Dall'antropologia economica come corrente marxista a Latouche

Operando un salto, tempo/spazio, rispetto alla definizione data di "economia della sussistenza" abbiamo cercato qualcosa che definisse in modo sintetico gli elementi di quella che conosciamo come "antropologia Marxista", dopo di che colleghiamo questo ad un'intervista fatta a Latouche nel 2008 in cui ci spiega come ha operato il suo viaggio a Damasco (come lo definisce lui) che lo ha portato a definire la sua teoria sulla decrescita.

L'obiettivo? Provare a vedere in che modo si sviluppa il dibattito intorno a due visioni (ortodossia marxista vs. antropologia e tesi di Latouche) che valutano in modo diverso ciò che significa sviluppo.Visioni che si intersecano e si contrappongono nel momento in cui si pone il problema dei modelli di sviluppo e della crescita economica in senso lato . Da una parte la corrente Marxista ortodossa incline a valutare lo sviluppo della società e delle sue condizioni materiali come prodotto della crescita economica e delle sue contraddizioni; una visione che identifica nel possesso dei mezzi di produzione uno degli strumenti per il cambiamento della società senza con questo rinunciare ad una visione "economicista" che utilizza categorie come produttività e sviluppo.
Dall'altra parte chi pone la questione dello sviluppo in funzione della sostenibilità e del fatto che le condizioni materiali ," lo stare bene" ,non si possono identificare solo con modelli sociali e relazioni tra gli individui che sono la conseguenza diretta dell'espansione dell'economia o del puro e semplice "possesso" dei mezzi di produzione.
In questa contrapposizione collochiamo le dottrine economiche liberiste e riformiste come più vicine al marxismo ortodosso per quanto riguarda quella che è l'aspettativa che si nutre nei confronti dello sviluppo economico.

Proveremo a fare questo viaggio proponendo teorie e punti di vista differenti ed in contrapposizione tra di loro, lo arricchiremo con spunti che calino l'economia nello sviluppo storico dei gruppi sociali, delle classi e delle società nel loro insieme; cercheremo di proporre anche il nostro punto di vista confidando nella critica che sarà benvenuta se costruttiva.

Nota: su ispirazione di questo post

Link: Introduzione all'antropologia economica di Richard R. Wilk

Fonte:Digilander, antropologia

L'antropologia marxista fu un fenomeno prevalentemente francese, sviluppatosi negli anni '60 in concomitanza al processo di destalinizzazione dell'Unione Sovietica, con il rilancio del marxismo sul piano ideologico e politico, con la situazione coloniale e con i movimenti di liberazione dei paesi del terzo mondo.

Opponendosi alla fossilizzazione del pensiero marxiano nelle teorie deterministiche dello sviluppo storico unilineare (elaborate e diffuse dalla dottrina ufficiale sovietica, secondo cui ogni sviluppo storico delle società doveva portare necessariamente al comunismo), l'antropologia marxista è stata influenzata in maniera decisiva dalla rilettura del Capitale di Marx operata dal filosofo francese Althusser (1966). L'analisi di Althusser, da un lato, si fonda su un'idea di causalità strutturale che tiene insieme le strutture interrelate del sistema (ossia le forze produttive, la tecnologia, la religione) senza ricondurle ad un piatto determinismo economico. Dall'altro, ritiene che le formazioni sociali non siano caratterizzate da un unico modo di produzione, ma piuttosto da un'articolazione di diversi modi.

Su queste basi, gli antropologi marxisti cercano di utilizzare per i sistemi non capitalistici i metodi di analisi che Marx aveva usato nell'analisi del capitalismo. Criticando il carattere etnocentrico della gerarchia dei cinque stadi dell'evoluzione, incapace di rendere conto dello sviluppo storico delle società africane e asiatiche, essi hanno mostrato che lo stesso Marx, in alcuni lavori precedenti, aveva suggerito altre tappe e modi di produzione. Alcuni, come Godelier (1973), hanno ripreso la nozione di modo di produzione asiatico, elaborata da Marx per spiegare il mancato sviluppo del capitalismo in Cina e utilizzata da Wittfoegel (1957) nell'analisi del dispotismo orientale nell'Asia antica, in Medio Oriente e nell'Egitto faraonico. Altri studiosi (Worsley 1957, Wolf 1969, Meillassoux 1975) hanno esaminato l'articolazione dei modi di produzione nel contatto tra società diverse, oppure hanno esaminato tale articolazione all'interno di una stessa formazione economico-sociale (Terray 1969, Rey 1971). Inoltre furono identificati modi di produzione estranei alla teoria marxiana, come il modo di produzione lignatico (basato su rapporti di produzione modellati sulla dipendenza dei giovani dagli anziani, gestori delle risorse materiali e degli scambi matrimoniali, ossia dei fattori della riproduzione della comunità), o domestico (Meillassoux 1964, 1975). Nel loro complesso questi studi hanno sottolineato come il lavoro sia fondato non solo sullo sfruttamento di una classe da parte di un'altra, ma anche su quello fra i sessi all'interno dell'unità domestica o fra i gruppi d'età nella società più ampia: sfruttamento legittimato dal sistema di proprietà e da quelli politico, di parentela e religioso.

Le prospettive dell'antropologia marxista sono particolarmente significative nello studio della stratificazione sociale, dell'interrelazione fra attività economica e struttura sociale, nell'analisi della situazione coloniale e neo-coloniale. Essa permette inoltre di inserire le società tradizionali nel quadro economico e politico caratterizzato dall'espansione del modo di produzione capitalistico.

Possiamo considerare uno dei primi lavori di antropologia marxista l'opera di Emmanuel Terray, Le marxism devant les sociètès "primitive", uscito nel 1969. In esso lo studioso francese tentò di dimostrare come all'interno dei gruppi sociali Gouro esistevano, combinandosi tra loro, due forme di produzione: uno di "villaggio", fondato sulla cooperazione paritaria di tutti i membri della società, ed uno un altro di "lignaggio", fondato sulla distribuzione delle risorse alimentari e riproduttive (cioè le donne) in base ad un criterio di anzianità. L'analisi di Terray rendeva, in un certo senso, più dinamica la struttura socio-economica dei gruppi Gouro rispetto a ciò che aveva teorizzato Meillassoux; questi aveva puntato l'attenzione sul fatto che il modo di produzione Gouro, definito appunto lignatico, finiva per il plasmarsi attorno alla dipendenza che legava i giovani del gruppo agli anziani, gestori, questi ultimi, delle risorse materiali e degli scambi matrimoniali, ossia dei fattori legati alla riproduzione stessa della comunità. Per Pierre Rey (1971), al contrario, più che di semplice giustapposizione di modi di produzione differenti, in riferimento allo strutturarsi delle società Gouro, si doveva parlare di gruppi di interesse, tanto da poter definire il gruppo degli anziani e dei giovani come "classi" antagoniste, cosi come di classi si poteva parlare a proposito della componente femminile e maschile del gruppo. Il lavoro di Meillassoux si pone, infine, in stretta analogia con alcune osservazioni di Engels, riguardanti le fasi della produzione dei mezzi di sussistenza e della riproduzione degli uomini stessi, intesi come forza lavoro inseribile all'interno dei meccanismi di produzione. In questo modo, Meillassoux finisce per mettere in primo piano il ruolo svolto della famiglia, la comunità domestica, luogo in cui avviene la riproduzione dei "produttori", ossia degli individui che, con l'affermarsi del modo di produzione capitalistico, finiranno per trasformarsi in forza-lavoro. In Donne, granai e capitali (1975), lo studioso francese partirà da queste considerazioni, studiando quelle società in cui, non essendoci la possibilità di gestire direttamente il controllo sui mezzi di produzione, in quanto la terra sarà considerata proprietà comune, il controllo si sposterà verso le donne, considerate ugualmente importanti ai fini del ciclo produttivo, attraverso il loro compito di riproduttrici dei produttori. La gestione delle donne da parte degli anziani, infatti, costringerà i giovani del gruppo a prestare servizio per un certo periodo, svolto il quale, tuttavia, riceveranno a loro volta una moglie, in modo che potranno, un giorno, beneficiare del lavoro della loro prole, in un processo ciclico continuo. La pecularietà del sistema descritto consisterebbe, per Meillassoux, dal fatto che questo continuo processo di avvicendamento tra giovani ed anziani, permetterà a tutti di beneficiare, prima o poi, del lavoro di chi verrà dopo di loro, in modo che chiunque, nel corso della propria esistenza, potrà accedere ai mezzi di riproduzione sociale, ossia i beni di sussistenza e le donne. Il modo di produzione domestico, intrinsecamente egualitario, può, se inserito all'interno di un modo di produzione capitalistico, generare un sistema formato da classi antagoniste di sfruttati e sfruttatori, con la possibilità di una sua completa destrutturazione, nel momento in cui il nuovo sistema tenderà ad esercitare la propria dominazione ed il proprio sfruttamento non sull'intera comunità, ma sui singoli individui.

Il declino della corrente marxista è andato accentuandosi nel corso degli anni '80, a causa di una serie di congiunture storico-sociali. In particolare, il crollo dei paesi nati dalle fondamenta di un'ideologia marxista della società, cosi come il declino "storico" del marxismo come ideologia, hanno sicuramente giocato un ruolo importante. Ancor oggi, tuttavia, in un'era dominata dalla volontà globalizzatrice dei paesi occidentali, specie nella sua accezione politico-economica, gli aspetti teorici dell'antropologia marxista possono aiutare lo studioso a comprendere, e spiegare, le dinamiche di contatto tra sistemi economici differenti, cosi come possono stimolare un'attenta analisi riguardo le caratteristiche di tale contatti, cercando di mettere in evidenza, laddove possibile, le contraddizioni derivanti.

In Italia l'antropologia marxista è stata influenzata dall'opera di Gramsci, a cui fece riferimento Ernesto De Martino (1908-1965), anche se il suo fu un tipo di marxismo più etico ed umanista che economico e sociologico. Il marxismo gramsciano confluì successivamente negli studi demologici italiani (ossia riguardanti il folklore e le culture contadine del sud Italia), attraverso le opere di Cirese e di Lombardi Satriani, senza dimenticare la figura di Vittorio Lanternari (1925-).



Intervista a Latouche


Traduzione di Manuel Antonini

Il testo in lingua originale dell'intervista è possibile leggerlo cliccando qui

Intervista originale condotta da Arianne Jossin

Quale percorso l’ha portata da Marx a Nicholas Geogescu-Roegen?

S. Latouche Il mio percorso non è passato da Marx a Nicholas Geogescu-Roegen, piuttosto da Marx a Illich. Ci sono due correnti nella famiglia della decrescita: la prima è la “bio-economia”, l’economia ecologica, la termodinamica, che è la corrente di Georgescu-Roegen ben rappresentata da Jacques Grinevald. E’ una corrente composta da economisti che rimettono in discussione l’economia attraverso l’ecologia.
Quando Grinevald aveva tradotto e pubblicato un insieme di saggi di Georgescu-Roegen sotto il titolo “Demain la décroissance”, io non mi ero ancora avvicinato, come non mi avvicinavo del resto alle idee del mio collega René Passet. Questo approccio critico dell’economia attraverso l’ecologia non entrava nei miei schemi di pensiero.

Poi c’è una seconda corrente “anti-sviluppo”: la maggior parte degli esperti che hanno vissuto nel terzo mondo e che hanno rimesso radicalmente in questione la crescita dello sviluppo si sono ispirati alla figura emblematica di Ivan Illich. D’altronde, se lo si legge per bene, si ritrova nelle sue opere tutta la teoria della decrescita e proprio questo è stato il mio percorso.

Così la domanda è: come ho fatto il passo da Marx a Illich? Nel 1964-66 ho fatto la mia tesi sullo Zaire ed era una tesi marxista che si chiamava “La pauperisation à l’echelle mondiale”. Concludevo con una vibrante arringa in favore di uno sviluppo pianificato attraverso un’accumulazione del capitale più rapida possibile e la scorciatoia tecnologica: per i paesi del sud del mondo ciò significava recuperare il prima possibile i paesi del nord utilizzando le tecniche più sofisticate, come stava facendo l’Algeria di Boumédienne. Oggi denuncio la schizofrenia di allora, della quale noi eravamo affetti fino ad essere a volte come intossicati di crescita e sviluppo e ne denuncio allo stesso tempo i danni e le catastrofi provocati.
Allora, infatti, ero molto schizofrenico: facevo l’arringa della crescita nella sua forma socialista, ma ero anche un appassionato di etnologia e antropologia.

Il declino si è avuto nel 1996-67 quando sono andato in Laos. Ho scoperto una società che non era né sottosviluppata ne sviluppata, essa era al di fuori dello sviluppo: le comunità di villaggio, che coltivavano un riso appiccicoso e lo ascoltavano crescere, una volta che il riso era seminato non avevano più nulla da fare e approfittavano così del resto del tempo per dedicarsi alle feste, alla caccia, etc. La realtà della gente era di vivere così, nei loro villaggi fuori dal tempo.
Vidi chiaramente ciò che stava per succedere e sta succedendo oggi stesso: ossia lo sviluppo stava per distruggere questa società, di certo non idilliaca (non esistono infatti società idilliache), questa sua specie di benessere collettivo, di arte di vivere, a volte raffinata, relativamente sobria, ma comunque in equilibrio con l’ambiente naturale.

E’ là che ho avuto una crisi: per cominciare, come economista, ho perso la fede nell’economia, nell’idea di crescita, di sviluppo e ho cominciato il mio cammino di Damasco: questo capitava in un momento opportuno, in quanto rientrando in Francia e fui preso dal maggio ’68. Ho avuto la fortuna di trovare subito un posto in università e cominciare a insegnare. Dopo il maggio del ’68, infatti, quasi tutti i professori erano praticamente andati a Parigi e a Lille mi sono ritrovato a fare ciò che volevo o quasi. Così ho cominciato a fare dei corsi di filosofia economica, di epistemologia economica e ho insegnato una decostruzione critica dell’economia politica, ivi compreso quella di Marx. E questo attraverso diversi anni di riflessioni fondamentali, passando per l’antropologia economica, ossia una critica dell’homo economicus in nome di una concreta antropologia, attraverso Karl Polanyi, Marshall Sahlins e Marcel Mauss.

L’antropologia economica parlava di una realtà sociale che era totalmente estranea agli economisti e che perciò doveva riguardarli e interrogarli. Ne è uscito un primo libro che si intitolava “Critique de l’imperialisme”, ossia una critica delle teorie marxiste e leniniste dell’imperialismo per fornire un’ulteriore interpretazione dello sviluppo e del sottosviluppo come deculturazione, cioè distruzione delle altre culture attraverso l’imposizione di una cultura esterna, quella dell’occidente.
In quel periodo ho scritto altri due libri, “L’occidentalisation du monde” e “Faut-il refuser le développement?”, del quale i miei amici svizzeri hanno detto che era eccellente ma che, come ogni cosa francese, non proponeva nulla riguardo la dimensione ecologica. Effettivamente, facevo una critica dell’imperialismo occidentale, dell’occidente, della deculturazione, ma i limiti naturali non rientravano nel mio schema. Sebbene conoscessi i lavori del Club di Roma e fossi d’accordo con loro, non sapevo come integrarli. Solamente più tardi ci riuscii con “La planète des naufragés”.

Intanto durante tutto questo periodo si andava formando una piccola massoneria internazionale attorno a persone che erano state discepoli o studenti di Ivan Illich, come Majid Rahnema che ha scritto “Quando la povertà diventa miseria” o come Wolfang Sachs in Germania. Tutte queste persone si ritrovavano per denunciare l’impostura dello sviluppo, il tradimento dell’opulenza. C’era una forte cultura ecologica, una forte critica dei danni ecologici e dei limiti naturali del pianeta.

A quell’epoca, quando si discuteva di sviluppo era sempre in rapporto al sud del mondo, perché era il nord che sviluppava il sud. Di conseguenza, dopo la denuncia dello sviluppo, nel ricercare un’alternativa ci si domandava: come possono le società del sud sopravvivere al maremoto dello sviluppo che esse hanno subito? Per questo ho descritto come gli esclusi si auto-organizzano e sopravvivono in “L’altra Africa, tra dono e mercato”, questione già toccata in “La Planète des Naufragés”. L’interesse dell’esperienza africana sta nel vedere come queste persone sopravvivono al di fuori dell’economia, proprio come avevo riscontrato nel villaggio in Laos. Ho osservato nelle periferie africane una ricchezza di creatività e di auto-organizzazione a tutti i livelli: societario, d’immaginario, tecnico e produttivo che corrisponde più o meno alla nebulosa dell’economia informale.

Poiché in termini economici l’Africa non rappresenta nulla, meno del 2% del Pil mondiale, se si va in Africa si è sorpresi di vedere un po’ dappertutto una straordinaria capacità di produrre gioia di vivere, che noi siamo sempre meno capaci di “fabbricare”. Arrivano a sopravvivere grazie alla solidarietà, mettendo in comune il poco che hanno. Alla fine arrivano a produrre della ricchezza attraverso una grande ricchezza relazionale: questo dovrebbe fornirci degli orientamenti su ciò che potrebbe essere un’altra idea di crescita o una via di uscita da essa, con meno beni materiali e più beni capaci di portare gioia di vivere. Ma dicendo questo nel nord del mondo, si predicava nel deserto.

E quand’è che le cose sono cambiate?


S. Latouche: Qualche anno fa. L’associazione degli amici di François Partant, La ligne d’horizon, di cui ero presidente, organizzava abitualmente delle discussioni che avevano un certo successo tra i pochi e marginali. Attiravamo dalle 200 a 300 persone, senza mai fare di più. Avevamo 50 aderenti, insomma non eravamo affatto in marcia per la grande conquista! Poi tre o quattro anni fa abbiamo deciso di fare un convegno più importante che ha avuto luogo all’Unesco “Disfare lo sviluppo, rifare il mondo”1. Abbiamo avuto la sorpresa di avere 700 persone durante la tre giorni, di rifiutare altre centinaia di persone e constatare un grande entusiasmo. Ci domandavano “Che cosa proponete?” perché nel frattempo il muro di Berlino era caduto, facendo scomparire il secondo mondo, che faceva da tampone tra il primo e il terzo.

Oggi non c’è più neanche il terzo mondo. La mondializzazione è proprio questo: non c’è più che un solo mondo, come c’è un pensiero unico, c’è un mondo unico! Esiste una classe di consumatori internazionale, pure se perdurano delle differenze tra il sud e il nord. Se molti rappresentanti di questa classe sono al nord, altrettanti ce ne sono al sud: ci sono 100-150 milioni di cinesi che possiamo considerare ricchi e borghesi. E parallelamente a questo, ci sono anche milioni e milioni di esclusi, di precari, di poveri al nord. Da questo punto di vista, il mondo si è unificato.

Di conseguenza i problemi del sud sono diventati i problemi del nord e ciò è particolarmente vero per quanto riguarda la crisi ecologica, i cui effetti non si fermano alle frontiere: il cambiamento climatico, l’effetto serra…il mondo intero è coinvolto. E la scappatoia ideologica che hanno trovato gli ideologi del sistema è questa magnifica presa in giro dello sviluppo sostenibile. Prima lo sviluppo non riguardava che il sud, adesso con lo sviluppo sostenibile riguarda tutto il mondo, nord e sud. E poiché noi criticavamo lo sviluppo, abbiamo seguitato a criticarlo anche quando è diventato sostenibile!

Si è passati così dalla ricerca di alternative per il sud a quella di alternative per il nord. Ci si interessava a progetti “al plurale”, ossia dai dolci sognatori che dopo il ’68 erano partiti ad allevare pecore nel Larzac2, come José Bové, alle cooperative come Ambiance Bois, Ardelaine, etc. Ma ci è stato detto che non era serio, che bisognava proporre una vera alternativa. A quel punto abbiamo pensato: se si rigetta lo sviluppo e la crescita che vi è dietro, allora è necessario pensare a una società di decrescita. La decrescita non è un’alternativa, ma è una matrice di alternative: sintetizza in una sola parola d’ordine un insieme di aspirazioni.

Che cos’è la decrescita per lei?

S. Latouche: La decrescita non significa crescita negativa, è uno slogan che vuole rompere gli stereotipi della crescita, del fondamentalismo basato sullo sviluppo e dell’economicismo per mostrare la necessità di uscire da questa religione. Se si vuole essere rigorosi fino in fondo, bisognerebbe parlare di “a-crescita” come si parla di a-teismo. Perché è logico che i burkinabé, la cui impronta ecologica è meno di un decimo del pianeta, abbiano un diritto indiscutibile ad accrescerla e a conoscere una forma o l’altra di “crescita”, ossia di accrescimento dei loro raccolti, della loro produzione, del loro consumo, all’interno di una concezione più eguale di ripartizione delle ricchezze e delle risorse del pianeta.

Il suo impegno sta diventando sempre più essenzialmente in contrasto con lo sviluppo oppure ha oggi un approccio più ecologista delle cose?

S. Latouche: Infinitamente di più! A cominciare dal momento che sono uscito dall’economia, ero convinto del fatto che il modo di produzione capitalista e che la crescita economica erano distruttori dell’ambiente. Ci sono dei limiti esterni all’economia. Non è un caso se gli economisti sono tanto riluttanti all’ecologia: non arrivano a tenere conto di questi problemi che sono introdotti dall’esterno. Oggi comincio le mie conferenze sulla decrescita dicendo che stiamo vivendo la sesta estinzione delle specie, la quale è provocata dall’essere umano e che l’essere umano stesso rischia di esserne la vittima.
Affronto, infatti, il problema della compatibilità tra il funzionamento di una civiltà e lo spazio biologico disponibile, quindi una problematica perfettamente ecologista. E’ qui che mi avvicno a Nicholas Georgescu-Roegen quando dice “Chi crede che una crescita infinita è compatibile con un mondo finito, è un pazzo o un’economista!”

Ma sfortunatamente accade che gli economisti siano degli spiriti “cornucopisti” – come li chiama Yves Cochet – vale a dire che credono al corno dell’abbondanza. Se c’è una differenza tra il mio approccio e quello di Georgescu-Roegen, è che lui ha voluto rimanere dentro l’economia, nella bio-economia – come del resto anche Passet – e integrarvi la dodicesima legge della termodinamica. E’ la legge dell’entropia crescente d’ogni sistema chiuso, della degradazione dell’energia e dell’esaurimento delle risorse.

Credo al contrario che sia necessario andare più lontano, ritrovando l’apporto del contributo di Illich: ossia la presa di coscienza che l’economia è una cultura e , ancor di più, una cultura occidentale. Per Roegen, l’economia non è né occidentale né bantu, ma scienza. Per questo resta uno scientista e probabilmente un’universalista. Mentre personalmente penso che la decrescita implica una certa forma di relativismo.



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