Correre, compagni
In fondo non era sorpreso da quella reazione, la guardò andare via. Nel suo maglione largo ed ingombrante. Incespicare per un attimo su quella strada sterrata, riprendersi senza voltarsi indietro.
Sentiva ancora le nocche delle mani serrate, la mascella contratta e gli occhi piccoli come due fessure. Avrebbe voluto fermare quel torrente di parole. Aveva ascoltato, ed aveva anche chinato la testa. In fondo non aveva detto nulla di particolare, una reazione quasi isterica e senza contenuti per lui.
Si voltò e raggiunse il gruppo dei suoi amici.
- Ma non dire cazzate, è solo stanca e non ragiona.
Giò lo guardò e gli disse quello che forse da tempo si teneva dentro
- hai problemi con le persone amigo, non riesci più a distinguere. Ti porti dentro una rabbia che non riesci a metabolizzare, è passato del tempo ma sembra che per te questo non conti.
Così fai solo del male a te stesso, distruggi il poco di buono che riesci a costruire. Lasci rancori, e tu non sei così. Lo sappiamo entrambi.
La politica non è la sola nostra dimensione, c'è qualcosa in più che viene ed è a monte del tutto. E' il modo in cui interagisci e te la vivi la vita. E' un modo rispetto al quale tu hai perso la percezione. Sembra che non ti interessino più i rapporti con le persone. E' diventato un meccanismo questo per te.
Agisci e ti relazioni con l'unico filtro che è quella roba contorta che ti preme lo stomaco: la rabbia e l'incazzatura.
- finito il sermone? ti ho ascoltato ed ora non né la voglia né il tempo per risponderti. Abbiamo del lavoro che ci attende. fammi un favore però, avrà bisogno di una mano con la mamacita che la ospita, parla lo spagnolo come tu parli il tedesco, cioè male e non si capisce un cazzo.
Vai da lei e stalle un po' vicino. Visto che sei così a modo vi troverete d'incanto.
Il suo amico lo guardò, si alzò con indolenza dal gradino della casa su cui si era accovacciato, spolverò con cura i suoi pantaloni, si stirò la camicia con le mani e lo salutò sorridendo.
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Quando varcò la porta della cucina tutti si zittirono. La conferma che stavano commentando quello che era appena successo. Si era già pentita di quel colpo di testa. Non era servito a nulla, né a farla stare meglio né a smuovere il suo compagno. Era rimasto lì, a guardarla con gli occhi socchiusi, senza tentare la minima difesa. Nemmeno lo sforzo di replicare. Sarebbe stata meglio se anche lui avesse strillato. - Perlomeno mi sentirei meno scema – mormorò. Sorrise. Un sorriso tirato che non arrivò agli occhi. Non poteva di più in quel momento. Litigare la sconvolgeva. Ricacciò indietro pensieri e lacrime. In fondo avrebbe avuto tre giorni tutti per sé. Tre giorni per pensare. Tre giorni per riflettere. Tre giorni per decidere.
Nella cucina, le attività erano riprese. Il locale era piccolo, essenziale. Vide le donne affaccendarsi intorno al fuoco, rosse in viso per il riverbero della fiamma. Una donna, in un angolo, schiacciava delle erbe in un pesante mortaio in pietra vulcanica. Attratta dall’oggetto si avvicinò. – Molcajete – disse una voce dietro di lei. Si girò e si trovò davanti un uomo. Le indicava il mortaio, poi mostrandole il pestello aggiunse: - Tejolote – Lo fissò perplessa. Le sembrava di averlo già visto. Poi ricordò. Era uno degli amici che il suo compagno di viaggio aveva abbracciato calorosamente all’ arrivo. Ed era con lui anche quando lei aveva fatto la sua sfuriata. Arrossì imbarazzata. L’uomo le porse la mano e si presentò: - Qua tutti mi chiamano Gio – Aveva la mano callosa di chi lavora sodo. Le unghie quadrate, tagliate corte. - Anita – si presentò lei a sua volta. Si sentì avvolgere dal suo sguardo. Fu solo un attimo. Una sensazione talmente fuggevole che sospettò di averla immaginata. L’uomo sembrò non notare il suo turbamento. Continuò a parlare, indicandole il nome degli utensili da cucina e dei cibi. – Metate– disse indicandole una macina in pietra . Con un’abilità dovuta alla lunga pratica, l’anziana mamà scavò con le mani nella farina di mais e versò dell’acqua calda nella piccola conca. Aggiunse un pizzico di sale e cominciò ad impastare. Con vigore. Anita ne osservava i movimenti, affascinata. C’era della maestria in quei gesti antichi. L’anziana donna accompagnava il suo lavoro con tutto il corpo. In quella pasta riversava l’ energia, la forza,l’esperienza di generazioni di donne. Ne invidiò la sicurezza, il suo essere radicata in un passato ancora così presente. Le certezze. Ecco, averne ancora di certezze! Si sentì osservata. Gio la guardava in maniera strana.- Que pasa? – le chiese. – Nada- si affrettò a rispondere- Nada!
Nascose il turbamento dietro ad un pallido sorriso. Era un’arte che sapeva esercitare bene. Dissimulava spesso i suoi stati d’animo, mostrando al mondo una maschera sorridente. Era quello che le avevano insegnato. Da sempre. Sopportare e sorridere. Stringere i denti e sorridere. Ingoiare amaro e sorridere. Eppure non erano riusciti a domarla. Perlomeno non del tutto. La sentiva fin nelle viscere la ribellione. Latente e sotterranea. Una bomba a miccia corta che poteva esplodere in qualsiasi momento.
Annegò le sue riflessioni aiutando l’anziana donna. Con l’impasto formarono delle palline. La pasta era liscia e morbida al tatto. – Metlapil – la informò Gio, porgendole un matterello in pietra – Lo spessore della tortillas dev'essere simile a quello della carta, molto molto sottile.
In realtà lei non aveva molta dimestichezza con la cucina e con i lavori casalinghi in genere, ma voleva rendersi utile. Provò a maneggiare l’utensile tra le risatine divertite delle donne che la fissavano e si davano di gomito quando lei sbuffava. La farina sembrava avere un’attrazione fatale per lei. Provò a tirare la sfoglia. Ci voleva una manualità che lei non possedeva. Provò e riprovò. Si sentì inadeguata, persa. In quel angolo di mondo tutto il suo sapere e le conoscenze non servivano molto.
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Quando varcò la porta della cucina tutti si zittirono. La conferma che stavano commentando quello che era appena successo. Si era già pentita di quel colpo di testa. Non era servito a nulla, né a farla stare meglio né a smuovere il suo compagno. Era rimasto lì, a guardarla con gli occhi socchiusi, senza tentare la minima difesa. Nemmeno lo sforzo di replicare. Sarebbe stata meglio se anche lui avesse strillato. - Perlomeno mi sentirei meno scema – mormorò. Sorrise. Un sorriso tirato che non arrivò agli occhi. Non poteva di più in quel momento. Litigare la sconvolgeva. Ricacciò indietro pensieri e lacrime. In fondo avrebbe avuto tre giorni tutti per sé. Tre giorni per pensare. Tre giorni per riflettere. Tre giorni per decidere.
Nella cucina, le attività erano riprese. Il locale era piccolo, essenziale. Vide le donne affaccendarsi intorno al fuoco, rosse in viso per il riverbero della fiamma. Una donna, in un angolo, schiacciava delle erbe in un pesante mortaio in pietra vulcanica. Attratta dall’oggetto si avvicinò. – Molcajete – disse una voce dietro di lei. Si girò e si trovò davanti un uomo. Le indicava il mortaio, poi mostrandole il pestello aggiunse: - Tejolote – Lo fissò perplessa. Le sembrava di averlo già visto. Poi ricordò. Era uno degli amici che il suo compagno di viaggio aveva abbracciato calorosamente all’ arrivo. Ed era con lui anche quando lei aveva fatto la sua sfuriata. Arrossì imbarazzata. L’uomo le porse la mano e si presentò: - Qua tutti mi chiamano Gio – Aveva la mano callosa di chi lavora sodo. Le unghie quadrate, tagliate corte. - Anita – si presentò lei a sua volta. Si sentì avvolgere dal suo sguardo. Fu solo un attimo. Una sensazione talmente fuggevole che sospettò di averla immaginata. L’uomo sembrò non notare il suo turbamento. Continuò a parlare, indicandole il nome degli utensili da cucina e dei cibi. – Metate– disse indicandole una macina in pietra . Con un’abilità dovuta alla lunga pratica, l’anziana mamà scavò con le mani nella farina di mais e versò dell’acqua calda nella piccola conca. Aggiunse un pizzico di sale e cominciò ad impastare. Con vigore. Anita ne osservava i movimenti, affascinata. C’era della maestria in quei gesti antichi. L’anziana donna accompagnava il suo lavoro con tutto il corpo. In quella pasta riversava l’ energia, la forza,l’esperienza di generazioni di donne. Ne invidiò la sicurezza, il suo essere radicata in un passato ancora così presente. Le certezze. Ecco, averne ancora di certezze! Si sentì osservata. Gio la guardava in maniera strana.- Que pasa? – le chiese. – Nada- si affrettò a rispondere- Nada!
Nascose il turbamento dietro ad un pallido sorriso. Era un’arte che sapeva esercitare bene. Dissimulava spesso i suoi stati d’animo, mostrando al mondo una maschera sorridente. Era quello che le avevano insegnato. Da sempre. Sopportare e sorridere. Stringere i denti e sorridere. Ingoiare amaro e sorridere. Eppure non erano riusciti a domarla. Perlomeno non del tutto. La sentiva fin nelle viscere la ribellione. Latente e sotterranea. Una bomba a miccia corta che poteva esplodere in qualsiasi momento.
Annegò le sue riflessioni aiutando l’anziana donna. Con l’impasto formarono delle palline. La pasta era liscia e morbida al tatto. – Metlapil – la informò Gio, porgendole un matterello in pietra – Lo spessore della tortillas dev'essere simile a quello della carta, molto molto sottile.
In realtà lei non aveva molta dimestichezza con la cucina e con i lavori casalinghi in genere, ma voleva rendersi utile. Provò a maneggiare l’utensile tra le risatine divertite delle donne che la fissavano e si davano di gomito quando lei sbuffava. La farina sembrava avere un’attrazione fatale per lei. Provò a tirare la sfoglia. Ci voleva una manualità che lei non possedeva. Provò e riprovò. Si sentì inadeguata, persa. In quel angolo di mondo tutto il suo sapere e le conoscenze non servivano molto.
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