Se la destra si dipinge così, com'è la sinistra?


Copio un articolo tratto dal Secolo d'Italia che tratta l'argomento dell'identità "ideologica" della destra. Lo faccio solo per chiedere ma qual'è, al contrario e in modo speculare, l'identità della sinistra?
L'impressione è che se fosse riscrito togliendo qualche aggettivo questo pezzo potrebbe stare bene nel giornale del PD.
Così come certe suggestioni sulla "nazione" e lo "stato" in qualche scritto di Ferrero.


I numeri sono chiari, e adesso si può cominciare a parlare di politica. Nel “mare magnum” delle dichiarazioni degli “ex colonnelli” l’argomentazione che più colpisce l’abbiamo trovata ieri in un’intervista a Giorgia Meloni (ma il giorno prima era evocata in quella di Ignazio La Russa, e Maurizio Gasparri ne ha fatto da tempo un suo cavallo di battaglia). È la “questione ideologica”, quella che Giorgia sintetizza dicendo: «Io ho una storia, fatta di An, destra, giovani, conservatorismo etico», una storia «che va difesa», quasi che Gianfranco Fini fosse al di là di quella storia, o addirittura se ne fosse messo al di fuori. Come ha spiegato, appunto, Gasparri: «Il problema vero è che io sono rimasto sulle posizioni che abbiamo sempre espresso: lui invece è diventato un innovatore, ha cambiato idea su tante cose». Per poi chiedersi: ma se un capo di partito cambia idea, dirigenti e militanti devono adeguarsi?
Adesso che i posizionamenti politici sono trasparenti, che ci si è schierati pro e contro, questo è il primo argomento su cui essere trasparenti. Crediamo, ad esempio, che abbia fatto molte più cose “di destra” la finiana Giulia Bongiorno fermando, correggendo o limando provvedimenti come la prescrizione breve (che avrebbe cancellato 600mila processi), piuttosto che tutti gli ex An (noi compresi) messi insieme. Senza la sua competenza e determinazione avremmo mortificato le forze dell’ordine che su quei 600mila casi hanno indagato, schiaffeggiato le vittime che hanno speso tempo e quattrini per avere giustizia, probabilmente premiato i colpevoli. Chi si fregia del titolo di difensore dei valori della cosiddetta “vera destra” dovrebbe spiegarci a quale punto della graduatoria mette la legalità. E a quale il senso dello Stato e dell’interesse nazionale, e un’idea repubblicana che non si basi sulla sopraffazione dei più deboli ma sulla garanzia di un diritto uguale per tutti.
Ecco, se è naturale che a un ex Forza Italia venga in mente, ad esempio, di dichiarare che si deve fare «la riforma istituzionale che ci conviene di più», non è normale che un’idea così sia sostenuta da uno “di destra”. Se non sorprende il controcanto di Silvio Berlusconi su Roberto Saviano (peraltro pubblicato da Mondadori), eroe civile della lotta ai clan, stupisce che le uniche osservazioni critiche siano arrivate dai “finiani”: chi aspira a interpretare la destra-destra dovrebbe ancora avere nelle orecchie, per dirne una, la relazione di Beppe Niccolai all’antimafia, le assemblee del FdG con Paolo Borsellino, gli stessi comizi di Almirante in Sicilia. Come fa a stare zitto? Come fa a far finta di niente?
Perché ci sono solo i “finiani” nel comitato che chiede la verità per Stefano Cucchi, vittima innocente che ci ricorda tanti dei nostri? Come mai gli eredi più titolati della tradizione della destra, una tradizione che aveva in massimo conto la partecipazione, sono i più distratti davanti al problema dell’astensionismo? Perché è il “finiano” Pasquale Viespoli il solo che sentiamo parlare con passione di Sud o di patto generazionale per salvare i giovani da un futuro immobile e precario? E come mai, tra le tante fondazioni e think thank che gli ex colonnelli hanno costituito, è toccato solo i “finiani” del Secolo aver dedicato convegni e approfondimenti giornalistici non retorici a personaggi che hanno fatto la storia della “nostra” destra come Giano Accame, Tony Augello o Marzio Tremaglia, di cui domani ricorre il decimo anniversario della prematura scomparsa, o al vero e formidabile “sdoganatore” già negli anni Ottanta della destra politica italiana che fu Bettino Craxi?
Il fatto è che il vero dna della destra, più che sul crinale della retorica dei valori e delle cosidette questioni di coscienza, dove il nostro mondo – fin dall’epoca del divorzio – ha sempre giudicato normale esprimersi liberamente, ruota intorno alle discriminanti ben più scomode (almeno nell’era berlusconiana) del senso dello Stato e della legalità, della protezione dei deboli e della valorizzazione del merito oltre i diritti di casta. Facile fare la morale in tema di coppie di fatto, che non incide sul “core busisness” di nessuno. Ma il coraggio della destra, a nostro giudizio, si mostra anche altrove. Anzi, soprattutto altrove.

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