La sindrome giapponese
Intervista a Krugman
Fonte: the guardian
Will Hutton. Lei sostiene che quel che è accaduto in Giappone potrebbe ripetersi in Usa e Regno Unito o, forse, per l’intera economia mondiale. Ricordiamo che il pil giapponese, quest’anno, sarà pari a quello del 1992: 17 anni perduti, insomma.
Paul Krugman. Sì, non credo che il pericolo si sia allontanato troppo. Certo si è ridotto il pericolo di una Grande depressione. Ma nel primo anno la crisi è stata assai peggiore che negli anni Novanta in Giappone.
W.H. Ma qual è la ragione di tanto pessimismo? Uno potrebbe risponderle: caro Krugman, il Giappone è un caso a parte. È un’economia votata all’export con una moneta molto sopravvalutata. Soprattutto, la risposta dei politici è sempre stata in ritardo, cosa che non è avvenuta a Londra o negli Usa.
P.K. La realtà è che in Giappone si è fatto quel che si è soliti fare di fronte a una recessione: tagliare i tassi fino a quota zero, ma non è stato sufficiente a far ripartire l’economia. E da noi, anche se siamo stati più tempestivi nel taglio, non è stato comunque sufficiente. Questa è l’essenza del problema. Tutto il resto è secondario. Ci sono situazioni in cui la politica monetaria tradizionale perde efficacia. E noi sappiamo che ne stiamo attraversando una.
W.H. Ma un ottimista potrebbe obiettare che ci sono quei segnali di ripresa che lei si rifiuta di vedere. Le Borse hanno recuperato un buon 25%. Il mercato immobiliare sembra aver toccato i fondo, la fiducia delle imprese è in risalita.
P.K. Ci sono segnali di assestamento, piuttosto che di ripresa. Le Borse, pochi mesi fa, ipotizzavano l’Apocalisse. Ora il rischio sembra superato, e i mercati azionari ne hanno preso atto. Ma non ci stanno segnalando che l’economia viaggia verso la ripresa. Non vanno confrontati i prezzi attuali con tre mesi fa. Se li paragoniamo a quelli di due anni fa, abbiamo la misura dello stato attuale di depressione.
W.H. Ci sono i problemi dell’indebitamento degli Stati, ma anche quelli connessi alle disponibilità economiche dei consumatori.
P.K. La crisi immobiliare e la caduta delle azioni hanno senz’altro impoverito le famiglie. Ed è probabile che i consumatori, carichi di debiti, incontrino difficoltà a spendere. La realtà è che la teoria economica ha studiato gli effetti del deficit nei Paesi del Terzo Mondo. Ma non abbiamo mai preso in considerazione l’ipotesi che questo si potesse verificare nei Paesi forti.
W.H. C’è un rischio Argentina o Malaysia fine anni Novanta...
P.K. Nel momento peggiore abbiamo attraversato una fase di «giapponesizzazione» con un un pizzico di «argentinizzazione». Ora abbiamo superato quel rischio. Ma la «giapponesizzazione» rimane.
W.H. Qual è il cuore del problema Giappone, 17 anni dopo lo scoppio della crisi?
P.K. È molto difficile creare abbastanza domanda interna, e così riequilibrare i flussi della bilancia commerciale, in un Paese con una realtà demografica negativa.
W.H. Dunque, il problema della «giapponesizzazione» è un mix di squilibri commerciali uniti all’invecchiamento.
P.K. Sì, ma non vale per gli Stati Uniti. Semmai è il caso di Germania e Italia.
W.H. Confesso che la tesi della «giapponesizzazione» a livello globale non mi convince granché. Ma credo che la tesi valga per la Germania e, per questa via, cominci a contagiare l’intera economia mondiale.
P.K. Il mercato interno tedesco è del tutto inadeguato. Il benessere della Germania, nei primi sette anni del secolo, è stato legata solo a un gigantesco surplus della bilancia commerciale. Com’è possibile che la Germania, che non ha subito la bolla immobiliare, abbia patito la peggior discesa del pil tra le grandi economie? La risposta è che loro esportavano in Paesi dove maturava la Bolla. Scoppiata questa, la Germania ha perso i clienti. È Berlino il problema vero su scala globale.
W.H. In cima al dossier c’è poi una possibile, devastante, crisi bancaria. Il Fondo Monetario teme che la Germania abbia almeno 500 miliardi di sofferenze non emerse. Le banche tedesche hanno mille miliardi di dollari, se non di più, investiti in cdo che possono essere assorbiti solo congelando le perdite. Noi inglesi abbiamo avuto Rbs, voi Americani Citigroup. La Germania ha perduto sei punti di pil senza che la crisi bancaria abbia toccato il fondo.
P.K. Questo è il versante finanziario della crisi. Certo, noi partiamo dall’ipotesi che la crisi sia essenzialmente finanziaria. Ma non è detto che sia vero. È vero che Lehman è stato il campanello d’allarme. Ma il crollo dell’immobiliare era precedente. La caduta del business è in buona parte dovuta all’eccesso di capacità produttiva, a sua volta provocato dal calo dei consumi e del crollo dell’immobiliare. Ristabilire la fiducia nella finanza è una condizione necessaria. Ma non sufficiente.
W.H. È un quadro desolante...
P.K. Sì, ed è anche per questo che sono così depresso.
W.H. Lei sostiene che siamo al 12esimo mese di una depressione destinata a durare 36 mesi, sebbene in forma meno grave. È una prospettiva scioccante.
P.K. Nella recessione del 2001 ci sono voluti 30 mesi prima che ripartisse il mercato del lavoro.
W.H. È ancora convinto che la strategia migliore passi dagli stimoli della politica fiscale?
P.K. Sì, è lo strumento migliore per frenare la recessione. È opinione comune che gli investimenti giapponesi in infrastrutture siano stati inefficaci. Io penso, al contrario, che hanno evitato il collasso. Obama ha messo in cantiere uno stimolo di poco inferiore al 5% del pil ma, in realtà, si tratta di un 4% spalmato in due anni e mezzo. Basta? Sono convinto che presto arriverà una seconda manovra di stimolo.
W.H. E poi?
P.K. Sotto con le regole della finanza. Bisogna imbrigliare il mostro. L’eccessiva crescita della leva nel settore privato è quel che ci ha resi così vulnerabili.
W.H. Più fisco, meno finanza. Così cambia la via americana al capitalismo.
P.K. Non sono così cosmico. Ma è vero che Gordon Gekko è arrivato tra noi grazie alla finanziarizzazione. Io penso che abbiamo bisogno di un po’ di welfare in più e anche di un po’ di socialdemocrazia. E di sindacato.
W.H. Chiudiamo con Obama. Lei lo ha molto criticato in passato.
P.K. Sono sempre più soddisfatto. Chiedevo uno stimolo fiscale più forte, penso che lo farà. Chiedevo più aggressività verso le banche: vedremo se si dovrà riprender la battaglia. Ma la riforma della sanità è buona, come la battaglia sul clima. Io, che ero scettico, comincio a sperare nel New Deal. Obama ha una grande personalità. Ed è un tale sollievo avere finalmente alla Casa Bianca uno che merita il tuo rispetto.
Will Hutton. Lei sostiene che quel che è accaduto in Giappone potrebbe ripetersi in Usa e Regno Unito o, forse, per l’intera economia mondiale. Ricordiamo che il pil giapponese, quest’anno, sarà pari a quello del 1992: 17 anni perduti, insomma.
Paul Krugman. Sì, non credo che il pericolo si sia allontanato troppo. Certo si è ridotto il pericolo di una Grande depressione. Ma nel primo anno la crisi è stata assai peggiore che negli anni Novanta in Giappone.
W.H. Ma qual è la ragione di tanto pessimismo? Uno potrebbe risponderle: caro Krugman, il Giappone è un caso a parte. È un’economia votata all’export con una moneta molto sopravvalutata. Soprattutto, la risposta dei politici è sempre stata in ritardo, cosa che non è avvenuta a Londra o negli Usa.
P.K. La realtà è che in Giappone si è fatto quel che si è soliti fare di fronte a una recessione: tagliare i tassi fino a quota zero, ma non è stato sufficiente a far ripartire l’economia. E da noi, anche se siamo stati più tempestivi nel taglio, non è stato comunque sufficiente. Questa è l’essenza del problema. Tutto il resto è secondario. Ci sono situazioni in cui la politica monetaria tradizionale perde efficacia. E noi sappiamo che ne stiamo attraversando una.
W.H. Ma un ottimista potrebbe obiettare che ci sono quei segnali di ripresa che lei si rifiuta di vedere. Le Borse hanno recuperato un buon 25%. Il mercato immobiliare sembra aver toccato i fondo, la fiducia delle imprese è in risalita.
P.K. Ci sono segnali di assestamento, piuttosto che di ripresa. Le Borse, pochi mesi fa, ipotizzavano l’Apocalisse. Ora il rischio sembra superato, e i mercati azionari ne hanno preso atto. Ma non ci stanno segnalando che l’economia viaggia verso la ripresa. Non vanno confrontati i prezzi attuali con tre mesi fa. Se li paragoniamo a quelli di due anni fa, abbiamo la misura dello stato attuale di depressione.
W.H. Ci sono i problemi dell’indebitamento degli Stati, ma anche quelli connessi alle disponibilità economiche dei consumatori.
P.K. La crisi immobiliare e la caduta delle azioni hanno senz’altro impoverito le famiglie. Ed è probabile che i consumatori, carichi di debiti, incontrino difficoltà a spendere. La realtà è che la teoria economica ha studiato gli effetti del deficit nei Paesi del Terzo Mondo. Ma non abbiamo mai preso in considerazione l’ipotesi che questo si potesse verificare nei Paesi forti.
W.H. C’è un rischio Argentina o Malaysia fine anni Novanta...
P.K. Nel momento peggiore abbiamo attraversato una fase di «giapponesizzazione» con un un pizzico di «argentinizzazione». Ora abbiamo superato quel rischio. Ma la «giapponesizzazione» rimane.
W.H. Qual è il cuore del problema Giappone, 17 anni dopo lo scoppio della crisi?
P.K. È molto difficile creare abbastanza domanda interna, e così riequilibrare i flussi della bilancia commerciale, in un Paese con una realtà demografica negativa.
W.H. Dunque, il problema della «giapponesizzazione» è un mix di squilibri commerciali uniti all’invecchiamento.
P.K. Sì, ma non vale per gli Stati Uniti. Semmai è il caso di Germania e Italia.
W.H. Confesso che la tesi della «giapponesizzazione» a livello globale non mi convince granché. Ma credo che la tesi valga per la Germania e, per questa via, cominci a contagiare l’intera economia mondiale.
P.K. Il mercato interno tedesco è del tutto inadeguato. Il benessere della Germania, nei primi sette anni del secolo, è stato legata solo a un gigantesco surplus della bilancia commerciale. Com’è possibile che la Germania, che non ha subito la bolla immobiliare, abbia patito la peggior discesa del pil tra le grandi economie? La risposta è che loro esportavano in Paesi dove maturava la Bolla. Scoppiata questa, la Germania ha perso i clienti. È Berlino il problema vero su scala globale.
W.H. In cima al dossier c’è poi una possibile, devastante, crisi bancaria. Il Fondo Monetario teme che la Germania abbia almeno 500 miliardi di sofferenze non emerse. Le banche tedesche hanno mille miliardi di dollari, se non di più, investiti in cdo che possono essere assorbiti solo congelando le perdite. Noi inglesi abbiamo avuto Rbs, voi Americani Citigroup. La Germania ha perduto sei punti di pil senza che la crisi bancaria abbia toccato il fondo.
P.K. Questo è il versante finanziario della crisi. Certo, noi partiamo dall’ipotesi che la crisi sia essenzialmente finanziaria. Ma non è detto che sia vero. È vero che Lehman è stato il campanello d’allarme. Ma il crollo dell’immobiliare era precedente. La caduta del business è in buona parte dovuta all’eccesso di capacità produttiva, a sua volta provocato dal calo dei consumi e del crollo dell’immobiliare. Ristabilire la fiducia nella finanza è una condizione necessaria. Ma non sufficiente.
W.H. È un quadro desolante...
P.K. Sì, ed è anche per questo che sono così depresso.
W.H. Lei sostiene che siamo al 12esimo mese di una depressione destinata a durare 36 mesi, sebbene in forma meno grave. È una prospettiva scioccante.
P.K. Nella recessione del 2001 ci sono voluti 30 mesi prima che ripartisse il mercato del lavoro.
W.H. È ancora convinto che la strategia migliore passi dagli stimoli della politica fiscale?
P.K. Sì, è lo strumento migliore per frenare la recessione. È opinione comune che gli investimenti giapponesi in infrastrutture siano stati inefficaci. Io penso, al contrario, che hanno evitato il collasso. Obama ha messo in cantiere uno stimolo di poco inferiore al 5% del pil ma, in realtà, si tratta di un 4% spalmato in due anni e mezzo. Basta? Sono convinto che presto arriverà una seconda manovra di stimolo.
W.H. E poi?
P.K. Sotto con le regole della finanza. Bisogna imbrigliare il mostro. L’eccessiva crescita della leva nel settore privato è quel che ci ha resi così vulnerabili.
W.H. Più fisco, meno finanza. Così cambia la via americana al capitalismo.
P.K. Non sono così cosmico. Ma è vero che Gordon Gekko è arrivato tra noi grazie alla finanziarizzazione. Io penso che abbiamo bisogno di un po’ di welfare in più e anche di un po’ di socialdemocrazia. E di sindacato.
W.H. Chiudiamo con Obama. Lei lo ha molto criticato in passato.
P.K. Sono sempre più soddisfatto. Chiedevo uno stimolo fiscale più forte, penso che lo farà. Chiedevo più aggressività verso le banche: vedremo se si dovrà riprender la battaglia. Ma la riforma della sanità è buona, come la battaglia sul clima. Io, che ero scettico, comincio a sperare nel New Deal. Obama ha una grande personalità. Ed è un tale sollievo avere finalmente alla Casa Bianca uno che merita il tuo rispetto.
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