Siamo di fronte alla fine del neoliberismo?
di David Harvey (geografo, sociologo urbano e storico sociale marxista di reputazione accademica internazionale. Attualmente è Distinguished Professor al CUNY Graduate Center di New York. Il suo ultimo libro è Una breve storia del neoliberismo. Ha un blog più che raccomandabile: Reading Marx’s Capital blog)
Questa crisi segna la fine del neoliberismo? Io credo che dipenda da ciò che si intende per neoliberismo. Secondo me, il neoliberismo è stato un progetto di classe camuffato da una retorica proteiforme sulla libertà individuale, l’arbitrio, la responsabilità personale, la privatizzazione e il libero mercato. Ma questa retorica era solo un mezzo per restaurare e consolidare il potere di classe, e in questo senso il progetto neoliberista è stato un grande successo.
Uno dei principi basilari affermatisi negli anni 70 è che il potere dello Stato doveva proteggere a tutti i costi le istituzioni finanziarie. Questo principio fu messo in atto durante la crisi di New York della metà degli anni 70, ed è stato definito per la prima volta a livello internazionale nel 1982, quando sul Messico si profilava lo spettro della bancarotta. Ciò avrebbe distrutto le banche d’investimento newyorchesi, cosicché il Tesoro statunitense e il FMI hanno agito di comune accordo per il salvataggio del Messico. Ma, nel farlo, hanno imposto un programma d’austerità alla popolazione messicana. In altre parole, hanno protetto le banche e hanno distrutto il popolo; da allora la pratica normale del FMI non è cambiata. L’attuale salvataggio è la solita vecchia storia, ma riprodotta su scala gigante.
Negli Usa è successo che 8 uomini ci hanno consegnato un documento di 3 pagine, a mo’ di pistola puntata contro noi tutti: “Dateci 700 mila milioni di dollari, e non se ne parli più”. Secondo me, si è trattato di una sorta di golpe finanziario contro lo Stato e contro la popolazione nordamericana. Ciò significa che non si uscirà da questa crisi con una crisi della classe capitalista: se ne uscirà con un consolidamento sempre maggiore di questa stessa classe. Andrà a finire che negli Usa ci saranno 4 o 5 grandi enti finanziari, e basta. Molti, a Wall Street, già adesso stanno prosperando. Lazard’s, per la sua specializzazione in fusioni e acquisizioni, sta guadagnando soldi a palate. Alcuni non sfuggiranno all’incendio, ma dovunque ci sarà un consolidamento del potere finanziario. Andrew Mellon – banchiere nordamericano, segretario del Tesoro nel 1921-32 – ha splendidamente affermato che, in una crisi, gli attivi finiscono sempre per ritornare ai loro legittimi proprietari. Una crisi finanziaria è un modo per razionalizzare l’irrazionale: ad esempio, l’immenso crac asiatico del 1997-8 è sfociato in un nuovo modello di sviluppo capitalista. I grandi mutamenti portano a una riconfigurazione, a una forma nuova di potere di classe. Politicamente parlando, potrebbe andare a finire male. Il salvataggio bancario ha suscitato resistenze al Senato e altrove, per cui è possibile che la classe politica non si allinei tanto facilmente: i politici possono porre ostacoli sul cammino, ma, finora, hanno ingoiato il rospo e non hanno nazionalizzato le banche.
Tuttavia, i fatti recenti potrebbero portare ad una lotta politica di maggior spessore: si percepisce una vigorosa resistenza a conferire maggior potere a quelli che ci hanno messo in questo pasticcio. La scelta del team economico di Obama viene messa in questione; ad esempio, Larry Summers, che era segretario del Tesoro nel momento cruciale in cui molte cose hanno cominciato ad andar male davvero, alla fine dell’amministrazione Clinton. Perché conferire incarichi a tanti personaggi favorevoli a Wall Street, al capitale finanziario, che hanno reintrodotto il predominio del capitale finanziario? Questo non vuol dire che essi non riprogetteranno l’architettura finanziaria, perché sanno che la modifica è inevitabile, ma la domanda è: a favore di chi la riprogetteranno? La gente è davvero scontenta del team economico di Obama; e anche il grosso della stampa.
Occorre una nuova forma di architettura finanziaria. Io non credo che vadano abolite tutte le istituzioni esistenti; certamente non la Banca dei Regolamenti Internazionali (BRI), né il FMI. Credo che noi abbiamo bisogno di queste istituzioni, ma che esse debbano essere radicalmente trasformate. La questione capitale è: chi le controllerà e quale sarà la loro architettura. Avremo bisogno di persone, di esperti che capiscano il modo in cui tali istituzioni funzionano e possono funzionare. E questo è assai pericoloso, perché, come possiamo vedere proprio adesso, quando lo Stato cerca qualcuno che capisca quanto sta succedendo, di solito guarda a Wall Street.
Un movimento operaio inerme: siamo arrivati a questi punti.
Che si possa uscire da questa crisi percorrendo altre strade dipende, e molto, dai rapporti di forza tra le classi sociali. Dipende da fino a che punto l’insieme della popolazione dirà: “Ora basta, ora bisogna cambiare il sistema!”. Adesso, esaminando a posteriori che ne è stato dei lavoratori negli ultimi 50 anni, si può vedere che da questo sistema essi non hanno ottenuto praticamente niente. Ma non si sono ribellati. Negli Usa, negli ultimi 7 o 8 anni, la condizione delle classi lavoratrici in generale è peggiorata, ma non c’è stato un massiccio movimento di resistenza. Il capitalismo finanziario può sopravvivere alla crisi, ma questo dipende totalmente dal fatto che si verifichi una ribellione popolare contro quello che sta succedendo e che ci sia un attacco violento, mirato a riconfigurare le modalità di funzionamento dell’economia.
Uno dei maggiori ostacoli posti sul cammino dell’accumulo continuo di capitali, negli anni 60 e agli inizi degli anni 70, è stato il fattore lavoro. In Europa come negli Usa c’era scarsità di manodopera e il mondo del lavoro era ben organizzato, con una sua influenza politica. Cosicché, in quel periodo, uno dei grandi problemi era: come può il capitale riuscire ad accedere a forze lavoro più docili e a buon mercato? Esistevano varie risposte. Una passava attraverso l’incremento dell’immigrazione. Negli Usa, nel 1965, ci fu una radicale revisione delle leggi migratorie, col che si consentì l’accesso a tutta la popolazione mondiale eccedente (in precedenza, veniva favorita soltanto l’immigrazione di caucasici e europei). Alla fine degli anni 60, il governo francese dava sussidi per l’importazione di manodopera magrebina, i tedeschi attiravano i turchi, gli svedesi importavano yugoslavi e i britannici attingevano dal proprio impero. Così fece la sua comparsa una politica pro-immigrazione, il che era un modo di combattere il problema.
Un altro metodo è stata la rapida trasformazione tecnologica, che estromette la gente dal lavoro, e, in mancanza di essa, per schiacciare il movimento operaio organizzato c’erano pronti personaggi come Reagan, la Thatcher e Pinochet. Infine, tramite la dislocazione, il capitale si sposta dove c’è eccedenza di manodopera. Il che è stato facilitato da due fattori. In primo luogo, la riorganizzazione tecnica dei sistemi di trasporto: una delle maggiori rivoluzioni avvenute durante quel periodo è quella dei containers, che rendevano possibile fabbricare parti di automobili in Brasile e di imbarcarle a basso costo per Detroit, o per qualsiasi altra destinazione. In secondo luogo, i nuovi sistemi di comunicazione hanno consentito un’organizzazione ottimale del tempo della produzione a catena delle merci, a livello globale.
Tutti questi sistemi si indirizzavano a risolvere il problema della scarsità di manodopera a favore del capitale, con la conseguenza che verso il 1985 il capitale ormai non aveva più problemi al riguardo. Ci potevano essere problemi specifici in zone particolari, ma, globalmente, esso aveva a disposizione abbondante forza lavoro; l’improvviso crollo dell’Unione Sovietica e la trasformazione di gran parte della Cina, nel breve spazio di 20 anni, hanno aggiunto al proletariato globale circa 2 miliardi di persone. Dunque, la disponibilità di forza lavoro oggi non rappresenta più un problema, e il risultato è che negli ultimi 30 anni il mondo del lavoro è rimasto sempre più indifeso. Ma quando i lavoratori sono inermi, ricevono salari bassi e c’è impegno a contenere i salari, questo finisce per limitare i mercati. Di conseguenza, il capitale ha cominciato ad avere problemi con i propri mercati. E ci sono volute due cose.
Prima cosa necessaria: per porre rimedio alla crescente divaricazione tra i redditi e le spese dei lavoratori, è venuta di moda l’industria delle carte di credito, che ha portato a un indebitamento sempre maggiore delle famiglie. Così, negli Usa del 1980, vediamo che il debito medio delle famiglie si aggirava sui 40.000 dollari (costanti), mentre ora è di circa 130.000 dollari (costanti) a famiglia, ipoteche incluse. Il debito delle famiglie è esploso, e questo ci porta alla finanziarizzazione, la quale ha a che vedere con alcune istituzioni finanziarie lanciatesi a sostenere i debiti delle famiglie dei lavoratori, i cui introiti hanno smesso di crescere. E, partendo dalla rispettabile classe lavoratrice, più o meno verso il 2000 finisci col trovare già in circolazione ipoteche subprime. Cerchi di creare un mercato. Di modo che gli enti finanziari si azzardano a sostenere il finanziamento di debiti di persone praticamente senza introiti. Anzi, se non si agisse così, che ne sarebbe dei promotori immobiliari che hanno costruito abitazioni? Dunque si è agito così, e si è cercato di stabilizzare il mercato finanziando l’indebitamento.
La crisi dei valori degli attivi
La seconda cosa necessaria è che, dal 1980, i ricchi diventassero sempre più ricchi con il contenimento dei salari. La storia che ci hanno raccontato è che avrebbero investito in nuove attività, ma non l’hanno fatto; la maggior parte dei ricchi ha cominciato a investire in attivi, cioè, hanno investito denaro in Borsa. Così si sono prodotte le bolle sui mercati dei valori. Si tratta di un sistema analogo al sistema di Ponzi, ma senza il bisogno di un Madoff per organizzarlo. I ricchi rilanciano su valori di attivi, incluse azioni, proprietà immobiliari e beni voluttuari, e sul mercato dell’arte. Questi investimenti comportano finanziarizzazione. Ma, man mano che si investe su valori di attivi, ciò si ripercuote sull’insieme dell’economia, per cui vivere a Manhattan è diventato impossibile, a meno di non indebitarsi incredibilmente, e tutti si trovano impelagati in quest’inflazione dei valori degli attivi, comprese le classi lavoratrici, i cui introiti non aumentano. E allora, ci troviamo di fronte a un tracollo dei valori degli attivi; il mercato immobiliario crolla, il mercato dei valori crolla.
E’ sempre esistito il problema del rapporto tra rappresentazione e realtà. Il debito ha a che vedere con il valore futuro che si prevede per beni e servizi, cosicché presuppone che l’economia continui a crescere nei 20-30 anni successivi. Comporta sempre un elemento di rischio, una tacita alea, che va a riflettersi sui tassi d’interesse, che verranno scontati. Questa crescita dell’area finanziaria dopo gli anni 70 ha molto a che vedere con quello che io credo sia il problema chiave: quello che chiamerei il problema dell’assorbimento delle eccedenze di capitali. Come la teoria delle eccedenze ci insegna, i capitalisti producono un’eccedenza, che devono dominare, ricapitalizzare e reinvestire per espandersi. Questo significa che devono sempre trovare qualche campo per espandersi. In un articolo che ho scritto per la New Left Review, ‘Il diritto alla città’, segnalavo che negli ultimi 30 anni un immenso volume di eccedenze di capitale è stato assorbito dall’urbanizzazione: per la ristrutturazione, l’espansione e la speculazione urbane. Tutte ed ognuna delle città che ho visitato hanno realizzato costruzioni su enormi aree atte ad assorbire l’eccedenza di capitali. Adesso, neanche a dirlo, molti di questi progetti sono rimasti in sospeso.
Questo sistema di assorbire le eccedenze di capitali col tempo è diventato sempre più problematico. Nel 1950, il valore totale dei beni e dei servizi prodotti si aggirava sui 135 mila milioni di dollari (costanti). Fino al 1950, era di 4 milioni di milioni di dollari. Nel 2000, si avvicinava ai 40 milioni di milioni, ora è intorno ai 50 milioni di milioni. E, se Gordon Brown non erra, nei prossimi 20 anni raddoppierà fino a raggiungere i 100 milioni di milioni nel 2030.
Nel corso della storia del capitalismo, il tasso di crescita medio generale si è aggirato sul 2,5% annuo, su base composta. Questo significherebbe che nel 2030 si dovrebbero piazzare in maniera redditizia 2,5 milioni di milioni di dollari. E’ un ordine di grandezza molto elevato. Io credo che sia stato un grosso problema, soprattutto a partire dal 1970, trovare un modo per assorbire nella produzione reale volumi sempre maggiori di eccedenze. Solo una parte sempre più piccola va a finire alla produzione reale, e una parte sempre più grande viene destinata alla speculazione in valori di attivi, cosa che spiega la frequenza e la profondità crescenti delle crisi finanziarie a cui stiamo assistendo, più o meno, dal 1975. Si tratta sempre di crisi di valori di attivi.
Io direi che, se uscissimo adesso dalla crisi, e ci fosse un accumulo di capitale con un tasso di crescita annuale del 3%, verremmo a trovarci in un mare di terribili problemi. Il capitalismo si trova di fronte a serie limitazioni ambientali, come pure a limitazioni di mercato e di redditività. La svolta recente verso la finanziarizzazione è una svolta imposta dalla necessità di lottare contro un problema di assorbimento delle eccedenze; un problema, però, che non si può affrontare senza esporsi a svalutazioni periodiche. E’ proprio quello che sta succedendo adesso, con perdite di svariati miliardi di dollari di valori di attivi.
Il termine ‘salvataggio nazionale’ è, dunque, inappropriato, perché non si sta salvando l’insieme del sistema finanziario esistente, ma si stanno salvando le banche, la classe capitalista, col perdonare loro debiti e trasgressioni. E si stanno salvando solo quelle. Il denaro fluisce alle banche, ma non alle famiglie che, tramite le ipoteche, vengono ‘giustiziate’, cosa che sta cominciando a provocare malcontento. E le banche usano questo denaro non per prestarlo, ma per acquistare altre banche. Stanno consolidando il proprio potere di classe.
Il collasso del credito
Il collasso del credito alla classe lavoratrice mette fine alla finanziarizzazione come soluzione della crisi del mercato. Di conseguenza, assisteremo ad un’importante crisi di disoccupazione, al collasso di molte industrie, a meno che non venga intrapresa un’azione efficace per cambiare il corso delle cose. E a questo punto si sviluppa la discussione sul ritorno ad un modello economico keynesiano. Il programma economico di Obama consiste nell’investire massicciamente in grandi opere pubbliche e tecnologie verdi, tornando in un certo senso al tipo di soluzione del New Deal. Io sono scettico riguardo alla sua capacità di riuscita.
Per capire la situazione attuale, dobbiamo andare oltre quello che accade nel processo del lavoro e della produzione, dobbiamo entrare nel complesso di relazioni tra lo Stato e le finanze. Dobbiamo capire il modo in cui il debito nazionale e il sistema creditizio, fin dall’inizio, sono stati veicoli fondamentali per l’accumulazione primitiva, o per quello che io chiamo accumulazione attraverso esproprio (come può vedersi nel settore delle costruzioni). Ne ‘Il diritto alla città’ facevo osservare il modo in cui il capitalismo era stato rivitalizzato nella Parigi del Secondo Impero: lo Stato, d’intesa con i banchieri, mise in atto un nuovo legame Stato-capitale finanziario, con lo scopo di ricostruire Parigi. Ciò produsse pieno impiego, i boulevards, i sistemi di erogazione dell’acqua corrente e quelli di canalizzazione degli scarichi liquidi, e nuovi sistemi di trasporto; grazie allo stesso tipo di meccanismo venne anche costruito il Canale di Suez. Gran parte di tutto questo fu finanziato tramite debiti. Ora, dal 1970 questo legame Stato-finanze sta sperimentando un’enorme trasformazione: si è internazionalizzato, si è aperto ad ogni genere d’innovazione finanziaria, compresi i mercati di derivati e i mercati speculativi, ecc. Si è creata una nuova architettura finanziaria.
Io, personalmente, credo che adesso stiano cercando una nuova forma di sistema finanziario che possa risolvere il problema, non per il popolo dei lavoratori, ma per la classe capitalista. Secondo me, sono sulla buona strada per trovare una soluzione favorevole alla classe capitalista, e se tutti noialtri ne subiamo le conseguenze, beh, che ci si può fare? L’unica cosa che li preoccupa, riguardo a noi, è che non ci ribelliamo. E mentre aspettiamo a ribellarci, cercano di progettare un sistema in accordo con i propri interessi di classe. Non so come sarà questa nuova architettura finanziaria. Se si osserva attentamente quanto accaduto a New York durante la crisi fiscale, si vedrà che i banchieri e i finanzieri non avevano la minima idea del da farsi; quello che hanno fatto alla fine è stata una specie di patchwork a tentativi, un pezzo qui, un pezzo là; poi hanno messo insieme i frammenti in modo nuovo, e hanno finito per costruire una nuova struttura. Ma qualunque sia la soluzione a cui arriveranno, sarà a misura loro, a meno che noi non ci impuntiamo e non cominciamo a esigere qualcosa a misura nostra. Le persone come noi possono svolgere un ruolo cruciale nella fase di porre questioni e di sfidare la legittimità delle decisioni che proprio adesso si stanno prendendo. E anche – chiaramente - nella fase di realizzare analisi precise della vera natura del problema e delle possibili soluzioni da offrire rispetto ad esso.
Alternative
Abbiamo bisogno di cominciare ad esercitare di fatto il nostro diritto alla città. Dobbiamo chiederci cosa sia più importante, se il valore delle banche o il valore dell’umanità. Il sistema bancario dovrebbe servire la gente, non vivere a spese della gente. E l’unica maniera in cui saremo in grado di esercitare il diritto alla città è prendendo in mano le redini del problema dell’assorbimento delle eccedenze capitaliste. Dobbiamo socializzare le eccedenze dei capitale, e sfuggire per sempre al problema del 3% di accumulo. Ora ci troviamo ad un punto in cui continuare all’infinito con un tasso di crescita del 3% comporterà costi ambientali così terribili, e una pressione sulle condizioni sociali così tremenda, che finiremo con una crisi finanziaria dopo l’altra.
Il problema centrale è come possano assorbirsi in modo produttivo e redditizio le eccedenze capitalistiche. Secondo me, i movimenti sociali devono coalizzarsi intorno all’idea di ottenere un maggior controllo sul prodotto eccedente. E sebbene io non sostenga un ritorno al modello keynesiano del tipo che avevamo negli anni 60, mi sembra fuor di dubbio che a quei tempi esisteva un controllo sociale e politico molto maggiore sulla produzione, l’uso e la distribuzione delle eccedenze. Le eccedenze in circolazione venivano dirottate sulla costruzione di scuole, ospedali e infrastrutture. Questo ha fatto uscire dalla tana la classe dominante e ha causato un contromovimento alla fine degli anni 60: i capitalisti non avevano più il controllo delle eccedenze. Tuttavia, se si considerano i dati disponibili, si vede che la proporzione di eccedenze assorbite dallo Stato non è variata molto dal 1970; cioè, quello che ha fatto la classe capitalista è stato di frenare un’ulteriore socializzazione delle eccedenze. Sono anche riusciti a trasformare la parola ‘governo’ nella parola ‘governance’, rendendo vicendevolmente permeabili le attività di governo e quelle delle imprese, il che consente il prodursi di situazioni come quella dell’Iraq, dove mediatori privati hanno munto implacabilmente le mammelle del beneficio facile.
Credo che siamo approdati ad una crisi di legittimità. Negli scorsi 30 anni, si è ripetuta diverse volte la boutade (frase brillante) di Margaret Thatcher, secondo la quale ‘non c’è alternativa’ a un mercato libero neoliberista, a un mondo privatizzato, e se in questo tipo di mondo non abbiamo successo, è per colpa nostra. Io credo che sia molto difficile sostenere che, di fronte ad una crisi fatta di esecuzioni ipotecarie e di sfratti immobiliari, si debbano aiutare le banche e non le persone che perdono la casa. Si possono accusare gli sfrattati di essere degli irresponsabili, e negli Stati Uniti in quest’accusa non manca una componente fortemente razzista. Quando la prima onda di esecuzioni ipotecarie ha colpito zone come Cleveland e Ohio, è risultata devastante per le comunità nere, ma la reazione di alcuni è stata più o meno la seguente: ‘Beh, cosa vi aspettavate? I negri sono gente irresponsabile’. Le spiegazioni della crisi predilette dalla destra sono in termini di brama personale, tanto nel suo agire a Wall Street, quanto nel suo comportamento verso la gente che ha chiesto prestiti per comprarsi una casa. Quello che cercano, è di scaricare la colpa della crisi sulle sue vittime. Uno dei nostri compiti consiste nel dire: ‘No, questo non si può assolutamente fare’, e poi cercare di offrire una spiegazione convincente di questa crisi come un fenomeno di classe: una determinata struttura di sfruttamento è colata a picco e sta per essere rimpiazzata da una struttura di sfruttamento ancora più radicale. E’ molto importante che questa spiegazione alternativa della crisi venga presentata e discussa pubblicamente.
Una delle grandi configurazioni ideologiche in via di formazione riguarda il ruolo che in futuro dovrà avere la proprietà della casa; cominciamo una buona volta a dire che occorre socializzare gran parte del patrimonio abitativo, visto che fin dagli anni 30 abbiamo avuto enormi pressioni a favore della casa individualizzata per garantire i diritti e le condizioni della gente. Dobbiamo socializzare e ricapitalizzare l’educazione e l’assistenza sanitaria pubbliche, oltre a provvedere alle case. Questi settori dell’economia devono essere socializzati, in accordo con le banche.
C’è un altro punto che dobbiamo riconsiderare: il lavoro, e soprattutto il lavoro organizzato, è solo un piccolo frammento di questo insieme di problemi, e riveste soltanto un ruolo parziale in quello che sta accadendo. E questo per una ragione molto semplice, che risale alle limitazioni delineate da Marx al momento di definire il problema. Se affermiamo che la formazione del complesso Stato-finanze è assolutamente cruciale per la dinamica del capitalismo (e, ovviamente, lo è), e se ci chiediamo che cosa le forze sociali facciano al fine di arginare o di promuovere queste formazioni istituzionali, bisogna riconoscere che i lavoratori non sono mai stati in prima linea in questa lotta. I lavoratori sono stati in prima linea nel mercato del lavoro e nel processo di lavoro, entrambi momenti vitali del processo di circolazione, ma il grosso delle lotte che si sono svolte attorno al legame Stato-finanze sono state lotte populiste, in cui i lavoratori sono stati presenti solo in parte.
Ad esempio, negli Usa degli anni 30 c’erano un sacco di populisti che sostenevano gli assaltatori di banche Bonnie e Clyde. E, attualmente, molte delle lotte in corso in America Latina hanno una direzione più populista che operaia. I lavoratori hanno sempre avuto un ruolo molto importante, ma non credo che ora ci troviamo in una situazione in cui la visione convenzionale del proletariato come avanguardia della lotta sia di grande aiuto, quando il punto principale è l’architettura del legame Stato-finanze (il sistema nervoso centrale dell’accumulazione di capitale). Ci possono essere epoche e luoghi in cui i movimenti proletari risultano di grande importanza, ad esempio in Cina, dove mi auguro possano avere, criticamente, un ruolo decisivo che invece non vedo nel nostro Paese. La cosa interessante è che i lavoratori dell’automobile e le compagnie automobilistiche sono attualmente alleati di fronte al legame Stato-finanze, cosicché ora a Detroit non c’è, o perlomeno non nella stessa maniera, la forte divisione di classe che c’è sempre stata. Ora assistiamo a un tipo completamente diverso di politica di classe, e alcune delle forme marxiste convenzionali di considerare i problemi contrastano con la realizzazione di una politica veramente radicale.
Un grande problema della sinistra è anche il seguente: molti pensano che la conquista del potere statale non abbia nessun ruolo nelle trasformazioni politiche. Credo che siano dei folli. Nello Stato è radicato un potere incredibile, e non si può prescindere dallo Stato come se esso non avesse importanza. Sono profondamente scettico rispetto alla convinzione secondo cui le ONG e le organizzazioni della società civile stanno trasformando il mondo; non perché le ONG non possano fare nulla, ma perché, se vogliamo fare qualcosa di fronte alla crisi di enorme portata attualmente in corso, si richiede un altro tipo di concezione e un altro tipo di movimento politico. Negli Usa, l’istinto politico è molto anarchico, e quantunque io abbia simpatia per diversi punti di vista anarchici, le inveterate proteste contro lo Stato e il rifiuto di servirsene costituiscono un altro ostacolo sul cammino.
Non credo che, nell’attuale congiuntura, ci troviamo in una posizione che ci consenta di determinare quali saranno i fattori di cambiamento, ed è evidente che questi fattori saranno diversi nelle diverse parti del mondo. Ora, negli Usa, ci sono segnali che la classe degli executives e dei gestori d’impresa, che per tutti questi anni hanno vissuto degli introiti provenienti dal capitale finanziario, si sono stufati e quindi potrebbero radicalizzarsi abbastanza. Molta gente è stata licenziata dai servizi finanziari, e in certi casi sono arrivati ad assistere all’esecuzione delle loro ipoteche. I produttori culturali stanno prendendo coscienza della natura dei problemi a cui ci troviamo di fronte, e, così come negli anni 60 le scuole d’arte si erano trasformate in centri di radicalismo politico, non bisogna escludere che qualcosa d’analogo si ripresenti ora. Si potrebbe assistere allo sviluppo di organizzazioni transnazionali, man mano che le riduzioni nelle rimesse di denaro arriveranno ad estendere la crisi a posti come il Messico rurale o il Kerala.
I movimenti sociali devono definire che tipo di strategie e di politiche vogliono sviluppare. Noi accademici non dovremmo mai vedere noi stessi nel ruolo di missionari dei movimenti sociali; quello che dovremmo fare è aprire un dialogo e discutere insieme sulla visione della natura del problema.
Detto questo, mi piacerebbe proporre qualche idea. Un’idea interessante ora negli Usa è che i governi municipali approvino delle ordinanze anti-sfratto. Credo che ci siano molti posti in Francia dove la cosa è già stata fatta. Allora potremmo mettere su un’impresa municipale delle abitazioni che si assumesse le ipoteche e restituisse alle banche la maggior parte del debito, rinegoziando gli interessi, perché le banche hanno ricevuto un mare di soldi, questo è certo, per utilizzarli, sebbene in realtà non lo facciano.
Un altro problema chiave è quello della cittadinanza e dei diritti. Credo che i diritti alla città dovrebbero essere garantiti da una residenza, indipendentemente da che cittadinanza o da che nazionalità si abbia. Attualmente, si sta negando alla gente qualsiasi diritto politico alla città, a meno che non abbiano la cittadinanza. Se sei immigrante, non hai diritti. Credo che si debbano fare lotte sui diritti alla città. Nella Costituzione brasiliana c’è una clausola di ‘diritti alla città’ che riguarda i diritti di consultazione, di partecipazione e quanto si riferisce alle prospettive. Credo che tutto questo potrebbe essere una politica.
Riconfigurazione dell’urbanizzazione
Negli Usa ci sono possibilità di lavorare su scala locale, dove esiste una larga tradizione a proposito di questioni ambientali, e negli ultimi 15-20 anni i governi municipali spesso sono stati più progressisti del governo federale. Ora le finanze municipali sono in crisi, e verosimilmente a Obama verranno rivolte proteste e pressioni affinché aiuti a ricapitalizzare i governi municipali (cosa che compare nel pacchetto di aiuti). Obama ha affermato che questa è una delle cose che lo preoccupano maggiormente, soprattutto perché molto di quanto sta accadendo si svolge a livello locale; per esempio, la crisi ipotecaria subprime. Come sostenevo, le esecuzioni ipotecarie e gli sfratti vanno intesi come crisi urbana, non come crisi finanziaria: è una crisi finanziaria dell’urbanizzazione.
Un altro punto importante è pensare politicamente al modo di trasformare in componente strategica un qualche tipo di alleanza tra l’economia sociale e il mondo del lavoro e i movimenti municipali come il diritto alla città. Questo ha a che vedere con la questione dello sviluppo tecnologico. Per esempio: non vedo nessuna ragione per non avere un sistema municipale di appoggio allo sviluppo di sistemi produttivi come l’energia solare, al fine di creare apparati e possibilità più decentrate d’impiego.
Se dovessi io sviluppare ora un sistema ideale, direi che negli Usa dovremmo creare una banca nazionale per il ri-sviluppo e, dei 700 mila milioni che sono stati approvati, destinarne 500 mila affinché questa banca lavorasse con le strutture municipali per aiutare i vicini colpiti dall’ondata di sfratti. Perché gli sfratti sono stati una specie di Katrina finanziario sotto molti punti di vista: hanno spazzato via intere comunità, di solito comunità povere nere o ispaniche. Ebbene, dovremmo andare in questi quartieri e restituirli alla gente che ci viveva, ma ricollocandoli su altra base, con diritti di residenza, e con un diverso tipo di finanziamento. E bisogna rendere verdi questi quartieri, creandovi opportunità locali d’impiego.
Poi posso immaginare una riconfigurazione dell’urbanizzazione. Per fare qualcosa in materia di riscaldamento globale, dobbiamo riconfigurare completamente il funzionamento delle città nordamericane; pensare a modelli del tutto nuovi di urbanizzazione, a nuove forme di vita e di lavoro. C’è un mucchio di possibilità a cui la sinistra dovrebbe prestare attenzione; abbiamo delle opportunità reali. E qui io ho un vero problema con alcuni marxisti che sembrano pensare: ‘Sì sì, è una crisi, e le contraddizioni del capitalismo finiranno per risolversi, in un modo o nell’altro!’. Questo non è un momento per i trionfalismi, è il momento di farsi delle domande e di porsi dei problemi. Per ora, credo che il modo in cui Marx ha delineato le cose non sia esente da difficoltà. I marxisti non capiscono bene il complesso Stato-finanze dell’urbanizzazione, sono terribilmente duri a capirlo. Ma ora dobbiamo ripensare la nostra posizione teorica e le nostre possibilità politiche.
E cioè, oltre all’azione pratica, bisogna ricominciare a riflettere teoricamente su molte cose.
www.counterpunch.org Kate Ferguson e Mary Livingstone hanno trascritto e pubblicat
o questa conferenza dello stesso.
Questa crisi segna la fine del neoliberismo? Io credo che dipenda da ciò che si intende per neoliberismo. Secondo me, il neoliberismo è stato un progetto di classe camuffato da una retorica proteiforme sulla libertà individuale, l’arbitrio, la responsabilità personale, la privatizzazione e il libero mercato. Ma questa retorica era solo un mezzo per restaurare e consolidare il potere di classe, e in questo senso il progetto neoliberista è stato un grande successo.
Uno dei principi basilari affermatisi negli anni 70 è che il potere dello Stato doveva proteggere a tutti i costi le istituzioni finanziarie. Questo principio fu messo in atto durante la crisi di New York della metà degli anni 70, ed è stato definito per la prima volta a livello internazionale nel 1982, quando sul Messico si profilava lo spettro della bancarotta. Ciò avrebbe distrutto le banche d’investimento newyorchesi, cosicché il Tesoro statunitense e il FMI hanno agito di comune accordo per il salvataggio del Messico. Ma, nel farlo, hanno imposto un programma d’austerità alla popolazione messicana. In altre parole, hanno protetto le banche e hanno distrutto il popolo; da allora la pratica normale del FMI non è cambiata. L’attuale salvataggio è la solita vecchia storia, ma riprodotta su scala gigante.
Negli Usa è successo che 8 uomini ci hanno consegnato un documento di 3 pagine, a mo’ di pistola puntata contro noi tutti: “Dateci 700 mila milioni di dollari, e non se ne parli più”. Secondo me, si è trattato di una sorta di golpe finanziario contro lo Stato e contro la popolazione nordamericana. Ciò significa che non si uscirà da questa crisi con una crisi della classe capitalista: se ne uscirà con un consolidamento sempre maggiore di questa stessa classe. Andrà a finire che negli Usa ci saranno 4 o 5 grandi enti finanziari, e basta. Molti, a Wall Street, già adesso stanno prosperando. Lazard’s, per la sua specializzazione in fusioni e acquisizioni, sta guadagnando soldi a palate. Alcuni non sfuggiranno all’incendio, ma dovunque ci sarà un consolidamento del potere finanziario. Andrew Mellon – banchiere nordamericano, segretario del Tesoro nel 1921-32 – ha splendidamente affermato che, in una crisi, gli attivi finiscono sempre per ritornare ai loro legittimi proprietari. Una crisi finanziaria è un modo per razionalizzare l’irrazionale: ad esempio, l’immenso crac asiatico del 1997-8 è sfociato in un nuovo modello di sviluppo capitalista. I grandi mutamenti portano a una riconfigurazione, a una forma nuova di potere di classe. Politicamente parlando, potrebbe andare a finire male. Il salvataggio bancario ha suscitato resistenze al Senato e altrove, per cui è possibile che la classe politica non si allinei tanto facilmente: i politici possono porre ostacoli sul cammino, ma, finora, hanno ingoiato il rospo e non hanno nazionalizzato le banche.
Tuttavia, i fatti recenti potrebbero portare ad una lotta politica di maggior spessore: si percepisce una vigorosa resistenza a conferire maggior potere a quelli che ci hanno messo in questo pasticcio. La scelta del team economico di Obama viene messa in questione; ad esempio, Larry Summers, che era segretario del Tesoro nel momento cruciale in cui molte cose hanno cominciato ad andar male davvero, alla fine dell’amministrazione Clinton. Perché conferire incarichi a tanti personaggi favorevoli a Wall Street, al capitale finanziario, che hanno reintrodotto il predominio del capitale finanziario? Questo non vuol dire che essi non riprogetteranno l’architettura finanziaria, perché sanno che la modifica è inevitabile, ma la domanda è: a favore di chi la riprogetteranno? La gente è davvero scontenta del team economico di Obama; e anche il grosso della stampa.
Occorre una nuova forma di architettura finanziaria. Io non credo che vadano abolite tutte le istituzioni esistenti; certamente non la Banca dei Regolamenti Internazionali (BRI), né il FMI. Credo che noi abbiamo bisogno di queste istituzioni, ma che esse debbano essere radicalmente trasformate. La questione capitale è: chi le controllerà e quale sarà la loro architettura. Avremo bisogno di persone, di esperti che capiscano il modo in cui tali istituzioni funzionano e possono funzionare. E questo è assai pericoloso, perché, come possiamo vedere proprio adesso, quando lo Stato cerca qualcuno che capisca quanto sta succedendo, di solito guarda a Wall Street.
Un movimento operaio inerme: siamo arrivati a questi punti.
Che si possa uscire da questa crisi percorrendo altre strade dipende, e molto, dai rapporti di forza tra le classi sociali. Dipende da fino a che punto l’insieme della popolazione dirà: “Ora basta, ora bisogna cambiare il sistema!”. Adesso, esaminando a posteriori che ne è stato dei lavoratori negli ultimi 50 anni, si può vedere che da questo sistema essi non hanno ottenuto praticamente niente. Ma non si sono ribellati. Negli Usa, negli ultimi 7 o 8 anni, la condizione delle classi lavoratrici in generale è peggiorata, ma non c’è stato un massiccio movimento di resistenza. Il capitalismo finanziario può sopravvivere alla crisi, ma questo dipende totalmente dal fatto che si verifichi una ribellione popolare contro quello che sta succedendo e che ci sia un attacco violento, mirato a riconfigurare le modalità di funzionamento dell’economia.
Uno dei maggiori ostacoli posti sul cammino dell’accumulo continuo di capitali, negli anni 60 e agli inizi degli anni 70, è stato il fattore lavoro. In Europa come negli Usa c’era scarsità di manodopera e il mondo del lavoro era ben organizzato, con una sua influenza politica. Cosicché, in quel periodo, uno dei grandi problemi era: come può il capitale riuscire ad accedere a forze lavoro più docili e a buon mercato? Esistevano varie risposte. Una passava attraverso l’incremento dell’immigrazione. Negli Usa, nel 1965, ci fu una radicale revisione delle leggi migratorie, col che si consentì l’accesso a tutta la popolazione mondiale eccedente (in precedenza, veniva favorita soltanto l’immigrazione di caucasici e europei). Alla fine degli anni 60, il governo francese dava sussidi per l’importazione di manodopera magrebina, i tedeschi attiravano i turchi, gli svedesi importavano yugoslavi e i britannici attingevano dal proprio impero. Così fece la sua comparsa una politica pro-immigrazione, il che era un modo di combattere il problema.
Un altro metodo è stata la rapida trasformazione tecnologica, che estromette la gente dal lavoro, e, in mancanza di essa, per schiacciare il movimento operaio organizzato c’erano pronti personaggi come Reagan, la Thatcher e Pinochet. Infine, tramite la dislocazione, il capitale si sposta dove c’è eccedenza di manodopera. Il che è stato facilitato da due fattori. In primo luogo, la riorganizzazione tecnica dei sistemi di trasporto: una delle maggiori rivoluzioni avvenute durante quel periodo è quella dei containers, che rendevano possibile fabbricare parti di automobili in Brasile e di imbarcarle a basso costo per Detroit, o per qualsiasi altra destinazione. In secondo luogo, i nuovi sistemi di comunicazione hanno consentito un’organizzazione ottimale del tempo della produzione a catena delle merci, a livello globale.
Tutti questi sistemi si indirizzavano a risolvere il problema della scarsità di manodopera a favore del capitale, con la conseguenza che verso il 1985 il capitale ormai non aveva più problemi al riguardo. Ci potevano essere problemi specifici in zone particolari, ma, globalmente, esso aveva a disposizione abbondante forza lavoro; l’improvviso crollo dell’Unione Sovietica e la trasformazione di gran parte della Cina, nel breve spazio di 20 anni, hanno aggiunto al proletariato globale circa 2 miliardi di persone. Dunque, la disponibilità di forza lavoro oggi non rappresenta più un problema, e il risultato è che negli ultimi 30 anni il mondo del lavoro è rimasto sempre più indifeso. Ma quando i lavoratori sono inermi, ricevono salari bassi e c’è impegno a contenere i salari, questo finisce per limitare i mercati. Di conseguenza, il capitale ha cominciato ad avere problemi con i propri mercati. E ci sono volute due cose.
Prima cosa necessaria: per porre rimedio alla crescente divaricazione tra i redditi e le spese dei lavoratori, è venuta di moda l’industria delle carte di credito, che ha portato a un indebitamento sempre maggiore delle famiglie. Così, negli Usa del 1980, vediamo che il debito medio delle famiglie si aggirava sui 40.000 dollari (costanti), mentre ora è di circa 130.000 dollari (costanti) a famiglia, ipoteche incluse. Il debito delle famiglie è esploso, e questo ci porta alla finanziarizzazione, la quale ha a che vedere con alcune istituzioni finanziarie lanciatesi a sostenere i debiti delle famiglie dei lavoratori, i cui introiti hanno smesso di crescere. E, partendo dalla rispettabile classe lavoratrice, più o meno verso il 2000 finisci col trovare già in circolazione ipoteche subprime. Cerchi di creare un mercato. Di modo che gli enti finanziari si azzardano a sostenere il finanziamento di debiti di persone praticamente senza introiti. Anzi, se non si agisse così, che ne sarebbe dei promotori immobiliari che hanno costruito abitazioni? Dunque si è agito così, e si è cercato di stabilizzare il mercato finanziando l’indebitamento.
La crisi dei valori degli attivi
La seconda cosa necessaria è che, dal 1980, i ricchi diventassero sempre più ricchi con il contenimento dei salari. La storia che ci hanno raccontato è che avrebbero investito in nuove attività, ma non l’hanno fatto; la maggior parte dei ricchi ha cominciato a investire in attivi, cioè, hanno investito denaro in Borsa. Così si sono prodotte le bolle sui mercati dei valori. Si tratta di un sistema analogo al sistema di Ponzi, ma senza il bisogno di un Madoff per organizzarlo. I ricchi rilanciano su valori di attivi, incluse azioni, proprietà immobiliari e beni voluttuari, e sul mercato dell’arte. Questi investimenti comportano finanziarizzazione. Ma, man mano che si investe su valori di attivi, ciò si ripercuote sull’insieme dell’economia, per cui vivere a Manhattan è diventato impossibile, a meno di non indebitarsi incredibilmente, e tutti si trovano impelagati in quest’inflazione dei valori degli attivi, comprese le classi lavoratrici, i cui introiti non aumentano. E allora, ci troviamo di fronte a un tracollo dei valori degli attivi; il mercato immobiliario crolla, il mercato dei valori crolla.
E’ sempre esistito il problema del rapporto tra rappresentazione e realtà. Il debito ha a che vedere con il valore futuro che si prevede per beni e servizi, cosicché presuppone che l’economia continui a crescere nei 20-30 anni successivi. Comporta sempre un elemento di rischio, una tacita alea, che va a riflettersi sui tassi d’interesse, che verranno scontati. Questa crescita dell’area finanziaria dopo gli anni 70 ha molto a che vedere con quello che io credo sia il problema chiave: quello che chiamerei il problema dell’assorbimento delle eccedenze di capitali. Come la teoria delle eccedenze ci insegna, i capitalisti producono un’eccedenza, che devono dominare, ricapitalizzare e reinvestire per espandersi. Questo significa che devono sempre trovare qualche campo per espandersi. In un articolo che ho scritto per la New Left Review, ‘Il diritto alla città’, segnalavo che negli ultimi 30 anni un immenso volume di eccedenze di capitale è stato assorbito dall’urbanizzazione: per la ristrutturazione, l’espansione e la speculazione urbane. Tutte ed ognuna delle città che ho visitato hanno realizzato costruzioni su enormi aree atte ad assorbire l’eccedenza di capitali. Adesso, neanche a dirlo, molti di questi progetti sono rimasti in sospeso.
Questo sistema di assorbire le eccedenze di capitali col tempo è diventato sempre più problematico. Nel 1950, il valore totale dei beni e dei servizi prodotti si aggirava sui 135 mila milioni di dollari (costanti). Fino al 1950, era di 4 milioni di milioni di dollari. Nel 2000, si avvicinava ai 40 milioni di milioni, ora è intorno ai 50 milioni di milioni. E, se Gordon Brown non erra, nei prossimi 20 anni raddoppierà fino a raggiungere i 100 milioni di milioni nel 2030.
Nel corso della storia del capitalismo, il tasso di crescita medio generale si è aggirato sul 2,5% annuo, su base composta. Questo significherebbe che nel 2030 si dovrebbero piazzare in maniera redditizia 2,5 milioni di milioni di dollari. E’ un ordine di grandezza molto elevato. Io credo che sia stato un grosso problema, soprattutto a partire dal 1970, trovare un modo per assorbire nella produzione reale volumi sempre maggiori di eccedenze. Solo una parte sempre più piccola va a finire alla produzione reale, e una parte sempre più grande viene destinata alla speculazione in valori di attivi, cosa che spiega la frequenza e la profondità crescenti delle crisi finanziarie a cui stiamo assistendo, più o meno, dal 1975. Si tratta sempre di crisi di valori di attivi.
Io direi che, se uscissimo adesso dalla crisi, e ci fosse un accumulo di capitale con un tasso di crescita annuale del 3%, verremmo a trovarci in un mare di terribili problemi. Il capitalismo si trova di fronte a serie limitazioni ambientali, come pure a limitazioni di mercato e di redditività. La svolta recente verso la finanziarizzazione è una svolta imposta dalla necessità di lottare contro un problema di assorbimento delle eccedenze; un problema, però, che non si può affrontare senza esporsi a svalutazioni periodiche. E’ proprio quello che sta succedendo adesso, con perdite di svariati miliardi di dollari di valori di attivi.
Il termine ‘salvataggio nazionale’ è, dunque, inappropriato, perché non si sta salvando l’insieme del sistema finanziario esistente, ma si stanno salvando le banche, la classe capitalista, col perdonare loro debiti e trasgressioni. E si stanno salvando solo quelle. Il denaro fluisce alle banche, ma non alle famiglie che, tramite le ipoteche, vengono ‘giustiziate’, cosa che sta cominciando a provocare malcontento. E le banche usano questo denaro non per prestarlo, ma per acquistare altre banche. Stanno consolidando il proprio potere di classe.
Il collasso del credito
Il collasso del credito alla classe lavoratrice mette fine alla finanziarizzazione come soluzione della crisi del mercato. Di conseguenza, assisteremo ad un’importante crisi di disoccupazione, al collasso di molte industrie, a meno che non venga intrapresa un’azione efficace per cambiare il corso delle cose. E a questo punto si sviluppa la discussione sul ritorno ad un modello economico keynesiano. Il programma economico di Obama consiste nell’investire massicciamente in grandi opere pubbliche e tecnologie verdi, tornando in un certo senso al tipo di soluzione del New Deal. Io sono scettico riguardo alla sua capacità di riuscita.
Per capire la situazione attuale, dobbiamo andare oltre quello che accade nel processo del lavoro e della produzione, dobbiamo entrare nel complesso di relazioni tra lo Stato e le finanze. Dobbiamo capire il modo in cui il debito nazionale e il sistema creditizio, fin dall’inizio, sono stati veicoli fondamentali per l’accumulazione primitiva, o per quello che io chiamo accumulazione attraverso esproprio (come può vedersi nel settore delle costruzioni). Ne ‘Il diritto alla città’ facevo osservare il modo in cui il capitalismo era stato rivitalizzato nella Parigi del Secondo Impero: lo Stato, d’intesa con i banchieri, mise in atto un nuovo legame Stato-capitale finanziario, con lo scopo di ricostruire Parigi. Ciò produsse pieno impiego, i boulevards, i sistemi di erogazione dell’acqua corrente e quelli di canalizzazione degli scarichi liquidi, e nuovi sistemi di trasporto; grazie allo stesso tipo di meccanismo venne anche costruito il Canale di Suez. Gran parte di tutto questo fu finanziato tramite debiti. Ora, dal 1970 questo legame Stato-finanze sta sperimentando un’enorme trasformazione: si è internazionalizzato, si è aperto ad ogni genere d’innovazione finanziaria, compresi i mercati di derivati e i mercati speculativi, ecc. Si è creata una nuova architettura finanziaria.
Io, personalmente, credo che adesso stiano cercando una nuova forma di sistema finanziario che possa risolvere il problema, non per il popolo dei lavoratori, ma per la classe capitalista. Secondo me, sono sulla buona strada per trovare una soluzione favorevole alla classe capitalista, e se tutti noialtri ne subiamo le conseguenze, beh, che ci si può fare? L’unica cosa che li preoccupa, riguardo a noi, è che non ci ribelliamo. E mentre aspettiamo a ribellarci, cercano di progettare un sistema in accordo con i propri interessi di classe. Non so come sarà questa nuova architettura finanziaria. Se si osserva attentamente quanto accaduto a New York durante la crisi fiscale, si vedrà che i banchieri e i finanzieri non avevano la minima idea del da farsi; quello che hanno fatto alla fine è stata una specie di patchwork a tentativi, un pezzo qui, un pezzo là; poi hanno messo insieme i frammenti in modo nuovo, e hanno finito per costruire una nuova struttura. Ma qualunque sia la soluzione a cui arriveranno, sarà a misura loro, a meno che noi non ci impuntiamo e non cominciamo a esigere qualcosa a misura nostra. Le persone come noi possono svolgere un ruolo cruciale nella fase di porre questioni e di sfidare la legittimità delle decisioni che proprio adesso si stanno prendendo. E anche – chiaramente - nella fase di realizzare analisi precise della vera natura del problema e delle possibili soluzioni da offrire rispetto ad esso.
Alternative
Abbiamo bisogno di cominciare ad esercitare di fatto il nostro diritto alla città. Dobbiamo chiederci cosa sia più importante, se il valore delle banche o il valore dell’umanità. Il sistema bancario dovrebbe servire la gente, non vivere a spese della gente. E l’unica maniera in cui saremo in grado di esercitare il diritto alla città è prendendo in mano le redini del problema dell’assorbimento delle eccedenze capitaliste. Dobbiamo socializzare le eccedenze dei capitale, e sfuggire per sempre al problema del 3% di accumulo. Ora ci troviamo ad un punto in cui continuare all’infinito con un tasso di crescita del 3% comporterà costi ambientali così terribili, e una pressione sulle condizioni sociali così tremenda, che finiremo con una crisi finanziaria dopo l’altra.
Il problema centrale è come possano assorbirsi in modo produttivo e redditizio le eccedenze capitalistiche. Secondo me, i movimenti sociali devono coalizzarsi intorno all’idea di ottenere un maggior controllo sul prodotto eccedente. E sebbene io non sostenga un ritorno al modello keynesiano del tipo che avevamo negli anni 60, mi sembra fuor di dubbio che a quei tempi esisteva un controllo sociale e politico molto maggiore sulla produzione, l’uso e la distribuzione delle eccedenze. Le eccedenze in circolazione venivano dirottate sulla costruzione di scuole, ospedali e infrastrutture. Questo ha fatto uscire dalla tana la classe dominante e ha causato un contromovimento alla fine degli anni 60: i capitalisti non avevano più il controllo delle eccedenze. Tuttavia, se si considerano i dati disponibili, si vede che la proporzione di eccedenze assorbite dallo Stato non è variata molto dal 1970; cioè, quello che ha fatto la classe capitalista è stato di frenare un’ulteriore socializzazione delle eccedenze. Sono anche riusciti a trasformare la parola ‘governo’ nella parola ‘governance’, rendendo vicendevolmente permeabili le attività di governo e quelle delle imprese, il che consente il prodursi di situazioni come quella dell’Iraq, dove mediatori privati hanno munto implacabilmente le mammelle del beneficio facile.
Credo che siamo approdati ad una crisi di legittimità. Negli scorsi 30 anni, si è ripetuta diverse volte la boutade (frase brillante) di Margaret Thatcher, secondo la quale ‘non c’è alternativa’ a un mercato libero neoliberista, a un mondo privatizzato, e se in questo tipo di mondo non abbiamo successo, è per colpa nostra. Io credo che sia molto difficile sostenere che, di fronte ad una crisi fatta di esecuzioni ipotecarie e di sfratti immobiliari, si debbano aiutare le banche e non le persone che perdono la casa. Si possono accusare gli sfrattati di essere degli irresponsabili, e negli Stati Uniti in quest’accusa non manca una componente fortemente razzista. Quando la prima onda di esecuzioni ipotecarie ha colpito zone come Cleveland e Ohio, è risultata devastante per le comunità nere, ma la reazione di alcuni è stata più o meno la seguente: ‘Beh, cosa vi aspettavate? I negri sono gente irresponsabile’. Le spiegazioni della crisi predilette dalla destra sono in termini di brama personale, tanto nel suo agire a Wall Street, quanto nel suo comportamento verso la gente che ha chiesto prestiti per comprarsi una casa. Quello che cercano, è di scaricare la colpa della crisi sulle sue vittime. Uno dei nostri compiti consiste nel dire: ‘No, questo non si può assolutamente fare’, e poi cercare di offrire una spiegazione convincente di questa crisi come un fenomeno di classe: una determinata struttura di sfruttamento è colata a picco e sta per essere rimpiazzata da una struttura di sfruttamento ancora più radicale. E’ molto importante che questa spiegazione alternativa della crisi venga presentata e discussa pubblicamente.
Una delle grandi configurazioni ideologiche in via di formazione riguarda il ruolo che in futuro dovrà avere la proprietà della casa; cominciamo una buona volta a dire che occorre socializzare gran parte del patrimonio abitativo, visto che fin dagli anni 30 abbiamo avuto enormi pressioni a favore della casa individualizzata per garantire i diritti e le condizioni della gente. Dobbiamo socializzare e ricapitalizzare l’educazione e l’assistenza sanitaria pubbliche, oltre a provvedere alle case. Questi settori dell’economia devono essere socializzati, in accordo con le banche.
C’è un altro punto che dobbiamo riconsiderare: il lavoro, e soprattutto il lavoro organizzato, è solo un piccolo frammento di questo insieme di problemi, e riveste soltanto un ruolo parziale in quello che sta accadendo. E questo per una ragione molto semplice, che risale alle limitazioni delineate da Marx al momento di definire il problema. Se affermiamo che la formazione del complesso Stato-finanze è assolutamente cruciale per la dinamica del capitalismo (e, ovviamente, lo è), e se ci chiediamo che cosa le forze sociali facciano al fine di arginare o di promuovere queste formazioni istituzionali, bisogna riconoscere che i lavoratori non sono mai stati in prima linea in questa lotta. I lavoratori sono stati in prima linea nel mercato del lavoro e nel processo di lavoro, entrambi momenti vitali del processo di circolazione, ma il grosso delle lotte che si sono svolte attorno al legame Stato-finanze sono state lotte populiste, in cui i lavoratori sono stati presenti solo in parte.
Ad esempio, negli Usa degli anni 30 c’erano un sacco di populisti che sostenevano gli assaltatori di banche Bonnie e Clyde. E, attualmente, molte delle lotte in corso in America Latina hanno una direzione più populista che operaia. I lavoratori hanno sempre avuto un ruolo molto importante, ma non credo che ora ci troviamo in una situazione in cui la visione convenzionale del proletariato come avanguardia della lotta sia di grande aiuto, quando il punto principale è l’architettura del legame Stato-finanze (il sistema nervoso centrale dell’accumulazione di capitale). Ci possono essere epoche e luoghi in cui i movimenti proletari risultano di grande importanza, ad esempio in Cina, dove mi auguro possano avere, criticamente, un ruolo decisivo che invece non vedo nel nostro Paese. La cosa interessante è che i lavoratori dell’automobile e le compagnie automobilistiche sono attualmente alleati di fronte al legame Stato-finanze, cosicché ora a Detroit non c’è, o perlomeno non nella stessa maniera, la forte divisione di classe che c’è sempre stata. Ora assistiamo a un tipo completamente diverso di politica di classe, e alcune delle forme marxiste convenzionali di considerare i problemi contrastano con la realizzazione di una politica veramente radicale.
Un grande problema della sinistra è anche il seguente: molti pensano che la conquista del potere statale non abbia nessun ruolo nelle trasformazioni politiche. Credo che siano dei folli. Nello Stato è radicato un potere incredibile, e non si può prescindere dallo Stato come se esso non avesse importanza. Sono profondamente scettico rispetto alla convinzione secondo cui le ONG e le organizzazioni della società civile stanno trasformando il mondo; non perché le ONG non possano fare nulla, ma perché, se vogliamo fare qualcosa di fronte alla crisi di enorme portata attualmente in corso, si richiede un altro tipo di concezione e un altro tipo di movimento politico. Negli Usa, l’istinto politico è molto anarchico, e quantunque io abbia simpatia per diversi punti di vista anarchici, le inveterate proteste contro lo Stato e il rifiuto di servirsene costituiscono un altro ostacolo sul cammino.
Non credo che, nell’attuale congiuntura, ci troviamo in una posizione che ci consenta di determinare quali saranno i fattori di cambiamento, ed è evidente che questi fattori saranno diversi nelle diverse parti del mondo. Ora, negli Usa, ci sono segnali che la classe degli executives e dei gestori d’impresa, che per tutti questi anni hanno vissuto degli introiti provenienti dal capitale finanziario, si sono stufati e quindi potrebbero radicalizzarsi abbastanza. Molta gente è stata licenziata dai servizi finanziari, e in certi casi sono arrivati ad assistere all’esecuzione delle loro ipoteche. I produttori culturali stanno prendendo coscienza della natura dei problemi a cui ci troviamo di fronte, e, così come negli anni 60 le scuole d’arte si erano trasformate in centri di radicalismo politico, non bisogna escludere che qualcosa d’analogo si ripresenti ora. Si potrebbe assistere allo sviluppo di organizzazioni transnazionali, man mano che le riduzioni nelle rimesse di denaro arriveranno ad estendere la crisi a posti come il Messico rurale o il Kerala.
I movimenti sociali devono definire che tipo di strategie e di politiche vogliono sviluppare. Noi accademici non dovremmo mai vedere noi stessi nel ruolo di missionari dei movimenti sociali; quello che dovremmo fare è aprire un dialogo e discutere insieme sulla visione della natura del problema.
Detto questo, mi piacerebbe proporre qualche idea. Un’idea interessante ora negli Usa è che i governi municipali approvino delle ordinanze anti-sfratto. Credo che ci siano molti posti in Francia dove la cosa è già stata fatta. Allora potremmo mettere su un’impresa municipale delle abitazioni che si assumesse le ipoteche e restituisse alle banche la maggior parte del debito, rinegoziando gli interessi, perché le banche hanno ricevuto un mare di soldi, questo è certo, per utilizzarli, sebbene in realtà non lo facciano.
Un altro problema chiave è quello della cittadinanza e dei diritti. Credo che i diritti alla città dovrebbero essere garantiti da una residenza, indipendentemente da che cittadinanza o da che nazionalità si abbia. Attualmente, si sta negando alla gente qualsiasi diritto politico alla città, a meno che non abbiano la cittadinanza. Se sei immigrante, non hai diritti. Credo che si debbano fare lotte sui diritti alla città. Nella Costituzione brasiliana c’è una clausola di ‘diritti alla città’ che riguarda i diritti di consultazione, di partecipazione e quanto si riferisce alle prospettive. Credo che tutto questo potrebbe essere una politica.
Riconfigurazione dell’urbanizzazione
Negli Usa ci sono possibilità di lavorare su scala locale, dove esiste una larga tradizione a proposito di questioni ambientali, e negli ultimi 15-20 anni i governi municipali spesso sono stati più progressisti del governo federale. Ora le finanze municipali sono in crisi, e verosimilmente a Obama verranno rivolte proteste e pressioni affinché aiuti a ricapitalizzare i governi municipali (cosa che compare nel pacchetto di aiuti). Obama ha affermato che questa è una delle cose che lo preoccupano maggiormente, soprattutto perché molto di quanto sta accadendo si svolge a livello locale; per esempio, la crisi ipotecaria subprime. Come sostenevo, le esecuzioni ipotecarie e gli sfratti vanno intesi come crisi urbana, non come crisi finanziaria: è una crisi finanziaria dell’urbanizzazione.
Un altro punto importante è pensare politicamente al modo di trasformare in componente strategica un qualche tipo di alleanza tra l’economia sociale e il mondo del lavoro e i movimenti municipali come il diritto alla città. Questo ha a che vedere con la questione dello sviluppo tecnologico. Per esempio: non vedo nessuna ragione per non avere un sistema municipale di appoggio allo sviluppo di sistemi produttivi come l’energia solare, al fine di creare apparati e possibilità più decentrate d’impiego.
Se dovessi io sviluppare ora un sistema ideale, direi che negli Usa dovremmo creare una banca nazionale per il ri-sviluppo e, dei 700 mila milioni che sono stati approvati, destinarne 500 mila affinché questa banca lavorasse con le strutture municipali per aiutare i vicini colpiti dall’ondata di sfratti. Perché gli sfratti sono stati una specie di Katrina finanziario sotto molti punti di vista: hanno spazzato via intere comunità, di solito comunità povere nere o ispaniche. Ebbene, dovremmo andare in questi quartieri e restituirli alla gente che ci viveva, ma ricollocandoli su altra base, con diritti di residenza, e con un diverso tipo di finanziamento. E bisogna rendere verdi questi quartieri, creandovi opportunità locali d’impiego.
Poi posso immaginare una riconfigurazione dell’urbanizzazione. Per fare qualcosa in materia di riscaldamento globale, dobbiamo riconfigurare completamente il funzionamento delle città nordamericane; pensare a modelli del tutto nuovi di urbanizzazione, a nuove forme di vita e di lavoro. C’è un mucchio di possibilità a cui la sinistra dovrebbe prestare attenzione; abbiamo delle opportunità reali. E qui io ho un vero problema con alcuni marxisti che sembrano pensare: ‘Sì sì, è una crisi, e le contraddizioni del capitalismo finiranno per risolversi, in un modo o nell’altro!’. Questo non è un momento per i trionfalismi, è il momento di farsi delle domande e di porsi dei problemi. Per ora, credo che il modo in cui Marx ha delineato le cose non sia esente da difficoltà. I marxisti non capiscono bene il complesso Stato-finanze dell’urbanizzazione, sono terribilmente duri a capirlo. Ma ora dobbiamo ripensare la nostra posizione teorica e le nostre possibilità politiche.
E cioè, oltre all’azione pratica, bisogna ricominciare a riflettere teoricamente su molte cose.
www.counterpunch.org Kate Ferguson e Mary Livingstone hanno trascritto e pubblicat
o questa conferenza dello stesso.
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