leggi, ogni squilibrio si appiana con lo sviluppo dell'economia. Certo, tutto finisce per livellarsi. Ma — mirabile conclusione questa! — finché non si è compiuto il livellamento, che faremo noi delle migliaia di uomini affamati? Li consoleranno i nostri ragionamenti? Sopporteranno essi con pazienza, solo perché i calcoli statistici dimostrano che entro un certo numero di anni l'economia si sviluppa naturalmente, ed essi allora potranno avere del pane?»

No, noi non siamo statomani e neppure idolatri del toro impazzito che, secondo la pittoresca immagine dell'onorevole Maffioli, sarebbe lo Stato quale affiora dal Titolo III. Noi anzi riteniamo che l'ordinamento sociale dell'economia abbia proprio il risultato opposto a quello che temono i nostalgici o i maniaci del liberalismo a ogni costo; solo un ordinamento sociale, infatti, può evitare lo slittamento verso lo Stato totalitario, cui fatalmente finisce per condurre il non regolato esercizio delle libertà individuali. Come non seguiamo la concezione naturalistica dell'economia, così non crediamo neppure che tutto possa ottenere lo Stato come volontà legislatrice ed esecutrice. Tra i due principî, quello naturalistico — per cui l'economia si svolge spontaneamente sotto l'impulso delle sole forze individuali — ed il volontaristico — per cui tutto si riconduce all'autorità dello Stato — c'è un terzo modo di concepire la vita economica, il modo di chi pur tenendo conto delle resistenze naturali e della forza dell'interesse individuale o privato, postuli un inquadramento, un indirizzo sociale dell'economia.

Ci conforta, a questo proposito, l'esperienza del mondo economico contemporaneo. Non soltanto negli Stati totalitari, ma anche negli Stati democratici oggi si orienta socialmente l'economia: anche, e precipuamente, in quegli Stati che si portano a modello della democrazia: Nord America e Inghilterra.

Qualcuno potrà obbiettare che oggi si sta peggio di quanto non si stesse un secolo fa, nel secolo liberale e liberista. Ma questa affermazione può essere esatta, solo se riferita alle classi borghesi; non è esatta, se riferita al proletariato industriale e al proletariato agrario. Comunque, donde ha tratto origine la stessa triste realtà di oggi e la triste realtà del fascismo di ieri se non dal mondo che ha voluto risolvere unicamente nell'individuo la fonte di tutti i diritti e di tutte le libertà?

L'orientamento sociale dell'economia ha proprio lo scopo di tutelare la persona umana, anzi le persone umane. Ma — si dirà — chi ci garantisce che gli organismi sociali non esorbitino da questo loro compito? Ce lo garantisce l'ordinamento democratico dello Stato. Ché, se l'ordinamento democratico dovesse venire a cessare, stia pur certo, onorevole Maffioli, che, anche senza il Titolo III, vedremmo veramente scatenarsi il toro impazzito dello Stato e soffocare la persona umana. Non è il liberalismo puro, non l'accettazione supina del cosidetto ordine naturale economico che possono garantire la democrazia. Essi porterebbero fatalmente al totalitarismo. Per garantire durevolmente la democrazia vano sarebbe ricorrere all'unica forza dell'individuo. Non c'è altro mezzo (ci ammonisce la lezione dell'esperienza) che articolare la democrazia nelle collettività intermedie: democrazia organica sul piano politico e solidarismo sul piano economico.

Fra i due termini, quali risultano dall'impostazione del Rousseau, individualismo e statalismo, c'è una terza via: quella della economia associata, dell'orientamento sociale dell'economia.

Questa via fu sempre battuta dalla scuola sociale cristiana. Su questa via abbiamo cercato di indirizzare il Titolo III.

Se poi qualcuno volesse mascherare le sue critiche dietro motivi tecnici o produttivistici, ma in realtà celasse null'altro che interessi, allora potremmo rispondergli con la grande frase di uno dei più illustri spiriti della democrazia americana, l'arcivescovo di Quebec: «Il secolo XX o sarà il secolo delle riforme sociali o sarà il secolo del sovversivismo!».

Da questa impostazione risulta chiara la posizione del nostro Gruppo riguardo ai diversi articoli. Non c'è il tempo (e sarebbe inutile ripetizione, perché altri miei colleghi hanno già parlato sui singoli articoli) di compiere un esame approfondito.

Mi soffermerò sul diritto al lavoro.

Di esso si è detto: perché inserirlo nella Costituzione? Ciò non significa postulare una totale pianificazione dell'economia? Non pare. Questa norma dice precisamente che, nei suoi interventi nell'economia, lo Stato deve tener presente soprattutto una meta: assicurare il lavoro, perseguire una politica economica di pieno impiego.

Un altro punto: il diritto di sciopero! Anche qui il nostro pensiero sgorga logicamente dalle posizioni generali che ho cercato di precisare. In uno Stato perfettamente capace di realizzare la giustizia non dovrebbe esservi lo sciopero. Di questo siete convinti anche voi, colleghi comunisti; soltanto che, per voi, questo Stato perfetto già esiste ed in esso difatti è proibito il diritto di sciopero.

Per noi è lecito supporre che sia almeno più difficile di quanto voi non riteniate, realizzare su questa terra una tale perfezione. Nell'ipotesi che essa per ora non esista, o che addirittura non possa esistere, resta a vedere se la Costituzione deve tener conto di quello che è un aspetto patologico della vita economico-sociale. Ecco perché comprendiamo benissimo quello che è stato detto testé dall'onorevole Della Seta. È il caso, egli si è chiesto e si chiede qualcuno, anche fra noi, di inserire questo diritto nella Costituzione? Esso non è altro che la logica derivazione del diritto alla legittima difesa, non è che una triste necessaria conseguenza di un rapporto di forza, lo ha detto testé l'onorevole Della Seta, fra capitale e lavoro. Qualcuno, più drasticamente, parla addirittura di una legge della foresta. Ora, lo Stato può sopportare, può comprendere che ciò si verifichi, che i lavoratori abbiano il diritto di difendersi, ma può apparire vano, inutile, superfluo intervenire a codificare o disciplinare dei rapporti di forza. Noi credevamo che questa fosse la vostra tesi (Si rivolge a sinistra) e dovrebbe esserlo, logicamente.

Noi non riteniamo peraltro, data la nostra concezione realistica, che questa tesi si debba senz'altro accettare. Noi riteniamo che la Costituzione possa e debba parlare del diritto di sciopero, non debba ignorare la facoltà dello sciopero, ma, intendiamoci, riteniamo che questa facoltà debba esercitarsi nell'ambito delle leggi. Tutti gli altri diritti, sanciti e riconosciuti in questo Titolo, anche il diritto di proprietà privata, che è diritto naturale, anche il diritto di iniziativa personale, il diritto al lavoro, il diritto all'assistenza, tutti vengono ricondotti alla legge che li regola, li disciplina e li determina. Perché non si dovrebbe fare la stesso anche per il diritto di sciopero?

Se noi dovessimo entrare nel merito — e già ne ha parlato ieri l'onorevole Belotti — potremmo prendere in considerazione lo sciopero nel caso dei servizi pubblici, nel qual caso concordiamo con le osservazioni dell'onorevole Della Seta. Sennonché pare ingenuo ritenere che vi possa essere una categoria di persone che debba scioperare in luogo di coloro che sono adibiti ai servizi pubblici, quasi che vi siano degli addetti al servizio di sciopero! Particolarmente significativa è poi la condizione dei pubblici ufficiali, per i quali, secondo l'espressione paradossale dell'onorevole Molè, si verificherebbe il caso dello Stato che sciopera contro lo Stato. Noi non avremmo nulla in contrario all'articolo della prima Sottocommissione, dove si entra nel merito per quanto concerne le modalità di questo diritto. Se non si ritiene di dover entrare nel merito, noi possiamo aderire ad una dizione simile a quella della Costituzione francese.

Per l'articolo 38, si è detto da qualcuno che, dopo aver affermato e riconosciuto il diritto naturale di proprietà privata, viene a negarla con dei limiti e delle norme.

Non è così: c'è un diritto naturale di proprietà privata, ma, oltre al diritto naturale della proprietà privata, c'è anche il diritto di tutti all'uso dei beni. Ambedue sono diritti naturali e fondamentali nell'ordine economico della società. Non si può negare né l'uno né l'altro. Ed allora abbiamo che, fissato il principio del diritto generale astratto della proprietà privata, la legge positiva lo deve concretare e determinare con norme specifiche, con dei limiti che tengano conto anche del diritto di tutti all'uso comune dei beni. Perciò all'articolo 38 è detto che la legge, nel determinare modalità e limiti, tiene conto di un duplice ordine di scopi: la funzione sociale della proprietà e la possibilità per tutti di accedervi, sicché la proprietà non sia un privilegio di poche persone, ma sia invece un diritto di tutte le persone umane.

Dell'articolo 40 l'onorevole Della Seta ha lodato la sobrietà, ed effettivamente esso non vuole precludere alcuna delle nuove formule di soluzione dei problemi industriali, che possono affiorare dallo sviluppo della tecnica e della economia. Anche noi aderiremmo ad un eventuale emendamento, che fissasse meglio lo scopo dell'intervento dello Stato per una socializzazione o nazionalizzazione, che non si limitasse al solo aspetto di coordinare le attività economiche, ma lo riferisse più ampiamente al bene comune, o, se si vuole, all'utilità generale; cioè che solo al fine dell'utilità generale la legge possa riservare o trasferire la proprietà di singoli beni o di categorie di beni alla comunità.

Questi non sono che alcuni aspetti di dettaglio che ho voluto citare come conseguenze logiche della nostra impostazione del problema sociale e della nostra posizione dinanzi al Titolo III. Certo si potrà indubbiamente modificare nei dettagli questa o quella norma in sede di votazione; ma, nel complesso, noi riteniamo di poter accettare l'impostazione di questo Titolo III, alla cui stesura gli uomini della Democrazia cristiana hanno apportato un così vasto ed efficace contributo; sappiamo di rispondere così al mandato che abbiamo ricevuto dagli elettori.

Noi risponderemo col nostro voto all'impegno di formulare una Costituzione che, conservando integre le tradizioni morali e religiose del nostro popolo, ponga le premesse giuridiche di quella evoluzione sociale che deve realizzarsi nell'ordine, nella legge e nella libertà.

Noi crediamo in questa evoluzione sociale; noi crediamo che essa possa e debba realizzarsi col metodo democratico e nell'ambito della civiltà cristiana. (Vivi applausi al centro).

Presidente Terracini. È iscritto a parlare l'onorevole Di Vittorio. Ne ha facoltà.

Di Vittorio. Onorevoli colleghi, noi, di questa parte dell'Assemblea, difendiamo, nel suo complesso, il Titolo III del progetto di Costituzione; lo difendiamo malgrado che non ci nascondiamo alcuni lati deboli, e malgrado che riteniamo necessarie alcune precisazioni su alcuni articoli del Titolo stesso. Noi crediamo che questo Titolo sia il più originale, quello che più degli altri caratterizza la Costituzione italiana e che, perciò, respingerlo o vuotarlo del suo contenuto reale, del suo contenuto positivo, significherebbe non corrispondere alle più vive aspettative delle masse lavoratrici italiane. Con questo Titolo del progetto di Costituzione la nuova democrazia italiana esce finalmente dall'ambito ristretto, troppo ristretto, della politica pura per penetrare nel campo dell'economia, nel campo dei rapporti sociali, per apportarvi un minimo di giustizia sociale e per sancire i nuovi diritti conquistati dai lavoratori italiani.

Oggi non bastano più i diritti puramente politici, i diritti del cittadino: una Costituzione moderna, che voglia corrispondere alle esigenze vitali del popolo, deve riconoscere e sancire i diritti del lavoro, che è la fonte della vita, e deve riconoscere i diritti di coloro che ne sono gli artefici, i diritti, cioè, dei lavoratori.

Ogni nuova Costituzione segna una tappa nella evoluzione storica di un paese e ciò che deve caratterizzare la tappa attuale dell'evoluzione storica dell'Italia deve essere appunto un tentativo concreto della democrazia italiana di affondare le proprie radici nell'economia e di democratizzare, nella misura del possibile, tenendo conto della realtà concreta, delle possibilità effettive, i gangli vitali del Paese, fra i quali sono — in primo luogo — le fabbriche, le aziende produttive in generale.

Per questa esigenza la nuova Costituzione non può tener conto soltanto della situazione presente: essa deve partire dalla base solida della situazione attuale, di ciò che è acquisito; ma deve anche proiettarsi in un prossimo futuro e tracciare ai futuri legislatori una prospettiva politica e storica verso la quale intendiamo indirizzare il nostro Paese.

Perciò noi ci meravigliamo delle meraviglie che abbiamo sentito esprimere da nostri colleghi su alcuni degli articoli essenziali di questo Titolo.

Ho sentito, l'altro giorno, l'onorevole Nitti chiedersi stupito come potrà fare la Repubblica italiana per assicurare il diritto al lavoro, per assicurare a ciascun lavoratore una retribuzione adeguata al lavoro compiuto ed alla qualità del lavoro. Evidentemente, se ci dovessimo basare esclusivamente sulla situazione attuale, in cui si può dire che nessun lavoratore abbia ancora una giusta retribuzione, si dovrebbe essere imbarazzati a dare una risposta all'onorevole Nitti. Ma noi lavoriamo per uscire da questa situazione di sconvolgimento economico e di miseria. Vogliamo riorganizzare una nuova vita dell'Italia, vogliamo creare una situazione normale nella quale deve essere possibile al legislatore di determinare, anche per legge, il modo per garantire il godimento dei diritti che sono riconosciuti in questo Titolo della nostra Costituzione.

Ciò che è importante, è che tutta la vita nazionale e tutte le attività dello Stato siano dirette a riorganizzare l'economia italiana e la nostra vita sociale, in modo da tendere a garantire effettivamente il diritto al lavoro come diritto alla vita e a garantire gli altri diritti che vengono riconosciuti ai lavoratori con questo Titolo del progetto di Costituzione.

Del resto, quei colleghi che partono dal presupposto dell'impossibilità concreta per la Repubblica italiana di garantire al lavoratore il godimento di quei diritti, partono dal preconcetto della immutabilità dei rapporti economici e sociali attuali. Questa pretesa immutabilità è assurda. La società è cosa vivente e, come tale, è cosa dinamica, in continua evoluzione. È evidente che se i rapporti economici e sociali vigenti ancora oggi dovessero rimanere immutati, tutti i diritti riconosciuti ai lavoratori, e non soltanto in questo Titolo del progetto, sarebbero vaghe parole. Il valore del riconoscimento di questi diritti nella Costituzione consiste appunto nel fatto che noi ci proponiamo di determinare tali mutamenti nei rapporti economici e sociali, da rendere realizzabili questi diritti per i lavoratori. È per questo che è importante e necessario che questi diritti siano sanciti nella Costituzione. È una illusione vana quella di determinati ceti sociali, retrivi e reazionari, come quelli della plutocrazia e della grande proprietà terriera, di voler fermare il quadrante della storia; di voler credere che la democrazia debba consistere esclusivamente nel riconoscimento dei diritti del cittadino, fermandosi così ai risultati della grande Rivoluzione francese.

Il mondo evolve; i diritti esclusivamente politici, i diritti del cittadino non bastano più. Bisogna garantire l'esistenza al lavoratore come artefice fondamentale della vita di ogni società civile, di ogni società organizzata.

Il fascismo ha voluto rappresentare nella nostra, come in altre società nazionali, appunto il tentativo estremo di impedire questa evoluzione della democrazia dal campo puramente politico al campo economico e sociale; ha voluto significare l'estremo tentativo di impedire alle giovani e vigorose forze del lavoro di avanzare alla conquista di altri diritti; ha voluto impedire alle masse lavoratrici di realizzare nuove conquiste che garantissero un'esistenza meno misera, meno meschina e più degna ai lavoratori. Ma noi abbiamo visto che, malgrado la grandiosità dei mezzi che sono stati impiegati in questo tentativo, esso non è riuscito, perché non poteva riuscire, perché le leggi della evoluzione sociale sono incoercibili. E si è vista una cosa ancor più grave: che questi tentativi dei ceti reazionari della nostra società non sono costati oppressione, miseria e sangue soltanto ai lavoratori, come alcuni si erano illusi e desideravano che fosse. Il fascismo, nel suo proposito di arrestare il progresso sociale, si è risolto in una catastrofe di tutta la Nazione ed è costato sangue e miseria all'intero popolo italiano.

Perciò bisogna che il processo di evoluzione sociale si svolga normalmente e si svolga liberamente, senza impedimenti artificiali da parte delle classi privilegiate, che sono abbarbicate ai loro antichi consolidati privilegi e che, per cercare di conservare questi privilegi e di sopravvivere come strati dirigenti della società, ricorrono a tutti i mezzi, compreso quello di condurre l'intero Paese alla catastrofe.

L'esperienza storica ha dimostrato che determinati ceti, determinate classi sociali in tanto possono assurgere e mantenersi alla direzione della società, in quanto i loro interessi coincidano con gli interessi generali della società e, quindi, in quanto essi siano, abbiano la coscienza di essere e sappiano essere i rappresentanti degli interessi generali e degli ideali della Nazione, del popolo.

Ora credo che nessuno in questa Assemblea possa affermare che i ceti plutocratici, i ceti latifondisti, i ceti monopolistici dell'economia del Paese abbiano interessi che coincidano o che, possano identificarsi con l'interesse generale della Nazione e che possano rappresentarne gli ideali.

Il Titolo III del progetto di Costituzione, attraverso i suoi vari articoli, pone la base di principio per la liquidazione di alcuni istituti, di alcuni rapporti economici e sociali, che sono stati storicamente condannati e sono divenuti, nella loro essenza, antisociali e perciò antinazionali.

Su che cosa si appunta in modo particolare la critica agli articoli essenziali di questo Titolo: all'articolo che pone la base di principio di una riforma agraria, a quello che pone la base di principio della nazionalizzazione di alcuni monopoli economici e di alcune industrie chiave, che sono fondamentali per lo sviluppo della economia nazionale?

Ebbene, signori, il latifondo che esiste ancora largamente nel nostro Paese, specialmente nel Mezzogiorno e nelle isole, non è altro che un residuo dell'antico regime feudale, non è che espressione di arretratezza e di miseria. Il latifondo deve essere eliminato perché in tal modo si elimina l'arretratezza della nostra agricoltura, si elimina la miseria dei nostri braccianti e dei nostri piccoli contadini: e non soltanto nel Mezzogiorno, ma anche in altre regioni d'Italia.

Ebbene, questo Titolo pone le basi di una riforma la quale è un presupposto essenziale per operare una profonda trasformazione fondiaria, che è indispensabile al nostro Paese. È indispensabile per ottenere una maggiore produzione delle nostre terre, un maggior impiego di mano d'opera, per ottenere più grano, più prodotti agricoli, e quindi anche un maggiore benessere, più scuole e un superiore livello di civiltà per il nostro popolo lavoratore.

I monopoli economici, la cui realizzazione scandalizza ancora qualcuno anche nella nostra Assemblea, non hanno nessuna funzione socialmente utile. Sono i monopoli economici che anche nel nostro Paese sono giunti a limitare artificialmente la produzione e in molti Paesi sono giunti a distruggere anche quantità di prodotti per mantenerne elevati i prezzi, mentre una parte notevole delle masse lavoratrici e popolari non aveva la possibilità di accedere a quei prodotti, di cui avrebbe avuto estremo bisogno. Bisogna liberare la nostra economia nazionale dai monopoli e dal latifondo per riuscire a realizzare le premesse di una rinascita economica ed effettiva del nostro Paese ed anche di un profondo rinnovamento democratico dell'Italia. Bisogna persuadersi, onorevoli colleghi, che nelle masse popolari del nostro Paese è penetrata profondamente la coscienza che i diritti esclusivamente politici non bastano più; è penetrata la coscienza della necessità della realizzazione delle riforme sociali di struttura della economia, che sono la sola garanzia effettiva e positiva del godimento dei buoni diritti che la Carta costituzionale riconoscerà ai lavoratori italiani.

Certo, il processo di realizzazione di queste riforme di giustizia sociale, alla quale ho appena accennato, non può essere evitato con misure artificiali; è un processo che deve inevitabilmente compiersi. E, data la sua inevitabilità (poiché risponde a esigenze fondamentali di vita e di progresso del Paese), la questione che si pone davanti alla coscienza pubblica è quella di sapere come questo processo sarà compiuto. Attraverso le vie legali, pacificamente, ordinatamente? O attraverso scontri violenti che possono degenerare nella guerra civile e portare nuovi lutti al nostro popolo, che ne ha già patiti fin troppi? Io credo che ogni tentativo diretto o a respingere l'insieme del Titolo III del nostro progetto di Costituzione o a vuotarlo del suo contenuto effettivo significherebbe lasciare la via aperta alla soluzione più deprecabile per il nostro Paese; significherebbe incoraggiare quei ceti latifondisti, i quali si armano e che ancora recentemente in Sicilia hanno funestato il nostro Paese con l'assassinio vile e barbarico di ben dieci lavoratori; significherebbe lasciare adito ai ceti storicamente superati, ma che non vogliono adattarsi alle esigenze di progresso della nostra vita nazionale, a continuare in una resistenza armata la quale non potrebbe che provocare nuovi lutti e forse nuove miserie al nostro Paese. Il Titolo III in fondo si preoccupa di dare una soluzione legale, ordinata a questo processo e al suo compimento. Perciò noi raccomandiamo che esso sia approvato dall'Assemblea.

Permettete, onorevoli colleghi, che io insista un momento sull'articolo 35 del nostro progetto di Costituzione, che pone in modo sintetico la base di principio del nuovo ordinamento sindacale italiano. Già altri colleghi hanno sottolineato i principî generali ai quali si ispira questo nuovo ordinamento: in primo luogo, la libertà nel campo sindacale. Perciò il nuovo sindacato è concepito come una organizzazione libera dei lavoratori, una organizzazione alla quale si accede volontariamente, nella quale il pagamento dei contributi sia volontario. Tutto l'ordinamento sindacale si ispira a questo principio di libertà, di indipendenza del sindacato, di autonomia del movimento sindacale dei lavoratori.

Ho sentito testé l'onorevole Della Seta lamentare il fatto che si esprimano alcuni sospetti verso la stessa registrazione dei sindacati, perché si temerebbe che una dipendenza qualsiasi dei sindacati dallo Stato potrebbe menomarne la libertà d'azione: l'onorevole Della Seta osservava che se ciò era giusto nei confronti di uno Stato fascista, non è giusto nei confronti di uno Stato democratico repubblicano. Comprendo ed apprezzo la natura dell'osservazione dell'onorevole Della Seta. Infatti per noi fra uno Stato fascista e uno Stato democratico; fra uno Stato reazionario e uno Stato democratico e repubblicano vi è una profonda differenza e l'atteggiamento dei lavoratori nei confronti dell'uno o dell'altro tipo di Stato è molto differente e in molti casi anche opposto. Però per noi è una questione di principio. È una necessità per i lavoratori che la loro organizzazione sindacale, lo strumento fondamentale della difesa dei propri interessi e della conquista di nuovi diritti nel campo economico e sociale, sia completamente autonoma e completamente libera da ogni ingerenza statale.

Mazza. E politica.

Di Vittorio. Da ogni ingerenza statale e da ogni ingerenza politica.

Ma quando noi, tenendo conto della tradizione che si è stabilita nel nostro Paese, abbiamo voluto affermare che il riconoscimento giuridico dei sindacati non deve implicare una dipendenza dei sindacati stessi dallo Stato, non abbiamo voluto esprimere nessuna diffidenza verso lo Stato democratico repubblicano; tanto è ciò vero, che nello statuto della Confederazione generale italiana del lavoro è affermato nettamente il principio che i sindacati, oltre a difendere gli interessi economici dei lavoratori, si preoccupano anche della difesa delle libertà democratiche e della Repubblica.

Perciò, nessun sospetto dei lavoratori verso lo Stato democratico e repubblicano; ma noi crediamo che la esigenza dell'autonomia e dell'indipendenza completa dei sindacati rispetto ai poteri dello Stato non sia incompatibile col rispetto che i lavoratori hanno verso lo Stato democratico, ed anzi con la loro volontà di impiegare tutti i mezzi a loro disposizione per difendere lo Stato democratico contro qualsiasi assalto o tentativo di assalto reazionario e monarchico.

In questo stesso articolo è affermato il principio della obbligatorietà dei contratti di lavoro. Io desidero per un momento attirare l'attenzione dei colleghi sulla necessità di questa obbligatorietà.

I sindacati sono abbastanza forti per tutelare efficacemente gl'interessi dei lavoratori, per ottenere la stipulazione di contratti collettivi, che, nei limiti delle possibilità reali, soddisfino le loro esigenze. Però ci si trova molto spesso di fronte a dei datori di lavoro tanto egoisti e tanto antisociali, da non volere riconoscere nemmeno i contratti di lavoro, che sono stipulati liberamente fra le organizzazioni dei datori di lavoro e le organizzazioni dei lavoratori.

In questo caso, l'organizzazione dei lavoratori non ha che un mezzo per far valere il proprio diritto: l'agitazione, lo sciopero, la lotta contro quel datore di lavoro egoista che si rifiuta di accogliere i giusti diritti dei lavoratori. E, naturalmente, siccome il numero di questi datori di lavoro non è così esiguo, come si potrebbe pensare, ciò ci porterebbe a dover scatenare una serie di agitazioni e di lotte, che noi vogliamo evitare al nostro Paese.

Attualmente, il datore di lavoro che non voglia rispettare i contratti (o che non voglia più rispettarli, se ad un certo momento li trova poco convenienti o se, sotto la pressione della disoccupazione, viene ad ottenere l'offerta di lavoratori affamati, a condizioni inferiori a quelle stabilite nei contratti di lavoro), dichiara che il contratto stipulato fra le due organizzazioni non lo impegna personalmente — o perché non è socio o perché, se lo era, si è dimesso —; quindi egli non avrebbe nessun obbligo di osservarlo.

Questa disposizione, sancita nell'articolo 35 della Costituzione e che verrà, naturalmente, come tutti i principî sanciti dalla Costituzione, regolata da una legge, eviterà queste agitazioni, dando efficacia di legge ai contratti di lavoro, e quindi obbligando anche quei datori di lavoro egoisti, antisociali, ai quali ho accennato, a rispettare i contratti collettivi come le leggi sociali.

Noi, per completare questo ordinamento sindacale basato sulla libertà e sull'indipendenza dei sindacati, proporremo un articolo aggiuntivo, col quale vorremmo affermare il principio che nel nostro Paese il mondo del lavoro organizzato, il movimento sindacale, deve avere un posto importante nella stessa struttura dello Stato e deve avere la possibilità di esercitare un'influenza nel senso dell'evoluzione sociale ed economica del nostro Paese. Noi vorremmo che fosse costituito un Consiglio nazionale del lavoro, con ramificazioni regionali e provinciali — in qualche caso, anche locali — elettivo...

Mazza. Sì, dall'alto.

Di Vittorio. ...non un organismo burocratico dello Stato. E il compito di questo Consiglio nazionale dovrebbe essere quello di promuovere una legislazione sociale progressiva aderente alle esigenze economiche del nostro Paese. E a questo Consiglio dovrebbero essere sottoposte preventivamente, per il voto consultivo, tutte le leggi di carattere sociale che dovrebbero andare al Consiglio dei Ministri...

Mazza. Un secondo Stato!

Di Vittorio. ...tutti i provvedimenti di carattere sociale da passare al Consiglio dei Ministri e all'Assemblea legislativa. Inoltre questo ente dovrebbe avere la possibilità di far osservare i contratti di lavoro e le leggi sociali e di esercitare a questo scopo il relativo controllo.

Intendiamoci bene, questo ente dovrebbe essere composto di tutte le classi interessate al processo della produzione; ma bisognerebbe finirla con un concetto invalso in numerosi ambienti e già idealizzato dal fascismo: il concetto della pariteticità della rappresentanza degli interessi rispettivamente dei lavoratori e dei datori di lavoro. Noi riteniamo che non sia democratico, che non sia giusto mettere sullo stesso piano interessi di carattere collettivo, di carattere generale, sociale, nazionale, con interessi di carattere privato e di carattere egoistico; come non è giusto porre sullo stesso piano interessi riguardanti, per esempio, mille cittadini e interessi che rappresentano invece le aspirazioni di un milione di cittadini. Noi comprendiamo anche la funzione che ha il capitale, la funzione che ha l'iniziativa privata negli attuali rapporti economici e sociali, ma possiamo desiderare che negli organi rappresentativi dello Stato democratico le rappresentanze siano costituite su base democratica, cioè sulla base del numero degli interessati da una parte e dall'altra. Noi domandiamo inoltre che i rappresentanti del Consiglio nazionale, come dei consigli regionali e provinciali, siano eletti dalle categorie interessate e non siano di nomina governativa, perché, anche se la nomina viene da parte di un Governo democratico, l'istituto avrà sempre un carattere burocratico e mai democratico.

Permettetemi ora di dire poche parole sulla questione più dibattuta di questa Assemblea: la questione del diritto di sciopero. Numerosi colleghi hanno detto: è proprio necessario sancire il diritto di sciopero nella Costituzione? Anche l'onorevole Della Seta si domandava poco fa: non sarebbe sufficiente che una legge ordinaria dello Stato togliesse il divieto del diritto di sciopero? Noi riteniamo che ciò non sarebbe sufficiente. L'onorevole Nitti, l'altro giorno, domandava in quale altra Costituzione è sancito il diritto di sciopero e perché lo dovremmo sancire proprio noi in Italia. Vi è una risposta a questa domanda dell'onorevole Nitti. Noi non possiamo prescindere dal fatto che in Italia, per circa 20 anni, il diritto di sciopero è stato negato. Lo sciopero era considerato un crimine, un delitto, punito dalla legge, e noi usciamo dal regime che aveva reso lo sciopero un crimine. Evidentemente in altri Paesi democratici, che non hanno avuto la lunga parentesi del fascismo, il diritto di sciopero è un diritto così naturale, che è superfluo sancirlo nella Costituzione, perché ormai è entrato nel costume e nella vita nazionale e più nessuno lo pone in discussione.

Benedettini. Più nessuno? Tutti lo mettiamo in discussione! (Rumori a sinistra).

Di Vittorio. Ma io ho detto in altri paesi democratici...

Benedettini. Come in Russia per esempio! (Commenti).

Di Vittorio. Voi siete un prolungamento del passato! (Applausi a sinistra).

Una voce a destra. C'è in Russia diritto di sciopero? (Commenti).

Di Vittorio. A proposito di questa interruzione, devo osservare che si dice comunemente, anche in questa Assemblea, che in Russia è proibito lo sciopero, non esiste il diritto di sciopero; ma questo non è vero, in Russia non vi è più lo sciopero perché non vi sono più i rapporti sociali che vi sono qui. (Commenti a destra).

Una voce a destra. Il fascismo diceva la stessa cosa!

Di Vittorio. La ragione, dicevo, è molto semplice.

In Russia è stato abolito per sempre lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo; non vi è più nessuno, in Russia, che si arricchisca sul lavoro degli altri e che sfrutti il lavoro degli altri, e quindi lo sciopero non c'è più perché è venuta a mancare la causa stessa dello sciopero, che è lo sfruttamento dei lavoratori da parte dei capitalisti.

Una voce a destra. Ma c'è lo Stato. (Commenti — Interruzioni a sinistra).

Presidente Terracini. Prosegua, onorevole Di Vittorio.

Di Vittorio. Allora, onorevole Nitti, la necessità di inserire nella nostra Costituzione il diritto di sciopero deriva appunto dal fatto che usciamo dal fascismo. Si vuole creare una contrapposizione netta fra la nuova democrazia italiana ed il fascismo, specialmente col riconoscimento di questo diritto fondamentale del proletariato e di tutti i lavoratori: il diritto di sciopero, che è una delle principali conquiste del movimento operaio moderno, è una delle armi essenziali di difesa nel mondo del lavoro, e fa parte dell'integrità e della libertà della persona umana.

Perciò, noi riteniamo che sia indispensabile che questo diritto rimanga sancito nella nuova Costituzione della Repubblica italiana.

È stato osservato ancora che non si specifica se si tratti di sciopero economico o di sciopero politico. Signori, qui si tratta di riconoscere il diritto di sciopero. La natura ed il carattere dello sciopero deve derivare dalla volontà collettiva dei lavoratori che, in un determinato momento, credono necessario scioperare. Lo sciopero, ordinariamente, ha carattere economico: tende alla difesa di interessi immediati e concreti dei lavoratori, alla conquista di nuovi diritti nel campo del lavoro. Ma vi è anche lo sciopero politico, vi è anche lo sciopero di solidarietà. E nessuno deve scandalizzarsi se si dichiara democratico lo sciopero politico, perché, nella storia del movimento operaio italiano e mondiale, vi sono numerosi esempi di scioperi politici, che sono riusciti a salvare la democrazia, e ad impedire l'avvento violento della reazione al potere. Basterebbe ricordare lo sciopero generale in Germania del 1920 contro il putsch del generale Von Kappler; lo sciopero generale del 1934 in Francia, quando il movimento fascista delle Queues de feu aveva organizzato l'assalto al Parlamento per dare un colpo mortale alla democrazia e impossessarsi del potere. È stato lo sciopero generale degli operai e dei lavoratori tutti di Parigi e della Francia che ha impedito ai fascisti francesi di prendere il potere. Peccato che non siamo riusciti in Italia, nel 1922, a fare altrettanto. Il nostro Paese sarebbe stato salvato, fra l'altro, dall'abisso in cui è precipitato. (Applausi a sinistra).

Benedettini. Quali erano i fascisti francesi, onorevole Di Vittorio? (Commenti Interruzioni a sinistra).

Di Vittorio. Onorevole Benedettini, c'erano le Queues de feu del colonnello Laroque ed i nazionalisti monarchici destinati nel mondo moderno ad essere fascisti dappertutto.

Ma, sulla questione del diritto di sciopero, la maggioranza dell'Assemblea, così come la grande maggioranza della Commissione dei settantacinque, è evidentemente favorevole, in linea generale.

Un dissenso, specialmente fra noi di questa parte dell'Assemblea e gli amici democristiani, sorge sulla estensione di questo diritto.

Gli amici democristiani e ciò che mi meraviglia, anche l'onorevole Della Seta del Gruppo repubblicano, sono per la limitazione del diritto di sciopero, per escludere dal diritto di sciopero i lavoratori dei servizi pubblici, i lavoratori cioè statali ed i lavoratori di determinate produzioni da determinarsi, e ciò per difendere contro lo sciopero eventuale i diritti della collettività.

Su questo punto si è fatta anche molta retorica: si è parlato dell'eventuale sciopero dei medici, degli infermieri del manicomio, dei farmacisti, delle levatrici, dei becchini e di tante altre cose del genere.

È evidente, onorevoli colleghi, che in ogni regolamento ed in ogni manifestazione della vita vi può essere qualche cosa di assurdo, spingendo fino alle ultime conseguenze teoriche ogni posizione. Io ricordo che, quando, ancora ragazzo, cominciavo a lavorare nel movimento sindacale del mio paese, ci si batteva per le otto ore di lavoro; ricordo che una delle osservazioni più comuni, quella che aveva ottenuto il maggior successo contro la nozione delle otto ore di lavoro, anzi, contro il principio della determinazione delle otto ore di lavoro era questa, abbastanza ridicola: come fa il cliente che si trova dal barbiere allo scoccare delle otto ore con mezza barba fatta? Andrà in giro con l'altra mezza barba non fatta? Ed i reazionari di quel tempo credevano di aver fatto una osservazione così interessante e definitiva da dover scoraggiare i lavoratori nell'insistere nella richiesta della determinazione delle otto ore di lavoro.

Si rassomigliano molto a questa osservazione altre osservazioni che ho sentito fare a proposito del diritto di sciopero per i funzionari e per i lavoratori dei pubblici servizi. È evidente che il movimento sindacale, che in alcune regioni ed in alcune zone in particolare rappresenta la maggioranza del popolo, non è insensibile allo sciopero dei servizi pubblici; perché gli stessi lavoratori organizzati nei sindacati sono i primi ad essere danneggiati da determinati scioperi di determinati servizi pubblici: per esempio, lo sciopero dei tranvieri, dei ferrovieri ecc. Perciò i lavoratori organizzati nei sindacati si preoccupano a che non vi siano scioperi che possano danneggiare altri lavoratori e possano avere delle conseguenze negative nella vita nazionale del Paese. Ma evitare lo sciopero nei servizi pubblici, quando è una esigenza effettiva della vita collettiva della Nazione, deve essere il prodotto spontaneo della libera volontà dei lavoratori interessati e non una imposizione violenta che venga dalla legge. Tanto è ciò vero, che lo statuto della Confederazione del lavoro, lo statuto che i lavoratori si sono dati essi, liberamente, senza nessuna ingerenza governativa, stabilisce tassativamente una remora allo sciopero dei servizi pubblici, se volete, un'autolimitazione. Cosa dice lo statuto della Confederazione? «I lavoratori dei servizi pubblici, prima di effettuare uno sciopero, devono avere l'autorizzazione del Comitato direttivo della Confederazione del lavoro», cioè dell'organo centrale dirigente che rappresenta non l'una o l'altra categoria dei lavoratori, ma l'insieme dei lavoratori italiani, cioè una parte notevole della collettività nazionale.

Del resto, i lavoratori dello Stato e degli altri enti parastatali o enti locali stanno dando e hanno dato tante e tali prove, non solo della loro maturità sindacale, ma del loro altissimo senso civico, che veramente, da parte dell'Assemblea Costituente, negare di sancire nella Carta costituzionale il diritto di sciopero significherebbe compensare troppo male il loro senso di civismo. Non ho bisogno di spendere molte parole: tutti qui sappiamo quanto siano gravi oggi le condizioni economiche dei lavoratori statali e anche di lavoratori sottoposti a lavoro pesante e sfibrante come i ferrovieri, come i postelegrafonici; ciò è vero anche per tutte le categorie statali, compresi i maestri, i professori, i magistrati, i funzionari di ogni grado. Ebbene, malgrado questa situazione di estremo disagio, malgrado che il Governo si sia sentito nella necessità di rispondere «no» per un certo tempo ad alcune rivendicazioni minime più che giustificate — e riconosciute giustificate dallo stesso Governo — da parte dei lavoratori, non abbiamo avuto degli scioperi nel nostro Paese. Quando, per esempio, di fronte ai ferrovieri, molti dei quali invocano dalla Confederazione del lavoro la facoltà di scioperare per far valere le proprie rivendicazioni più che giustificate, da parte di altri ferrovieri e della Confederazione del lavoro si è fatto osservare che oggi uno sciopero delle ferrovie metterebbe in pericolo intere popolazioni che hanno l'approvvigionamento di 24 o 48 ore e che, mancando gli approvvigionamenti, a causa dello sciopero delle ferrovie, intere popolazioni resterebbero senza pane, i ferrovieri, come i postelegrafonici, come tutti gli altri lavoratori dello Stato, pure in condizioni di fame, di miseria atroce, non hanno scioperato, dando una prova grandiosa — per me — del loro spirito civico e del loro senso di solidarietà con gli interessi generali della Nazione e del popolo italiano (Vivi applausi a sinistra).

Volete proprio compensare adesso questo atteggiamento dei lavoratori statali, parastatali e degli enti locali di fronte agli interessi del Paese con un diniego del diritto di sciopero? Che cosa significherebbe questo?

Belotti. Non è un diniego. Si tratta di disciplinare il diritto di sciopero. (Commenti Rumori all'estrema sinistra).

Di Vittorio. Ciò significherebbe che l'Assemblea Costituente non avrebbe fiducia nel senso civico e nello spirito di abnegazione dei lavoratori dello Stato ed avrebbe fiducia invece nei poteri dello Stato, in leggi dello Stato che con mezzi coercitivi dovrebbero impedire lo sciopero.

Signori, se non temessi di annoiarvi, potrei citarvi dei dati dai quali risulta che in tutti i Paesi, fino a quando il diritto di sciopero è stato negato, ostacolato, limitato o disciplinato come dice l'onorevole collega (che è, poi, la stessa cosa) gli scioperi sono stati più numerosi e più violenti. Quando invece il diritto di sciopero è stato largamente riconosciuto ai lavoratori, gli scioperi sono stati di numero inferiore ed hanno avuto sempre un carattere più normale e meno violento.

Questo deve valere anche per i lavoratori dello Stato.

In ultimo vorrei fare una semplice osservazione: i lavoratori dello Stato, i funzionari di ogni grado, in grande maggioranza laureati, i quali nella loro maggioranza non sono orientati verso principî di carattere estremista, sono tutti, dico tutti, assolutamente unanimi nel rivendicare il diritto di sciopero, e parlo di lavoratori che nessuno qui e fuori di qui avrebbe il diritto di accusare di mania scioperaiola, perché non hanno mai scioperato.

Ma tutti questi lavoratori, compresi i lavoratori democratici cristiani, i lavoratori liberali e ce ne sono anche alcuni qualunquisti, tutti in seno ai sindacati sono unanimi nel rivendicare il diritto di sciopero perché, signori, ci sono molti dissensi su questa questione nella Costituente, nella stampa, nei circoli più o meno ben pensanti, ma in seno alle masse lavoratrici non vi è nessuna discussione in materia. Tutti i lavoratori approvano unanimemente il diritto di sciopero esteso a tutti i lavoratori.

Perciò noi domandiamo all'Assemblea Costituente di avere fiducia nelle masse lavoratrici, nel popolo lavoratore. Un Governo democratico deve essere e deve sentirsi così legato alla massa operaia e alla classe lavoratrice in generale da non avere nessun timore, nessuno! Se uno sciopero può avere conseguenze negative deprecabili per la vita del Paese, lasciate che gli stessi lavoratori lo apprezzino e la loro rinunzia allo sciopero sia il prodotto di una libera volontà dell'uomo direttamente e collettivamente interessato e non il prodotto di una coercizione, di una legge, di una imposizione che proviene dall'alto!

Belotti. C'è l'esempio della Russia! (Vive proteste a sinistra).

Di Vittorio. L'ho già detto, ma sento la necessità di ripetere al collega che ha interrotto che in Russia c'è il diritto di sciopero come tutti gli altri diritti; soltanto, gli operai non fanno oggi lo sciopero, perché lo farebbero contro se stessi, lo farebbero contro il loro stesso interesse, poiché in Russia ognuno lavora. (Commenti Interruzioni al centro e a destra).

Sarebbe molto utile che si cominciasse ad imparare che cosa è la Russia, che cosa c'è in Russia! (Commenti Interruzioni a destra e al centro).

Presidente Terracini. Prego i colleghi di non interrompere. Onorevole Di Vittorio, prosegua il suo discorso.

Di Vittorio. Onorevoli colleghi, io credo che la maggioranza dell'Assemblea, come già nella Commissione dei settantacinque, vorrà approvare nel suo complesso il Titolo III del progetto di Costituzione, ivi compreso il diritto di sciopero puro e semplice, così come è stato redatto, senza restrizioni, compiendo in tal modo un gesto di fiducia cosciente e consapevole verso le masse lavoratrici. E credo che così facendo l'Assemblea Costituente risponderà alle più vive aspettative delle masse lavoratrici italiane, le quali auspicano di realizzare nell'ordine, nella calma, nella legalità i nuovi diritti che hanno già di fatto conquistato e le riforme strutturali, sociali, che sono indispensabili per aprire al nostro Paese un'era di tranquillità, di benessere e di pace, che deve permettere ai lavoratori italiani, manuali ed intellettuali, cioè alla grande maggioranza del popolo, di conquistare un livello superiore di benessere e un più alto grado di civiltà. (Vivi applausi a sinistra Congratulazioni).

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