Brancaccio, Latouche e Roegen
Negli ultimi anni, all'interno di molte formazioni politiche della cosiddetta sinistra radicale europea,
è prevalsa una concezione perniciosamente "multiculturalista" della teoria e della prassi politica.
Secondo questa concezione, il successo di un partito non dipenderebbe più dalla capacità di
sviluppare una ferrea dialettica tra le varie posizioni in campo e di derivare, da essa, una sintesi
superiore che possa guidare l'azione politica. Al contrario, il consenso si misurerebbe in base alla
capacità di giustapporre visioni anche contraddittorie tra loro e di lasciare che tutte sopravvivano -
ognuna depositaria di una propria verità parziale - grazie ad una sostanziale neutralizzazione dello
scontro dialettico interno. La polemica ambientalista, che si trascina ormai stancamente da anni, ha
subito anch'essa questo infausto destino. Ed è un peccato, considerato che gli ambientalisti
appartengono a quella rarissima, dialetticamente fondamentale categoria di soggetti capaci di avere,
al tempo stesso, ragione da vendere e torto marcio.
Devo avvisare che nel tentativo di superare questa contraddizione farò riferimento, in quel che
segue, ad alcuni elementi di teoria. Il che dopotutto è inevitabile: per costruire infatti la sintesi
rosso-verde di cui tanto si parla ma che tuttora sembra ben lungi dall'essere acquisita, non mi risulta
che basti citare a caso qualche passaggio apparentemente agevole del Capitale.
Gli ambientalisti hanno ragione perché sono materialisti. Essi hanno compreso, prima e meglio di
tutti, che lo sviluppo illimitato del capitale si inscrive in un orizzonte naturale finito, e che già da
tempo si avvertono i primi, devastanti segnali di impatto tra la meccanica pervasiva
dell'accumulazione capitalistica e i confini insuperabili del sistema naturale. Gli ambientalisti ci
ricordano inoltre che tali segnali sono destinati a diffondersi e ad intensificarsi. E le loro evidenze
risultano ormai talmente robuste da far giustamente dubitare della buona fede di chi avanza
obiezioni nei loro confronti.
Un problema tuttavia si pone, e riguarda il modo in cui si decide di interpretare la pressione
crescente del capitale sul vincolo delle risorse naturali. Sussistono a questo riguardo due opzioni: ci
si può soffermare sulla possibilità che questa pressione stravolga le attuali condizioni di
riproduzione dei rapporti sociali, oppure ci si può concentrare sull'eventualità che essa finisca per
compromettere le condizioni di riproduzione della stessa vita sulla Terra.
Non è un mistero che molti ambientalisti prediligano, a torto, questa seconda chiave di lettura. In
particolare, la prospettiva dell'autodistruzione del genere umano viene esaltata da una frangia
dell'ambientalismo radicale che potremmo definire "apocalittica". Il relativo successo di questa
frangia sembra direttamente proporzionale ai suoi giganteschi limiti analitici: per quanto infatti la
plausibilità di un apocalisse ambientale sia ormai un dato scientifico acquisito, appare evidente che
una tale fretta di giungere alla "fine della Storia" denoti una macroscopica carenza di strumenti per
lo studio dei processi sociali in corso. Non è un caso del resto che proprio gli "apocalittici" si
rivolgano, sia nelle loro analisi che nelle invocazioni, all'umanità presa come un tutto, anziché alle
classi e ai gruppi di interesse che la compongono e che ne costituiscono le vicende. Purtroppo
questo orientamento risulta diffuso non solo presso la generosa militanza di base, ma anche tra
giganti del calibro di Nicholas Georgescu-Roegen, sempre prodighi di esortazioni verso una non
meglio specificata "generazione presente" a tener conto degli interessi di una ancor meno definita
"generazione futura". Georgescu-Roegen fu un brillante critico della economia volgare dominante.
In alcune circostanze, come quella del "teorema di non sostituzione", egli giunse persino ad
anticipare alcuni nodi cruciali del dibattito marxista novecentesco. Ciò nonostante, bisogna
ammettere che la tipica scelta, sua e degli ambientalisti, di declinare il conflitto in chiave
intergenerazionale anziché di classe, rende i loro contributi esattamente speculari a quelli
dell'economia volgare. Il che in un certo senso è paradossale, visto che l'obiettivo dichiarato di
quest'ultima è di valorizzare l'astinenza dal consumo presente per favorire non certo il risparmio
energetico ma, al contrario, proprio l'accumulazione futura di capitale.
La difficoltà di introiettare il vecchio insegnamento di Marx ed Engels, secondo il quale la storia di
ogni società è storia di lotte di classi, spinge tuttora troppi ambientalisti verso una risibile deriva
etico-normativa, che li induce nella migliore delle ipotesi a formulare progetti di ingegneria sociale
tanto minuziosi quanto improbabili, e nella peggiore a ricercare conforto in vere e proprie fughe
all'indietro, dal mondo e dal processo storico. Si pensi ad esempio al dibattito sulla "decrescita". Su
di esso è bene chiarire che, di fronte alla ormai perenne sudditanza dei programmi delle sinistre
europee ai capricci del ciclo capitalistico, un attacco del genere all'apologia della crescita potrebbe
anche rivelarsi salutare. E questo non certo perché il legame tra crescita capitalistica e occupazione
si sia attenuato, come qualcuno erroneamente si ostina a dichiarare; quanto piuttosto perché risulta
ormai chiaro a tutti il fallimento delle strategie volte a subordinare le lotte per i diritti fondamentali,
incluso il lavoro, alle bizzarrie della congiuntura. Inoltre bisogna aggiungere che, in linea di
principio, non vi sarebbe nulla di sbagliato nel porsi l'obiettivo politico di comprimere il reddito
medio procapite a livello mondiale. Si tratterebbe anzi di una decisione assolutamente logica, se al
netto del più ottimistico sviluppo delle tecnologie risparmiatrici di risorse naturali si dovesse
comunque registrare un contrasto insanabile tra i limiti dell'ecosistema e l'espansione della
produzione e quindi dei consumi. Ovviamente, però, un obiettivo di tale portata merita di esser
preso sul serio solo se gli si affiancano adeguati strumenti d'azione. E chiunque abbia un minimo di
dimestichezza con il funzionamento di un sistema economico complesso non tarderebbe a
riconoscere nell'abbandono dell'anarchia capitalistica e nella espansione della economia pianificata
l'unica svolta in grado di trasformare lo slogan d'élite della decrescita in un credibile obiettivo di
massa.
C'è dunque lo spettro di Lenin e della Rivoluzione d'Ottobre dietro le più recenti suggestioni
dell'ambientalismo radicale? Troppo bello per esser vero. In realtà la grande maggioranza degli
ecologisti si divide tra chi si lascia sedurre da sofisticati meccanismi di incentivo e punizione fiscale
- elaborati nell'ambito dell'economia volgare al fine di bandire l'ipotesi della "proprietà pubblica"
dal dibattito politico - e chi addirittura decide di aderire alle farneticazioni di Latouche e dei suoi
epigoni sulla costituzione di enclaves di produzione e consumo eque e solidali, autonome,
periferiche e dissidenti rispetto alla "megamacchina capitalistica". Insomma, se qualcuno ancora
pensava che le fantasticherie di Proudhon e dei socialisti borghesi fossero ormai alle nostre spalle,
farà bene a ricredersi in fretta.
I pochi ambientalisti più attrezzati sul piano sociologico e politico, tuttavia, resistono con facilità a
simili, sciagurate tentazioni. Essi naturalmente non negano affatto l'eventualità dell'apocalisse
ambientale, né tantomeno si risparmiano quando si tratta di mettere sotto accusa l'apologia
imperante della crescita capitalistica. A tutto questo, però, essi ritengono indispensabile premettere
un esame dei mutamenti che il vincolo delle risorse naturali provoca sul corso della Storia,
attraverso il suo impatto sulle condizioni di riproduzione dei rapporti sociali prima ancora che della
vita in generale. Non mancano, a questo proposito, ricerche tese ad evidenziare come, già a partire
dal prossimo decennio, possa determinarsi una nuova tendenza nella evoluzione dei prezzi relativi
del sistema economico mondiale, e quindi anche nella dinamica della distribuzione del reddito e del
potere tra le varie classi sociali. Queste ricerche rivelano che, nella classifica dei "grandi ricchi" di
domani, gli innovatori in campo scientifico, tecnologico e finanziario potrebbero essere
rapidamente soppiantati dai meri proprietari di risorse naturali scarse: dalle fonti energetiche
all'acqua, passando per le sempre più rare e inaccessibili oasi incontaminate, luoghi per eccellenza
del privilegio. Tale tendenza dovrebbe tra l'altro circoscrivere l'ottimismo di chi ha recentemente
sostenuto che la pressione capitalistica sull'ambiente possa esser mitigata dallo sviluppo futuro di
produzioni "immateriali e pulite". Questo ottimismo potrebbe infatti essere al limite condiviso in
termini fisici, ma non certo in termini di valore. La ragione è che le produzioni immateriali non
pongono alcun ostacolo all'innovazione tecnologica e quindi all'abbattimento dei costi di
produzione. Al contrario, la possibilità di ridurre i costi delle merci ad elevato contenuto di risorse
naturali risulterà sempre condizionata dai vincoli fisici che tali risorse pongono alle innovazioni. La
conseguenza è che il peso economico delle produzioni immateriali è destinato a diminuire, mentre
quello delle risorse naturali, e della rendita ad esse associata, pare inesorabilmente incamminato
lungo un sentiero di crescita.
La domanda che a questo punto si pone è la seguente: chi pagherà l'incremento delle rendite
assegnate ai proprietari di risorse? I dati, a questo proposito, sono inequivocabili. Da tempo si rileva
che l'impresa capitalistica riesce a scaricare l'intero peso della rendita sul salario netto per unità di
prodotto, attraverso una pressione diretta sui prezzi e sulle condizioni di lavoro, e una pressione
indiretta sulle istituzioni per l'abbattimento della spesa sociale e la privatizzazione demaniale.
Volendo ricercare una spiegazione teorica per questo fenomeno, dovremmo constatare l'ennesimo
fallimento dell'economia volgare: questa, infatti, basandosi sul principio secondo cui viene sempre
pagato meglio il "fattore produttivo" più scarso, dà luogo al risultato, opposto ed armonico, secondo
cui l'accumulazione e la conseguente abbondanza relativa di capitale dovrebbero provocare un
accrescimento non soltanto delle rendite dei proprietari di risorse naturali ma anche dei salari dei
lavoratori. E dovremmo invece porgere ancora una volta un tributo agli schemi di derivazione
marxiana, gli unici in grado di dar conto della compressione salariale e del conseguente legame di
fatto tra sfruttamento della natura e sfruttamento del lavoro.
Ma, una volta accertata l'esistenza teorica ed empirica di questo legame, quali sono le implicazioni
politiche che se ne possono trarre? L'implicazione decisiva è che l'attore principale della
contraddizione tra crescita economica e limiti dell'ecosistema non si situa affatto alla periferia della
"megamacchina capitalistica", ma esattamente al centro della stessa. E' infatti sulla classe
lavoratrice che ricade sia lo sforzo della messa in movimento dell'accumulazione capitalistica, sia il
danno derivante dalle scarsità naturali che la stessa accumulazione produce ed amplifica. Da anni
questa contraddizione sfugge ai più, a causa del fatto che la frammentazione produttiva ha reso i
lavoratori invisibili e pressoché muti sul piano politico. Essi, tuttavia, a differenza della Natura e
delle generazioni future (mute per definizione), sono tuttora gli unici soggetti in grado di mettere in
crisi il meccanismo di sfruttamento sul quale è fondato il sistema di potere vigente.
Per il perseguimento di questo obiettivo, gli strumenti di cui i lavoratori dispongono, allo stato dei
fatti, sono ben noti: una spinta "incompatibile" sul salario per unità di prodotto e sulla quota di
disavanzo pubblico destinata alla spesa sociale. Chiunque preservi ancora un minimo di memoria
storica, dovrebbe riconoscere che una spinta del genere non può mai essere interpretata
semplicemente alla luce della pur comprensibile esigenza dei lavoratori di migliorare le loro
condizioni di vita, assolute e soprattutto relative. Quella spinta, infatti, proprio perché
potenzialmente incompatibile, si presenterà sempre, in primo luogo, come una vera e propria
dichiarazione: di esistenza politica e quindi di lotta per il potere e per la trasformazione sociale.
Gli ambientalisti sensibili all'insegnamento marxiano non avranno alcuna difficoltà nel convenire
sul fatto che una seria battaglia in difesa della natura dovrà sempre logicamente collocarsi
all'interno e in assoluta coerenza con le spinte incompatibili che la classe lavoratrice eserciterà sulle
variabili economiche del sistema. Gli altri ecologisti, che preferiranno invece prender le distanze,
magari paventando il rischio che tali spinte diano luogo nel breve periodo a un incremento dei
consumi e quindi dell'inquinamento, indubbiamente avranno vita più facile. Essi potranno infatti
placidamente continuare a pubblicare articoli allarmisti per il loro selezionatissimo pubblico, a
giocare con i loro inutili esercizi di ingegneria sociale, e qualche volta avranno persino l'opportunità
di flirtare con gli attuali centri di potere del sistema capitalistico. Il tutto senza avere alcun bisogno
di impegnarsi nell'arduo compito di far uscire l'immaginario dei lavoratori dalla gabbia capitalistica
nella quale è rinchiuso. Non credo dunque di sorprendere nessuno se, per questi ultimi ecologisti,
riesumerò la vecchia definizione di nemici. Di classe, e quindi dell'ambiente
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