La cultura della destra in Italia (e la sua mutazione)
Il pensiero unico delle oligarchie finanziarie transnazionali che dominano l’economia globalizzata del mercato mondiale non è né di destra né di sinistra, ma è di destra in economia (potere del denaro), di centro in politica (potere del consenso) e di sinistra in cultura (potere dell’innovazione nel costume, che flessibilizza e ‘scioglie’ le vecchie incrostazioni conservatrici delle tradizioni precedenti). È questa allora la ragione per cui la cultura di destra va affannosamente in cerca di un compratore, ma nessuno la vuole comprare, perché il vecchio comunismo storico novecentesco è vergognosamente imploso da solo, ed il vecchio armamentario del tradizionalismo culturale appare del tutto ‘fuori fase’ nell’epoca di Internet e del clero giornalistico internazionale di lingua inglese. Non è dunque un caso che i più intelligenti intellettuali europei provenienti da una tradizione culturale di destra (come l’italiano Marco Tarchi ed il francese Alain De Benoist) propongano lucidamente non tanto un "rilancio selezionato ed aggiornato" della cultura tradizionalista, ma un vero e proprio superamento della dicotomia culturale sinistra/destra in vista di una nuova sintesi. A mio avviso essi hanno perfettamente ragione, anche se questo aperto riconoscimento non implica affatto che io sia d’accordo con loro nel merito concreto delle proposte avanzate, per il semplice fatto che a mio avviso la tradizione marxista, convenientemente criticata e filtrata, continua ad avere un potenziale emancipativo che pensatori come Tarchi e De Benoist non sono affatto disposti a concedere. Più in generale la deriva produttiva dalla cultura di destra, pur essendo mille volte migliore del mantenimento dell’identità di destra, resta carente sul piano dell’universalismo e della critica al capitalismo, ed il suo eclettismo non è scevro di ambiguità culturale e di opportunismo teorico.
La crisi della cultura di destra è dunque anche un episodio del mutamento di campo del suo committente culturale tradizionale, che si trova più a suo agio con la flessibilità nichilistica post-moderna della sinistra ex-populista ed ex-marxista. Essa era già da tempo carente proprio su di uno dei suoi piani preferiti, quello "nazionale". Da un lato la destra, che avrebbe in teoria dovuto difendere le identità nazionali, produceva una serie di grotteschi e ridicoli anti-italiani professionali, come l’impenitente fascistoide Indro Montanelli, l’osceno negazionista dell’uso dei gas asfissianti della campagna colonialista e razzista in Etiopia nel 1936. Il copione teatrale dell’anti-italiano consiste nell’attribuire all’intera collettività nazionale i difetti specifici ed irripetibili della propria canagliesca personalità individuale, con in più l’ipocrisia del tirarsene fuori e del fingersi un sofisticato lord anglo-scandinavo capitato per caso in un mondo di trogloditi mediterranei. Dall’altro la destra, che si avvolge spesso nella bandiera come in un accappatoio, è poi di fatto la bandiera di una sorta di americanizzazione sfrenata e servile del costume, e si pensi solo al familismo consumistico della cultura di un Silvio Berlusconi, in cui la famiglia abbiente identificata con una unità affluente di consumo è esplicitamente collocata come fondamento filosofico, economico e sociale del rapporto fra l’individuo ed il mondo circostante. Il carattere del tutto post-borghese, ed appunto perché post-borghese integralmente capitalistico (nel senso del capitalismo della terza rivoluzione industriale), è in Silvio Berlusconi ingenuamente manifesto, e dovrebbe indurre alla riflessione coloro che si attardano ad identificare la borghesia con il capitalismo.
I tentativi di Gianfranco Fini (Fiuggi I e Fiuggi II) di dare alla destra italiana un profilo culturale moderno sono interessanti perché mostrano il completo nichilismo dei politici professionali nei confronti della propria tradizione culturale (ed in proposito il parallelismo fra Fini e D’Alema è impressionante e rivelatore). Da un lato non si vuole ‘buttare via niente’, perché vi sono nicchie di mercato di destra ancora interessate ad Evola ed a Spengler. Dall’altro bisogna farsi accettare spiritualmente dalle oligarchie ultracapitaliste e sioniste che dominano il pianeta, ed allora via con Popper, Hayek, Isaiah Berlin, eccetera. Ma questo ciarpame colto non può che toccare alcune centinaia di laureati pretenziosi. Per la ‘base elettorale’ resta purtroppo soltanto l’evocazione paranoica della minaccia dell’emigrazione di colore, l’enfatizzazione dell’insicurezza del cittadino minacciato dalla delinquenza comune, l’illusione di guarire i mali sociali con il pugno di ferro dell’inasprimento delle pene, eccetera.
La crisi della cultura di destra è dunque anche un episodio del mutamento di campo del suo committente culturale tradizionale, che si trova più a suo agio con la flessibilità nichilistica post-moderna della sinistra ex-populista ed ex-marxista. Essa era già da tempo carente proprio su di uno dei suoi piani preferiti, quello "nazionale". Da un lato la destra, che avrebbe in teoria dovuto difendere le identità nazionali, produceva una serie di grotteschi e ridicoli anti-italiani professionali, come l’impenitente fascistoide Indro Montanelli, l’osceno negazionista dell’uso dei gas asfissianti della campagna colonialista e razzista in Etiopia nel 1936. Il copione teatrale dell’anti-italiano consiste nell’attribuire all’intera collettività nazionale i difetti specifici ed irripetibili della propria canagliesca personalità individuale, con in più l’ipocrisia del tirarsene fuori e del fingersi un sofisticato lord anglo-scandinavo capitato per caso in un mondo di trogloditi mediterranei. Dall’altro la destra, che si avvolge spesso nella bandiera come in un accappatoio, è poi di fatto la bandiera di una sorta di americanizzazione sfrenata e servile del costume, e si pensi solo al familismo consumistico della cultura di un Silvio Berlusconi, in cui la famiglia abbiente identificata con una unità affluente di consumo è esplicitamente collocata come fondamento filosofico, economico e sociale del rapporto fra l’individuo ed il mondo circostante. Il carattere del tutto post-borghese, ed appunto perché post-borghese integralmente capitalistico (nel senso del capitalismo della terza rivoluzione industriale), è in Silvio Berlusconi ingenuamente manifesto, e dovrebbe indurre alla riflessione coloro che si attardano ad identificare la borghesia con il capitalismo.
I tentativi di Gianfranco Fini (Fiuggi I e Fiuggi II) di dare alla destra italiana un profilo culturale moderno sono interessanti perché mostrano il completo nichilismo dei politici professionali nei confronti della propria tradizione culturale (ed in proposito il parallelismo fra Fini e D’Alema è impressionante e rivelatore). Da un lato non si vuole ‘buttare via niente’, perché vi sono nicchie di mercato di destra ancora interessate ad Evola ed a Spengler. Dall’altro bisogna farsi accettare spiritualmente dalle oligarchie ultracapitaliste e sioniste che dominano il pianeta, ed allora via con Popper, Hayek, Isaiah Berlin, eccetera. Ma questo ciarpame colto non può che toccare alcune centinaia di laureati pretenziosi. Per la ‘base elettorale’ resta purtroppo soltanto l’evocazione paranoica della minaccia dell’emigrazione di colore, l’enfatizzazione dell’insicurezza del cittadino minacciato dalla delinquenza comune, l’illusione di guarire i mali sociali con il pugno di ferro dell’inasprimento delle pene, eccetera.
Costanzo Preve
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