Quando eravamo internazionalisti
Marco Vadilonga
C’è un paese nel mondo che ho conosciuto bene quanto se non più del mio. Un paese piccolo - il Pollicino d’America fu chiamato - senza particolari attrattive turistiche, in una zona ricca invece di vestigia storiche, mari turchesi, giungle stupende. Non l’ho attraversato in lungo e in largo, portato dai miei piedi, né in groppa ad un cavallo o a bordo di un fuoristrada: se per questo neanche il mio paese posso dire di aver visitato ancora a fondo.
Ma El Salvador l’ho conosciuto veramente attraverso gli occhi, le parole, il sangue e le lacrime del suo popolo e di quei suoi "figli migliori" il cui ricordo ancora mi commuove, la cui fine mi indigna.
Lo conobbi leggendo e ascoltando, l’ho visitato quando ancora internazionalismo era una parola conosciuta.
Oggi El Salvador non esiste più: non l’hanno cancellato geograficamente, non hanno rifatto i confine dell’America Centrale - come è avvenuto per l’ex URSS o per la ex Jugoslavia -, semplicemente l’hanno passato nel dimenticatoio della storia, insieme al Nicaragua. Le lotte di liberazione degli anni 60 e 70 ancora a volte tornano alla luce, perché usate come metro di paragone (Il Vietnam, L’Angola) o perché ancora bruciano e persistono (Cuba). Succede perché questi movimenti combatterono e sconfissero l’imperialismo, suscitarono ondate mondiali di solidarietà, che ne trasse, grazie ai loro successi, forza e vitalità.
Ma il Nicaragua e El Salvador, o il Guatemala (che pure grazie all’autorevole voce di Rigoberta Menchu ancora viene "nominato" ogni tanto) non hanno guadagnato "imperitura fama". Perché? Eppure i sandinisti fecero una rivoluzione e conquistarono il potere, riformarono la società, alfabetizzarono le campagne, unirono i lavoratori in sindacati e cooperative, resistettero armi in mano alla guerra sporca degli USA (ma quanti si ricordano quanto fu veramente lurida quella guerra?) dall’81 all’89, sostennero i compagni in armi del Fronte Farabundo Martì salvadoregno e dell’URNG guatemalteca. E poi vennero sconfitti, sì, perché stremati accettarono la democrazia imposta con le armi dall’esterno. Ma ci poteva essere "democrazia" con i porti minati, i "contras" che sgozzavano i contadini?
In Salvador, dall’81 la guerriglia produsse un crescendo di offensive contro l’esercito sostenuto dagli assessori americani. Crebbe l’FMLN, crebbero le istanze di massa, tutti i livelli della società si organizzarono per costruire opposizione alla dittatura - più o meno democratica - dei militari, della democrazia cristiana di Duarte, dei fascisti di Arena. Ma ormai il mondo era cambiato: nel ‘90 i sandinisti non governano più, il muro di Berlino è caduto, l’Unione Sovietica sta per sparire. La guerriglia salvadoregna, conquistata stima e rispetto riesce solo a sedersi al tavolo delle trattative, quando ormai il mondo è disattento, quando molti sono pronti a cambiare barca.
Dal 1992, i riflettori si spengono su El Salvador: nessuno nominerà più l’FMLN, l’offensiva di novembre dell’89, Radio Venceremos, ma neanche i gesuiti massacrati all’UCA, Monsignor Romero.
Eppure, migliaia di compagni e compagne in tutto il mondo non si limitarono a manifestare solidarietà ma si recarono fisicamente in quei paesi: portarono aiuti, andarono per conoscere e riferire. E anche per unirsi in modo più concreto a quelle che erano a tutti gli effetti esperienze rivoluzionarie. Molti rimasero fino alla fine, alcuni si stabilirono lì, altri non tornarono più, sepolti sulle montagne o al più tornarono in una bara, onorati dai propri compagni in patria come internazionalisti.
Sì, i militanti di quel decennio, degli anni ‘80 furono gli ultimi veri internazionalisti. Non furono molti gli europei ad andare a combattere o a portare solidarietà in Vietnam, in Congo o in Angola, a Cuba: ma il Nicaragua e El Salvador possono annoverare migliaia di "visitatori" politici e centinaia di questi si unirono alla lotta rivoluzionaria, si trasformarono in soldati per la liberazione di quei popoli dallo sfruttamento imperialistico, nella certezza che ci fosse continuità tra la loro esperienza e quella dei compagni rimasti in Italia, in Spagna, Francia, Germania, Svezia, Svizzera, Belgio, Stati Uniti.
Anche loro oggi sono dimenticati o si sono fatti dimenticare. Eppure è una storia che va raccontata.
Ho provato a fare una ricerca sul quel folle mondo di internet in cui tutto compare e scompare, in cui il passato si rinnova e il nuovo già invecchia. Ho cercato un nome, per vedere se da qualche parte nel mondo qualcuno avesse posto in quel non luogo un "sito" a memoria di una storia bella e tragica. Non è uscito fuori nulla. Può non essere indicativo, si può senz’altro cercare meglio e più in profondità, ma mi ha comunque impressionato negativamente, forse perché ho dietro alle mie spalle una poesia a lei dedicata.
A Begoña Garcia Arandigoyen, compagna basca, medico, unitasi alle fila del FMLN, uccisa dall’esercito in un ospedale da campo del fronte a Santa Ana, dove prestava la sua opera, il 10 settembre del 1990. Fu catturata viva e uccisa.
Questo "non trovare" mi ha fatto porre il problema di quelle storie in quei paesi, le nostre storie di solidarietà militante e internazionalista, ma anche le "loro" storie, di quei diseredati della terra, che giungono persino ad autocensurarsi, tanto finisce per pesare la sconfitta sui loro cuori di indios. Infatti, prim’ancora avevo curiosato sui siti salvadoregni, cercando nomi e storie che conoscevo, per scoprire che fine avevano fatto non solo i nomi più noti dell’allora guerriglia (Villalobos, Handal, Gonzales, Ana Guadalupe Martinez, il comandante Manolo ecc.) ma anche se e come venissero ricordati quegli anni. Non saltava fuori quasi niente, se paragonato a quanto si trova oggi in rete sulla nostra Resistenza, o sui nostri anni ‘70. Non solo, laddove emerge qualcosa, si fa quasi fatica a crederci, si vorrebbe prendere e scrivere a qualche loro sito per gridargli "venduti", "traditori"! Basta citare l’ex comandante Joaquin Villalobos, grande stratega dell’FMLN, leader dell’ERP, una delle cinque componenti del Fronte: ora è assistente militare, diciamo, del governo di destra! Di altri emergono storie marginali rispetto ai loro sogni, alle loro esperienze, alcuni saltano fuori in Spagna, magari, ma non in El Salvador.
E mi chiedo se sarebbe sensato prendere e scrivere queste storie, questi ricordi, fare i nomi, rinnovare eventi che per me sono ancora tanto emozionanti e pieni di dignità. Sarebbe una intrusione? In cosa? La loro storia, allora, era anche la nostra: partecipavamo delle loro scelte, dicevamo la nostra, alcuni hanno dato la vita per la loro causa, che era anche la nostra.
Quando furono firmati gli accordi di pace, non ci piacquero, ma ci rendevamo conto che ormai la situazione stagnava e bisognava uscirne fuori e scrivemmo ai compagni salvadoregni così come alla solidarietà internazionale i nostri dubbi, le delusioni ma anche le potenzialità che vedevamo, non negli accordi in sé quanto nelle forze che il popolo aveva accumulato e che, per ragioni anche oggettive, di divisione del territorio, di zone controllate, potevano sprigionarsi in modo autonomo e antigovernativo, costruendo in una fase di transizione il "potere popolare". I compagni, dal Salvador, dalle organizzazioni della guerriglia con cui eravamo in contatto non ci hanno risposto, troppo presi a "tornare alla vita pubblica".
Chi ci potrebbe rispondere, oggi, ricordando quelle storie?
2
In questi anni, dal 1992, quell’esperienza fatta in solidarietà l’ho rivissuta tante volte: attraverso i ricordi e le immagini, con chi l’avevo condivisa, perché saltava fuori un nome o un fatto. O semplicemente perché è qualcosa che ho fatto concretamente.
Un giorno di ottobre del 1996 mi telefonano da Hidelberg: Gioacchino! come noi allora solidale con la causa del FMLN e forse rimasto più a lungo in contatto con El Salvador. "Ho una brutta notizia - dice - e dovrai anche comunicarla agli altri: a San Salvador è stato ucciso Paco… Paco dei Cutumay Camones".
"Ucciso? Come? da chi?". "Guarda, ti manderò dei ritagli di giornali di lì, ma comunque non se ne sa molto, forse una vendetta ritardata degli squadroni della morte".
Insomma per loro non era finita nemmeno con la tanto agognata pace. Avevano combattuto, erano sopravvissuti, e poi muoiono perchè in realtà la guerra non è mai finita, forse non può finire a quelle condizioni.
Paco! "Que onda, compas?" dicevi quando ti si incontrava per le stradine di Perquin, sorridente e un po’ ironico sotto il baffetto, con la divisa del Fronte e il fucile in spalla. E poi appoggiati al muretto della casa comune a parlare di quello che succedeva in Europa, della prossima riunificazione tedesca. E la sera suonasti con Sebastian, le canzoni dei Cutumay Camones e dei Torogoces, gruppi musicali popolari e rivoluzionari salvadoregni.
Non ho mai saputo cosa avrai pensato di quella pace del 1992. "Paco Cutumay", ti chiamavamo: così ti ricordano i tuoi compagni nei manifesti murali. Quel gruppo musicale con cui suonasti ancora lo ascolto, ogni tanto: e mi emoziono ancora.
Ritornando indietro, mi rendo conto che ci sono anche altri di loro che ho incontrato che ho conosciuto e sono morti, uccisi. Un comandante della guerriglia che conobbi in Italia, che accompagnai per i suoi giri diplomatici a Roma, fu ucciso, quando ancora si combatteva[1].
Così come ci sono, dicevo, quelli che sono sopravvissuti ma hanno tradito i loro ideali. Non si tratta di fare della retorica idealista, si tratta di misurare i fatti. Un conto è adeguare il proprio agire ad una situazione mutata per cause "di forza maggiore", un conto è saltare il fosso non appena cambia la situazione.
Qualcosa di simile accadde per Radio Venceremos.
3
Nel gennaio del 1989 conobbi Nelson Govea. Era venuto a Roma dopo aver conosciuto a sua volta Federico, allora in giro tra Nicaragua, Spagna e Italia. Lui rappresentava in Europa il Sistema Radio Venceremos, ossia tutto l’insieme di media che facevano da supporto propagandistico, dentro e fuori di El Salvador, al Fronte. Radio Venceremos, in particolare ha una storia sua, avventurosa e narrata in modo anche simpatico, grazie a quel modo tipico dei latino americani, ne "Le mille e una storia di Radio Venceremos".
Ci tornerò sopra. Ora basta dire che la "Venceremos" come la chiamavano i compagni di giù era la radio ufficiale del Fronte Farabundo Martì ma era nello stesso tempo il prodotto di uno dei cinque gruppi che formavano il fronte: l’ERP, Esercito rivoluzionario del Popolo, guidato da Joaquin Villalobos. Era cioè ufficiale ma anche di parte. C’era anche un’altra radio, Radio Farabundo Martì, il cui nome lascerebbe pensare a quella "ufficiale", ma che invece era emanazione del Frente Democrático Revolucionario, altra organizzazione del FMLN.
Con la visita di Nelson, 8 anni di "ignoranza" su quanto avveniva in Salvador si cancellano. Era infatti dal 81/82 che non avevo notizie di quell’esperienza di lotta, dai tempi dell’offensiva dell’81, per la quale ci furono manifestazioni - ricordo un’assemblea all’allora cinema Ariel di Monteverde.
Improvvisamente mi ritrovo proiettato in un progetto, portato dall’entusiasmo di Federico, di Davide e dalla serietà di Nelson. Comincia una sorta di corso di formazione sulla realtà salvadoregna: conosco la situazione politica, economica e sociale nei dettagli. Il punto di partenza è il primo e forse unico video tradotto in italiano, "Tiempo de Victoria". Da qui deriva la creazione di un Gruppo d’appoggio a Radio Venceremos.
Tutto ciò è più appassionante di quanto avrei immaginato: e me lo dimostra anche il fatto che immediatamente si aggregano altri compagni e compagne che traducono, raccolgono materiale, fanno interviste e preparano la trasmissione che da lì a poco andremo a tenere settimanalmente a Radio Proletaria (oggi Radio Città Aperta).
Comincia così un’esperienza che per circa 3 anni e mezzo ci porta a conoscere decine di compagni e compagne, uomini e donne salvadoregni, a sostenerli nei loro giri in Italia, a stimarli e ad essere stimati da loro.
4
Il presente si insinua continuamente, mentre ricostruisco i ricordi un epoca non lontana, ma abissalmente diversa nelle forme e nei contenuti da quella attuale. Se sono partito da una riflessione sull’internazionalismo degli anni ‘70-’90, la guerra in Iraq fornisce un elemento ulteriore.
Quando i compagni mettevano piede in questi paesi, sapevano dove era il nemico e dove l’amico. Sia che fossero lì per progetti popolari, un po’ come le ONG attuali, sia che entrassero nella fila della guerriglia, nessuno dubitava da chi si doveva difendere. La sensazione è che oggi, pur non potendo paragonare esattamente il tipo di "militanza", chi va a svolgere un compito di sostegno popolare in paesi di conflitto, può aspettarsi di essere coinvolto da tutte le parti in conflitto. Dovremmo capire perché: gli schieramenti non sono più definiti e le ancore ideologiche che ci fissano nei nostri destini, non coincidono più con quelle dei diseredati del "terzo mondo". Islam o non islam, il fatto è che le cause per cui combattiamo sembrano soltanto uguali, ma in realtà contrappongono due mondi, in uno dei quali, quello dei "più forti", del capitalismo, noi finiamo col rientrare in quanto sconfitti nei decenni passati.
Sì, non spaventiamoci di questa riflessione: perché sconfitti non significa aver abbandonato la lotta o gli obiettivi. Vuol dire, però, che se non si formula un altro insieme di valori, che a mio avviso deve tener fede anche a quelli passati, si finisce per essere inglobati nel carrozzone dei vincitori, rispetto alle nuove insorgenze mondiali. I nostri compagni che andavano, si trasferivano, morivano in America Latina, godevano del rispetto delle genti di quei paesi. Oggi, sembra molto più faticoso guadagnarsi questo rispetto, in Iraq o in Africa: si finisce per essere al più tollerati, si finisce per essere "terzi", per invocare la terzità. Solo la Palestina, credo, fa eccezione, perché quel conflitto affonda le radici almeno nei decenni passati.
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