La persistenza zapatista
La tenace persistenza zapatista
Raúl Zibechi | 8 gennaio 2013 |
La mobilitazione delle comunità zapatiste del 21 dicembre e i tre comunicati diffusi il 30 dello stesso mese dall’Esercito zapatista di liberazione nazionale (Ezln) sono stati accolti con allegria e speranza da molti movimenti antisistemici e di lotta anticapitalista in America latina. I mezzi di comunicazione di questi movimenti hanno immediatamente mostrato nelle loro pagine l’importanza della grande mobilitazione, che è avvenuta in tempi difficili per coloro che continuano a impegnarsi nella resistenza al sistema di morte che ci «de-governa».
Gli ultimi anni sono stati particolarmente complessi per i movimenti impegnati a costruire un mondo nuovo dal basso. Nella maggior parte dei paesi del Sudamerica, la repressione contro i settori popolari non è cessata, malgrado la maggioranza dei governi si dica progressista. Quei governi hanno messo in moto, nello stesso tempo, un insieme di «politiche sociali» destinate, a quanto dicono, a «combattere la povertà». Si tratta, in realtà, di politiche che cercano di impedire che i poveri si diano un’organizzazione autonoma, oppure si tratta di neutralizzarla qualora l’auto-organizzazione abbia già raggiunto un certo livello di sviluppo.
Le politiche sociali progressiste – come si vede bene, tra gli altri, nei casi dell’Argentina, del Brasile e dell’Uruguay – non sono riuscite a far diminuire le disuguaglianze, né a distribuire la ricchezza né a realizzare riforme strutturali. Sono state però molto efficaci al momento di dividere le organizzazioni popolari, di introdurre cunei nei territori controllati dai settori popolari e, in molti casi, di dirottare gli obiettivi della lotta verso questioni secondarie. Le politiche sociali progressiste non hanno toccato la proprietà della terra e degli altri mezzi di produzione. Cercano solo di attenuare gli effetti dell’accumulazione di rapina senza modificare le politiche che sostengono questo modello: le miniere a cielo aperto, le monocolture, le megadighe idroelettriche e le grandi opere di infrastruttura.
Con l’eccezione del Cile e del Perù, dove la lotta del movimento studentesco e la resistenza contro le miniere continuano a essere vive, nella maggior parte dei Paesi sudamericani l’iniziativa è passata ai governi. I movimenti antisistemici sono più deboli e isolati, abbiamo perduto l’orizzonte strategico. Il lavoro territoriale urbano, dal quale sono state lanciate in passato formidabili offensive contro il neoliberismo e le sue privatizzazioni, si trova in un vicolo da cui sarà difficile uscire in breve tempo. Viene messo in difficoltà ogni volta che i ministeri dello sviluppo sociale, dell’economia solidale e altri ministeri che usano denominazioni simili riescono a infiltrarsi nei territori in resistenza con programmi che vanno dai trasferimenti monetari alle famiglie povere fino a diverse forme di «sostegno» per investimenti produttivi. All’inizio, i movimenti accettano questi aiuti con la speranza di rafforzarsi, poi vedono rapidamente che la demoralizzazione e la disgregazione si diffondono tra le loro file.
Cosa può fare un collettivo di base quando, con grandi sacrifici e l’impegno di tutti, mette in piedi una scuola superiore in un quartiere e, subito dopo, il governo crea nelle vicinanze un’altra scuola con migliori infrastrutture, corsi identici e arriva perfino a mettergli il nome di noti rivoluzionari? La risposta è che non lo sappiamo. Che ancora non abbiamo imparato a lavorare in quelli che sono stati i nostri territori e che adesso sono spazi invasi da legioni di lavoratori e lavoratrici sociali che fanno discorsi molto «progres» e, a volte, perfino radicali ma lavorano per los de arriba (quelli di sopra, ndt).
Lo zapatismo è uscito rafforzato da questa politica di assedio e annichilimento militare e «sociale», dove lo Stato si è impegnato a fondo a dividere attraverso gli «aiuti» materiali come componente aggiuntiva alle campagne militari e paramilitari. Per questo in molti e molte abbiamo accolto con enorme allegria la mobilitazione del giorno 21. Non che sospettassimo che gli zapatisti non esistessero più, cosa che solo quelli che si informano attraverso i media avrebbero potuto credere, ma perché abbiamo avuto la prova che è possibile attraversare l’inferno dell’aggressione militare sommata alle politiche sociali di contrainsurgencia (per riferirsi alla loro condizione, gli zapatisti hanno sempre usato la parola insurgentes, ndt). Conoscere, studiare, comprendere l’esperienza zapatista è più urgente che mai per noi che viviamo sotto il modello progressista.
È certo che il progressismo gioca un ruolo positivo rispetto alla dominazione yanqui (Usa, ndt) nel cercare una certa autonomia per uno sviluppo capitalista locale e regionale. Di fronte ai movimenti antisistemici, tuttavia, coloro che pretendono di seguire il percorso della socialdemocrazia non si differenziano in assoluto dai governi che li hanno preceduti. Dobbiamo comprendere questa dualità all’interno di uno stesso modello: la collisione progressista con gli interessi di Washington dentro la stessa logica di accumulazione per rapina. Si tratta, in senso stretto, di una disputa su chi debbano essere i beneficiari dello sfruttamento e dell’oppressione de los de abajo, una partita nella quale le borghesie locali e gli amministratori dei partiti di «sinistra» alleati con un certo sindacalismo imprenditoriale, reclamano parte del bottino.
Il percorso zapatista fornisce alcuni insegnamenti per noi, persone e movimenti che viviamo «assediati» dal progressismo.
In primo luogo, l’importanza dell’impegno militante, la fermezza dei valori e dei princìpi, il rifiuto di vendersi e di vacillare per quanto forte e poderoso appaia il nemico e per quanto isolati e deboli siano i movimenti antisistemici in un certo momento.
In secondo luogo, la necessità di persistere nel credere e pensare le cose oltre i risultati immediati, i supposti successi o disfatte momentanei, in contesti che spesso sono fabbricati dai media. Il solo modo per costruire con solidità e guardando al lungo periodo è persistere nella creazione di movimenti non istituzionalizzati né prigionieri dei tempi elettorali.
Il terzo è l’importanza di un modo differente del far politica, senza il quale non c’è nulla al di là di ciò che è mediatico, istituzionale o elettorale. Una intensa discussione attraversa non pochi movimenti sudamericani. Riguarda l’opportunità di partecipare alle elezioni o di istituzionalizzarsi in diverse forme come mezzo per evitare l’isolamento del lavoro territoriale e per entrare nella «vera» politica. Gli zapatisti ci mostrano altre forme della politica che non ruotano attorno all’occupazione delle istituzioni dello Stato e che consistono nel creare, in basso, modi di prendere le decisioni in forma collettiva e di produrre e riprodurre le nostre vite in base al principio di «comandare obbedendo». Questa cultura politica non è adatta a chi pretende di usare la gente comune come una scala per realizzare le proprie aspirazioni individuali. Per questo tanti politici ed intellettuali interni al sistema rifiutano quei nuovi modi, perché dovrebbero subordinarsi alle decisioni collettive.
Il quarto insegnamento riguarda l’autonomia come orizzonte strategico e come pratica quotidiana. Grazie al modo con il quale le comunità risolvono le proprie necessità, abbiamo appreso che l’autonomia non può essere solo una dichiarazione di intenti (per quanto preziosa essa possa essere) ma deve radicarsi nell’autonomia materiale, dal cibo alla salute fino all’educazione e al modo di prendere le decisioni, cioè di governarci.
Negli ultimi anni abbiamo visto esperienze ispirate dallo zapatismo al di fuori del Chiapas, perfino in alcune città. Non si tratta di una cultura politica valida solo per le comunità indigene di quello Stato messicano.
Raúl Zibechi | 8 gennaio 2013 |
La mobilitazione delle comunità zapatiste del 21 dicembre e i tre comunicati diffusi il 30 dello stesso mese dall’Esercito zapatista di liberazione nazionale (Ezln) sono stati accolti con allegria e speranza da molti movimenti antisistemici e di lotta anticapitalista in America latina. I mezzi di comunicazione di questi movimenti hanno immediatamente mostrato nelle loro pagine l’importanza della grande mobilitazione, che è avvenuta in tempi difficili per coloro che continuano a impegnarsi nella resistenza al sistema di morte che ci «de-governa».
Gli ultimi anni sono stati particolarmente complessi per i movimenti impegnati a costruire un mondo nuovo dal basso. Nella maggior parte dei paesi del Sudamerica, la repressione contro i settori popolari non è cessata, malgrado la maggioranza dei governi si dica progressista. Quei governi hanno messo in moto, nello stesso tempo, un insieme di «politiche sociali» destinate, a quanto dicono, a «combattere la povertà». Si tratta, in realtà, di politiche che cercano di impedire che i poveri si diano un’organizzazione autonoma, oppure si tratta di neutralizzarla qualora l’auto-organizzazione abbia già raggiunto un certo livello di sviluppo.
Le politiche sociali progressiste – come si vede bene, tra gli altri, nei casi dell’Argentina, del Brasile e dell’Uruguay – non sono riuscite a far diminuire le disuguaglianze, né a distribuire la ricchezza né a realizzare riforme strutturali. Sono state però molto efficaci al momento di dividere le organizzazioni popolari, di introdurre cunei nei territori controllati dai settori popolari e, in molti casi, di dirottare gli obiettivi della lotta verso questioni secondarie. Le politiche sociali progressiste non hanno toccato la proprietà della terra e degli altri mezzi di produzione. Cercano solo di attenuare gli effetti dell’accumulazione di rapina senza modificare le politiche che sostengono questo modello: le miniere a cielo aperto, le monocolture, le megadighe idroelettriche e le grandi opere di infrastruttura.
Con l’eccezione del Cile e del Perù, dove la lotta del movimento studentesco e la resistenza contro le miniere continuano a essere vive, nella maggior parte dei Paesi sudamericani l’iniziativa è passata ai governi. I movimenti antisistemici sono più deboli e isolati, abbiamo perduto l’orizzonte strategico. Il lavoro territoriale urbano, dal quale sono state lanciate in passato formidabili offensive contro il neoliberismo e le sue privatizzazioni, si trova in un vicolo da cui sarà difficile uscire in breve tempo. Viene messo in difficoltà ogni volta che i ministeri dello sviluppo sociale, dell’economia solidale e altri ministeri che usano denominazioni simili riescono a infiltrarsi nei territori in resistenza con programmi che vanno dai trasferimenti monetari alle famiglie povere fino a diverse forme di «sostegno» per investimenti produttivi. All’inizio, i movimenti accettano questi aiuti con la speranza di rafforzarsi, poi vedono rapidamente che la demoralizzazione e la disgregazione si diffondono tra le loro file.
Cosa può fare un collettivo di base quando, con grandi sacrifici e l’impegno di tutti, mette in piedi una scuola superiore in un quartiere e, subito dopo, il governo crea nelle vicinanze un’altra scuola con migliori infrastrutture, corsi identici e arriva perfino a mettergli il nome di noti rivoluzionari? La risposta è che non lo sappiamo. Che ancora non abbiamo imparato a lavorare in quelli che sono stati i nostri territori e che adesso sono spazi invasi da legioni di lavoratori e lavoratrici sociali che fanno discorsi molto «progres» e, a volte, perfino radicali ma lavorano per los de arriba (quelli di sopra, ndt).
Lo zapatismo è uscito rafforzato da questa politica di assedio e annichilimento militare e «sociale», dove lo Stato si è impegnato a fondo a dividere attraverso gli «aiuti» materiali come componente aggiuntiva alle campagne militari e paramilitari. Per questo in molti e molte abbiamo accolto con enorme allegria la mobilitazione del giorno 21. Non che sospettassimo che gli zapatisti non esistessero più, cosa che solo quelli che si informano attraverso i media avrebbero potuto credere, ma perché abbiamo avuto la prova che è possibile attraversare l’inferno dell’aggressione militare sommata alle politiche sociali di contrainsurgencia (per riferirsi alla loro condizione, gli zapatisti hanno sempre usato la parola insurgentes, ndt). Conoscere, studiare, comprendere l’esperienza zapatista è più urgente che mai per noi che viviamo sotto il modello progressista.
È certo che il progressismo gioca un ruolo positivo rispetto alla dominazione yanqui (Usa, ndt) nel cercare una certa autonomia per uno sviluppo capitalista locale e regionale. Di fronte ai movimenti antisistemici, tuttavia, coloro che pretendono di seguire il percorso della socialdemocrazia non si differenziano in assoluto dai governi che li hanno preceduti. Dobbiamo comprendere questa dualità all’interno di uno stesso modello: la collisione progressista con gli interessi di Washington dentro la stessa logica di accumulazione per rapina. Si tratta, in senso stretto, di una disputa su chi debbano essere i beneficiari dello sfruttamento e dell’oppressione de los de abajo, una partita nella quale le borghesie locali e gli amministratori dei partiti di «sinistra» alleati con un certo sindacalismo imprenditoriale, reclamano parte del bottino.
Il percorso zapatista fornisce alcuni insegnamenti per noi, persone e movimenti che viviamo «assediati» dal progressismo.
In primo luogo, l’importanza dell’impegno militante, la fermezza dei valori e dei princìpi, il rifiuto di vendersi e di vacillare per quanto forte e poderoso appaia il nemico e per quanto isolati e deboli siano i movimenti antisistemici in un certo momento.
In secondo luogo, la necessità di persistere nel credere e pensare le cose oltre i risultati immediati, i supposti successi o disfatte momentanei, in contesti che spesso sono fabbricati dai media. Il solo modo per costruire con solidità e guardando al lungo periodo è persistere nella creazione di movimenti non istituzionalizzati né prigionieri dei tempi elettorali.
Il terzo è l’importanza di un modo differente del far politica, senza il quale non c’è nulla al di là di ciò che è mediatico, istituzionale o elettorale. Una intensa discussione attraversa non pochi movimenti sudamericani. Riguarda l’opportunità di partecipare alle elezioni o di istituzionalizzarsi in diverse forme come mezzo per evitare l’isolamento del lavoro territoriale e per entrare nella «vera» politica. Gli zapatisti ci mostrano altre forme della politica che non ruotano attorno all’occupazione delle istituzioni dello Stato e che consistono nel creare, in basso, modi di prendere le decisioni in forma collettiva e di produrre e riprodurre le nostre vite in base al principio di «comandare obbedendo». Questa cultura politica non è adatta a chi pretende di usare la gente comune come una scala per realizzare le proprie aspirazioni individuali. Per questo tanti politici ed intellettuali interni al sistema rifiutano quei nuovi modi, perché dovrebbero subordinarsi alle decisioni collettive.
Il quarto insegnamento riguarda l’autonomia come orizzonte strategico e come pratica quotidiana. Grazie al modo con il quale le comunità risolvono le proprie necessità, abbiamo appreso che l’autonomia non può essere solo una dichiarazione di intenti (per quanto preziosa essa possa essere) ma deve radicarsi nell’autonomia materiale, dal cibo alla salute fino all’educazione e al modo di prendere le decisioni, cioè di governarci.
Negli ultimi anni abbiamo visto esperienze ispirate dallo zapatismo al di fuori del Chiapas, perfino in alcune città. Non si tratta di una cultura politica valida solo per le comunità indigene di quello Stato messicano.
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