Scrivere del 77
Ricorrendo ad un'esemplificazione iniziale, che riteniamo però abbastanza efficace, possiamo affermare che il ricorso alla violenza nel '68 fu una risposta alla repressione statale. Si passava dal "non siam scappati più", come recitava un verso della canzone dedicata agli scontri di Valle Giulia a Roma nel marzo del '68, al ritornello "la violenza, la violenza, la violenza la rivolta,/ chi ha esitato questa volta lotterà con noi domani", che invitava i dimostranti a rispondere con la forza alle aggressioni poliziesche dei cortei. Nel '77 vi fu, invece, da parte di settori del movimento la ricerca deliberata dello scontro violento. Volendo ancora semplificare si potrebbe quasi dire che il movimento del '68 era originariamente "buono" non tanto nei suoi intenti e propositi che erano invece antisistemici, sovversivi e rivoluzionari, quanto negli strumenti che utilizzava per perseguirli: occupazioni, proteste pacifiche, non violenza, resistenza passiva agli sgomberi. Fu il contesto in cui si trovò ad operare (repressioni poliziesche, campagne diffamatorie dei giornali, strage di Milano del 12 dicembre 1969) che lo rese "cattivo", costringendolo a cercare risposte che fossero adeguate a quelle messe in atto dagli apparati repressivi legali e non dello Stato a alla minaccia delle aggressioni fasciste. Si trattava più che altro di trovare strumenti e forme che garantissero in qualche modo la difesa e il mantenimento di quanto era stato acquisito, conquistato, costruito in termini di strutture organizzative, di spazi per l'agire collettivo (sedi, giornali, piazze e luoghi di riunione e di incontro, incolumità dei compagni) che si accompagnavano alla consapevolezza che, superato l'entusiasmo per lo scoppio spontaneo della rivolta studentesca e operaia, il percorso di lotta contro lo Stato e il capitalismo avrebbe inevitabilmente previsto anche momenti di scontro cruenti. Si cominciò a praticare "un uso difensivo della violenza... E l'epoca dei servizi d'ordine... strutture organizzate per la pratica della forza sia nella difesa di spazi di movimento nelle piazze, sia nel controllo di territori nel tessuto urbano" 1. Il clima in cui nacque e si sviluppò il movimento del '77 era del tutto diverso, era già incattivito all'origine. Ogni parvenza di presunta imparzialità delle istituzioni statali nella lotta di classe era stata spazzata via dagli intrighi e dalla scoperta dei servizi segreti deviati. La repressione occulta, subdola e disgregante, condotta dai servizi segreti, si accompagnava all'introduzione di nuove e più severe leggi di polizia, volte principalmente a colpire le manifestazioni di piazza e le proteste. L'approvazione della famosa "legge Reale", sull'ordine pubblico, ne era un chiaro esempio. Essa assegnava alla polizia un potere di intervento e di repressione verso i movimenti, le manifestazioni di piazza e i compagni, che non aveva precedenti nella breve storia dell'Italia repubblicana. La stessa Corte Costituzionale nella sentenza n. 16 del 1978 aveva ravvisato in quella legge: "un particolare complesso di misure legislative eccezionali, se non provvisorie, per fronteggiare la presente situazione di crisi dell'ordine pubblico con particolare riguardo alla criminalità politica e parapolitica" 2.
Un evento periodizzante
La strage di Piazza Fontana a Milano del 12 dicembre 1969 appare oggi come una data periodizzante, una cesura nella storia dell' Italia repubblicana, in quanto una parte consistente "dell'apparato statale passò consapevolmente all'illegalità, si pose come potere criminale, continuando ad occupare istituzioni vitali"; Piazza Fontana "semina e ingigantisce la paura del golpe" diventa "snodo rilevantissimo della vicenda italiana, rappresenta il passaggio della repressione statale dei movimenti e delle lotte dalle "tecniche frontali, ma firmate" a quelle "indirette e occulte dei poteri di repressione, sicurezza e provocazione" 3. L'uso della forza da parte degli apparati dello Stato per reprimere l'insorgenza e l'ascesa dei movimenti non era una novità, la novità era data invece dal suo impiego non più nella sua dimensione istituzionale e legittima, "ma in quella bruta, diretta e incontrollata che trova la propria sintesi nella logica da caserma" 4 . Da allora, per dirla con Bertolt Brecht, non si potè più essere solo gentili, un'intera generazione "fu impressionata da due esperienze vitali, forti e opposte: il '68 (e il '69 operaio) da una parte, e Piazza Fontana, Pinelli, Valpreda dall 'altra. L'allegria e la morte, la luminosità e il torbido, la confidenza e la paura, la cordialità e il senso di persecuzione" 5 . Dalla strage di Piazza Fontana al 1975 altre cinque stragi si verificarono in Italia. Stragi che rivelarono l'esistenza di connivenze con apparati statali deviati, impegnati a fondo nell'opera di depistaggio, di inquinamento delle prove, di vero e proprio sabotaggio delle inchieste per evitare la scoperta della verità. Dal 1969 al 1974 i morti per fatti politici in Italia furono 92, di cui 63 a causa di violenze e atti terroristici di destra, 10 furono i caduti in scontri con le forze dell'ordine, 8 in altre circostanze, 9 attribuibili ad azioni di sinistra 6. 1706 furono gli attentati il 71,6% dei quali attribuibili all'estrema destra e il 5,8% all'estrema sinistra. Su 2359 atti di violenza censiti, 2304 erano da attribuire ad organizzazioni neofasciste e 152 a quelle di sinistra. Secondo Marco Revelli si stava delineando in Italia una situazione di "vera e propria guerra civile strisciante" 7 che preparava il passaggio alla fase seguente, quella del terrorismo, inaugurata dal rapimento del giudice Sossi e dall' uccisione di due militanti del MSI a Padova da parte delle Brigate Rosse. Dal 1974 al 1980 si contavano 362 morti e 171 feriti. 104 morti e 106 feriti erano attribuibili al terrorismo di sinistra. 1787 attentati risultavano compiuti da organizzazioni di sinistra contro i 1281 attribuiti alla destra. Una profonda differenza permaneva tuttavia tra il cosiddetto movimento e i gruppi che avevano scelto la strada della clandestinità e della lotta armata. Il movimento e gli stessi "partiti" della nuova sinistra continuavano a ritenere "che per cambiare la società italiana bisognava agire in profondità all'interno della società civile stessa, cercando di costruire un movimento di massa e di mutare la coscienza... I terroristi, al contrario, scelsero la clandestinità e l'azione violenta, ponendosi fuori dalla realtà e isolandosi... Fino a quando non fu troppo tardi essi rimasero incapaci di misurare i probabili effetti delle loro azioni, di valutame il tragico bilancio: non solo uccisero a sangue freddo, ma contribuirono grandemente alla distruzione dell'intero movimento che voleva modificare la società italiana" 8.
L'insorgenza della violenza diffusa
La crisi dei partiti della nuova sinistra, dopo le elezioni del 20 giugno 1976, liberava forze militanti e servizi d'ordine in via di scioglimento che si riversavano in nuove forme di impegno politico e sociale date dalla sviluppo dei Circoli del Proletariato Giovanile e, subito dopo, dall'esplodere del movimento del '77. Un profondo rimescolamento sociale mise in contatto -in una situazione di crisi economica, di aumento della disoccupazione e di crisi dell'idea stessa di rivoluzione anticapitalistica- gruppi di giovani disoccupati, sottoccupati, marginalizzati nelle periferie degradate delle città, con studenti universitari e medi, precari, fuori sede, operai in cassa integrazione o licenziati, freaks, militanti in crisi delle organizzazioni della nuova sinistra, femministe, appartenenti alla frastagliata area dell'autonomia operaia. I Circoli del Proletariato Giovanile difendevano il proprio "territorio" con le "ronde proletarie", occupavano edifici e case sfitte per creare luoghi di socializzazione, isole liberate in cui riunirsi, similmente a quanto era avvenuto negli anni precedenti dentro le scuole superiori più politicizzate e dentro le Università. Si riversavano poi nel centro delle città per riappropriarsi del valore d'uso delle merci, secondo il sofisticato linguaggio di allora, praticando le cosiddette "spese proletarie", l'autoriduzione dei biglietti cinematografici e teatrali, scontrandosi con la polizia per entrare gratis ai concerti. Con linguaggio immaginifico, ma efficace, Toni Negri descriveva questo nuove fenomeno sociale, così come si era manifestato al festival organizzato dalla rivista Re nudo al Parco Lambro di Milano: "il primo giorno... fu tranquillo, già al secondo ci fu l'esproprio proletario dei camion dei viveri degli organizzatori, il terzo giorno sparse squadre vennero fuori dal Parco a cercare supermercati da svaligiare -colpi d'arma da fuoco risuonarono- era apparsa la polizia"9. Spinte spontanee e soggettive, bisogni e desideri si incanalavano in parte nella gestualità della violenza diffusa. La nuova parola d'ordine del riprendiamoci la vita, cresciuta nei gruppi di autocoscienza femministi, diventava patrimonio comune di questi giovani coniugandosi con quella vecchia di alcuni anni del prendiamoci la città, "per il comunismo e la libertà", come reclamava la canzone di Lotta Continua, scritta per sorreggere la sua iniziativa politica nei primissimi anni Settanta. A differenza del '68 e della più volte ricordata ed emblematica contestazione della Scala a Milano, questa volta "non si contesta ideologicamente la ricchezza, piuttosto essa è un bene negato"10, di cui bisogna appropriarsi. L'immediata incomprensione e ripulsa che il movimento del '77 provocò nel PCI, in procinto di entrare nella maggioranza di solidarietà nazionale, la condanna senza mezzi termini e con parole pesanti di tutto il movimento da parte di quello che fino a pochi mesi prima era stato il maggiore partito di opposizione, determinarono una situazione di incomprensione e di incomunicabilità profonda tra i giovani settantasettini, i partiti e le istituzioni. Sentendosi emarginati lanciarono la sfida a chi li voleva emarginare. Molti di questi soggetti svilupparono un atteggiamento molto aggressivo nelle loro espressioni politiche. "La democrazia era considerata impotente e al tempo stesso segnata da tentazioni repressive e totalitarie. L'ipotesi armata diventava se non altro un'ipotesi accettata all'interno di movimenti certo più vasti e compositi e sembrava assumere una capacità neutralizzante (la teoria dei "compagni che sbagliano") anche nei confronti di forze e posizioni da essa molto lontane"11 . Il ricorso sistematico alla violenza fu teorizzato da componenti significative del movimento. Lo scontro con la poilizia divenne da parte di alcune componenti un modo di stare in piazza e di manifestare. Non si trattava più di difendersi dalle cariche e dalle aggressioni, ma di attaccare le forze dell'ordine, di colpire determinati obiettivo, sedi, edifici. Una simile esperienza finì coll'avvitarsi su se stessa in un turbinio di azioni che riducevano sovente il dibattito alla valutazione se era stato più o meno opportumo lanciare bottiglie molotov, assalire questo o quel covo fascista, se aveva cominciato prima la polizia o gruppi di autonomi sfuggiti al controllo del servizio d'ordine del movimento. Finivano sovente col prevalere posizioni che si attestavano su affermazioni di principio fra chi era per la violenza e chi diceva che essa era da rifiutarsi sempre come metodo di lotta politica. Quasi mai si riuscì ad affrontare il problema della violenza nei termini di una disamina storico-politica che prendesse in considerazioni categorie quali la sua inutilità, dannosità o necessità a secondo dei contesti e delle circostanze.
La violenza dentro il movimento
I contrasti di natura politica e di prospettiva dentro il movimento erano vivacissimi, sfociavano in pesanti polemiche verbali, che a volte degeneravano in veri e propri atti di violenza contro la presidenza o contro chi interveniva in assemblea. il movimento più volte dimostrò di non essere in grado di garantire la democrazia interna, il rispetto della pluralità delle posizioni e l'unità d'azione nelle manifestazioni pubbliche. Le divergenze d'analisi e d'intenti risultarono spesso inconciliabili, provocando tensioni interne che finirono col demoralizzare la parte meno politicizzata degli aderenti. Una prima scadenza nazionale metteva in luce le differenziazioni interne e l'incapacità di convivere pacificamente con esse. Il 26 e il 27 febbraio 1977 si teneva a Roma la riunione del coordinamento nazionale degli studenti universitari. I convenuti erano numerosi, l'aula di duemila posti era stipatissima e altri, fuori, premevano per entrare. L'assemblea assumeva a tratti l'aspetto di una bolgia infernale, centinaia di persone si erano iscritte a parlare, gli interventi si susseguivano tra urla, schiamazzi, cori da stadio, mentre chi era al microfono si sgolava per sormontare i fischi, gli slogan, gli applausi. Non chiara era la distinzione tra chi era delegato e rappresentava quindi ufficialmente le varie realtà locali del movimento e chi vi partecipava a titolo personale ma con eguale diritto di voto. In questo contesto che a tratti rasentava la vera e propria rissa, le femministe e gli indiani metropolitani abbandonavano l'assemblea rifiutando "l'allucinante clima di violenza e prevaricazione creatosi" , che non consentiva di "esprimere i contenuti del movimento stesso"12. Quando tentarono di ritornare nell'aula dove era in corso l'assemblea un robusto servizio d'ordine glielo impedì. Agli indiani metropolitani non restò che gridare "via, via la falsa autonomia". Alla fine veniva approvata una mozione messa insieme da quelli che erano rimasti nell'assemblea ufficiale, circa cinquecento, che non tutte le delegazioni riconoscevano come rappresentativa del movimento. Nella mozione si affermava13 il carattere "proletario del movimento", e si rivendicava, tra le altre cose, "1 'antifascismo militante", si richiedeva la liberazione dei compagni arrestati e "di tutti i militanti comunisti, di tutti i combattenti rivoluzionari prigionieri del nemico di classe", si respingeva infine ogni tentativo di dividere il movimento "tra una parte violenta e intimidatrice" e una parte disponibile al confronto e alla mediazione. In un clima più cupo, a causa della repressione in corso, si svolgeva a Bologna il 29 e 30 aprile e il 1° maggio il secondo coordinamento nazionale. Esso si teneva dopo gli scontri che si erano verificati a Bologna come reazione all'assassinio di Francesco Lorusso l'11 marzo 1977 e quelli di Roma del giorno successivo. Qui, in occasione della manifestazione nazionale del movimento, si verificarono nel corso dell'intero pomeriggio diffusi episodi di guerriglia urbana. Gruppi di dimostranti si staccavano all'improvviso dal grosso del corteo e colpivano con molotov, spranghe e armi da fuoco vari obiettivi: negozi, vetrine, auto in sosta il comando dei carabinieri a Piazza del Popolo, la sede del quotidiano della DC Il popolo a Piazza Navona, l'assalto di un armeria a Ponte Sisto. Compiute le azioni i gruppi di guerriglieri urbani rientravano nel corteo scatenando in questo modo, contro tutti i partecipanti, la reazione della polizia. "Il corteo - commentava in seguito il giornale 'dentro il movimento' Rosso - era determinato a invadere e occupare con una certa presenza militare il centro cittadino... Il corteo ha portato a termine il suo percorso realizzando via via i suoi obiettivi"14. A Bologna, al termine di un lungo e tortuoso dibattito, vennero messe in votazione due mozioni contrapposte15. La prima, quella di maggioranza (60 % dei voti) affermava, fin dalle prime battute, che occorreva evitare due alternative, entrambe fallimentari, prospettate dentro il movimento: quella di chi proponeva una radicalizzazione verticale dello scontro con l'apparato militare dello Stato e quella di chi voleva ritagliarsi uno spazio politico dentro le istituzioni del movimento operaio. Il movimento, mettendo in crisi i progetti di normalizzazione poilitica e sociale, trasformando le pratiche di vita, poteva produrre "comportamenti individuali e collettivi eversivi, /era/ una componente dell'opposizione di classe" al compromesso storico. Difendersi dalla repressione, mediante "l'autodifesa di massa" non era un fatto marginale, né una cosa da demandare agli specialisti dei vari servizi d'ordine più o meno in disuso. Consapevole che altri momenti di scontro con l'apparato militare statale ci sarebbero stati, nel documento si affermava che il problema "non è di sparare meglio o di più sulla polizia, ma che non si può neanche far finta che il problema non esista, dietro appelli generici e opportunistici... Dobbiamo potere essere noi a decidere i tempi dell'attacco in territorio nemico... Il movimento non fa scomuniche e non accetta la criminalizzazione di nessuna sua componente... ma nessuno deve permettersi di andare contro le decisioni e la volontà collettiva delle assemblee". La seconda mozione, quella di minoranza col 40% dei voti, segnalava le potenzialità del movimento ma anche la sua debolezza programmatica e organizzativa. "Oggi la DC porta a fondo l'attacco reazionario contro il movimento e le stesse sinistre astensioniste, proprio mentre il PCI è disposto a sacrificare addirittura alcune delle fondamentali libertà democratiche pur di eliminare i movimenti di opposizione... D'altra parte il movimento mentre rivendica il diritto a manifestare... e ribadisce la legittimità dell' autodifesa di massa, afferma che non accetta in nessun modo la logica delle azioni armate minoritarie, che, oltre a prevaricare la democrazia e l'autonomia del movimento, lo indeboliscono, facilitando le manovre della DC, avvallate dal PCI, tese a stroncarlo nella repressione più violenta". Per "punirli" - perchè in un volantino e sui loro giornali PdUP, Avanguardia Operaia e Movimento Lavoratori per il Socialismo avevano criticato duramente il comportamento e le azioni degli autonomi - gli autonomi romani, dopo la conferenza di Bologna, si riunivano in assemblea e li espellevano dal movimento. Così, ironicamente, commentava l'episodio Il Manifesto: "L'autonomia si è riunita da sola, cacciando tutti quelli che non sono d'accordo e combattono la sua pratica irresponsabile, espellendo i giornalisti, da sé dibattendo, da sé votandosi"16. Colpì molto all'epoca la foto scattata a Milano il 14 maggio 1977 che divenne per i mass-media il modo simbolico e efficace di rappresentare l'aspetto tragico del '77 collegandolo alla filosolia della morte e della P38. Quel giorno a Milano era in corso una manifestazione degli studenti. Un gruppo si staccò dal corteo e armi in pugno sparò sulla polizia, un agente, Antonio Custrà, fu colpito a morte. Fu immortalata da un fotografo la figura di un dimostrante in passamontagna, solo, in mezzo alla strada, con le gambe divaricate e le braccia tese ad impugnare con ambo le mani una P38 puntata verso la polizia. Il commento che ne fece Umberto Eco su L'Espresso del 29 maggio, coglieva a fondo una differenza sostanziale tra l'immaginario che attribuiamo ai movimenti collettivi, di massa, rivoluzionari, e quell'azione: "Quella foto non assomiglia a nessuna delle immagini in cui si era emblematizzata... l'idea di rivoluzione. Mancava l'elemento collettivo, vi tornava in modo traumatico la figura dell'eroe individuale... Questa immagine evocava altri mondi, altre tradizioni narrative e figurative." Dopo l'estate la situazione cominciava a precipitare: il convegno settembrino bolognese sulla repressione rappresentava l'ultimo canto del cigno di una tumultuosa primavera e la fiammata del "creativismo". Il movimento era ormai in via di dissoluzione. Il convegno aveva definitivamente dimostrato l'impossibilità di conciliare tra loro pratiche, bisogni, desideri, aspirazioni e sentire diversi. Ciò che vi sopravviveva era solo più quello che Rosso chiamava il "Movimento proletario dell 'autonomia". Logica conclusione, da parte loro, di un percorso che aveva alla fine comportato anche l'espulsione dell 'anima lottacontinuista, definita "specie di parassiti" che stanno "dentro il movimento perchè non saprebbe dove stare altrove"17. Il rapimento di Aldo Moro, ad opera delle Brigate Rosse, avvenuto a Roma il 16 marzo 1978, segnava la fine di un periodo e ne apriva un altro: "il movimento era come un fantasma, assente, ripiegato su sé stesso, rintanato nei suoi ghetti; la scena adesso era occupata dallo stillicidio di azioni armate clandestine che si facevano concorrenza, La vita del movimento era finita, ma per i compagni non era finita, non è che potevano mettersi da parte e dire aspettiamo, stiamo a vedere, perchè per la repressione tutti erano coinvolti, non si facevano troppe distinzioni"18. La fine del movimento, coincideva con la comparsa massiccia dell' eroina sul mercato della droga (dai diecimila drogati del 1976 si passava ai 60-70 mila del 1978 19) e col passaggio di alcuni ex settantasettini alle formazioni armate clandestine, che conobbero allora una fase di relativa espansione. Scelte opposte ma dettate dalla stessa disperazione. Dopo aver vissuto un periodo esaltante, dopo aver provato a cambiare il mondo e la vita, difficile era accettare di tornare a vivere in una società che si era rifiutata perché mediocre, ipocrita, falsa e violenta.
Diego Giachetti
Note:
1 M. Revelli, "Movimenti sociali e spazio politico", in Storia dell'Italia repubblicana, vol. 2, tomo 2, Torino, Einaudi, 1995, pp. 472-473. Up
2 Citazione da G. Galli, Storia del partito armato 1968-1982, Rizzoli, Milano, 1986, p. 144. Up
3 Le citazioni sono rispettivamente di M. Revelli, Le due destre, Bollati Boringhieri, Torino, 1996, pp. 22-23 e E. Santarelli, Storia critica della repubblica, Feltrinelli, Milano, 1996, p.188. Anche G. Boatti, Piazza Fontana. 12 dicembre 1969: il giorno dell'innocenza perduta (Feltrinelli, Milano, 1993) e G. De Paolo e A. Giannuli nell'introduzione a La strage di Stato.Vent'anni dopo (Ed Associate, Roma, 1989) giungono alle stesse conclusioni. Up
4 M. Revelli, "Movimenti sociali e spazio politico", cit., p. 467. Up
5 A. Sofri, Memoria, Palermo, Sellerio, 1990, p. 181. Up
6 Per questi dati e quelli seguenti cfr. M. Galleni, (acuradi) Rapporto sul terrorismo.Le stragi, gli agguati i sequestri, le sigle 1969-1980, Milano, 1981, pp. 51-84-89. Up
7 M.Revelli, "Movimenti...", cit., p. 473. Up
8 P. Ginsborg, Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi, Einaudi, Torino, 1989, p. 488. Up
9 T. Negri, Pipe line, Einaudi, Torino, 1983, p. 166. Up
10 F. Ottaviano, La rivoluzione nel labirinto, Rubbettino, Sovaria Mannelli (CZ), 1993, p. 817. Up
11 A. Bolaffi, P. Franchi, "La grande metafora del terrorismo", Rinascita, n. 4, 1981. Up
12 Cfr. rispettivamente "Dichiarazione di guerra degli indiani metropolitani" e "Le femministe si dissociano dall'assemblea nazionale", entrambi in I non garantiti, Savelli, Roma, 1977, pp.189 e 194. Up
13 Cfr. "Mozione 'di maggioranza"', in I non garantiti, cit., pp. 195-196. Up
14 Rosso, n. 17, 18 marzo 1977. Up
15 Ci riferiamo ai testi integrali pubblicati sul Quotidiano dei Lavoratori del 3 maggio 1977. Una sintesi di entrambi è riportata in appendice al libro I non garantiti, cit. Up
16 Citato da F. Ottaviano, op.cit., p. 853. Up
17 Ivi, p. 871. Up
18 N. Balestrini, Gli invisibili, Bompiani, Milano, 1987, pp. 26-27. Up
19 Cfr. N. Balestrini, P. Moroni, L'orda d'oro, Sugarco, Milano, 1988, p. 385. Up
Tratto da "Sul '77" - Per il Sessantotto n° 11-12/97, anno VII
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