Oaxaca
La sera del 31 dicembre del 1993 mi
trovavo a San Cristobal, nel Chiapas, in Messico. Andai a dormire con
nelle orecchie il rumore dei mortaretti e dei fuochi d'artificio, fui
svegliato con il rumore dei passi di gente che correva nelle strade,
verso un unico punto: la piazza del paese.
Il primo gennaio del 1994 il NAFTA,
l'accordo di libero scambio tra Messico-Canada e Stati Uniti, era
entrato in vigore, il primo gennaio del 1994 migliaia di indigeni,
armi in pugno, appartenenti alle etnie Tzotzil,Tzeltal, Chol,
Tojolabal, Zoque e Mam occuparono cinque tra i comuni più importanti
del Chiapas: San Cristobal, Altamirano, Las Margaritas, Ococingo,
Oxchuc, Huixtan e Chanal.
I combattimenti durarono dodici giorni,
prima di arrivare ad una tregua concordata tra L'EZLN e il governo
messicano.
Di quel periodo ho ancora ricordi
vividi, le barricate per le strade, i gruppi di combattenti a
presidiare angoli e vie, il saccheggio della farmacia e le medicine
accatastate nella piazza a disposizione del popolo, il discorso di
Marcos, la sera del 1° Gennaio, da uno dei balconi del municipio
occupato. La dichiarazione di guerra, letta in un silenzio
incredibile, seguita da decine di pugni che stringevano armi volte al
cielo, slogan di resistenza e applausi dei tanti che osservavano e
ascoltavano in piazza.
Il Chiapas è uno degli stati più
ricchi di risorse del Messico e, tragicamente, uno dei più poveri.
E' situato in una zona che confina con
il Guatemala da una parte, con lo stato di Oaxaca verso il Pacifico e
lo Yucatan verso l'Atlantico.
Questa sua posizione significa
essenzialmente due cose:
1- è una zona di transito per le rotte
turistiche che si spostano dal Pacifico alla costa dello Yucatan, con
in più la ricchezza di una straordinaria natura che ne fanno uno dei
posti più belli del Messico. Questo lo rende una preda ambita dai
maggiori tour operator internazionali che, con la scusa del turismo
ecocompatibile, spingono per creare strutture e infrastrutture in
grado di accogliere le persone attirate da quei luoghi.
2- tra gli anni 80 e inizio anni 90 è
stato uno dei posti che ha offerto ospitalità ai tanti profughi
vittime della guerra civile che si combatteva nella zona del
triangolo Ixil e nel Peten in Guatemala.
Questo ha significato l'apertura di
rotte di transito transfrontaliere attraverso le quali sono passate
persone e armi.
Quando si esce da San Cristobal, in
direzione di Palenque ,si attraversa una zona in cui ci sono una
serie di grotte sotterranee. Nel 1993, in silenzio, quelle grotte
furono riempite di armi e persone che, all'alba del 1° Gennaio 1994,
si mossero e occuparono il posto in cui mi trovavo.
Oggi, finito il conflitto in Guatemala,
i posti di confine sono punto di passaggio di quanti, a partire da
Honduras e Salvador, attraversano il Chiapas per dirigersi a Nord
verso gli Stati Uniti.
Quel giorno quello che mi colpì era
l'immagine di una comunità coesa, scesa dai propri villaggi e
montagne per rivendicare quanto gli era stato negato: diritto alla
salute, in una zona in cui i tassi di mortalità infantile sono tra i
più tragici della America latina, diritto all'autonomia e alla
disponibilità a favore delle popolazioni locali delle risorse
naturali di quel territorio, diritto all'istruzione e lotta
all'emarginazione.
In un libro intervista stampato nel
1995 in poche parole Marcos descrisse bene la situazione umanitaria
in quelle zone:
“ Ogni anno tra la popolazione
indigena del Chiapas muoiono 15.000 persone. Una cifra che da sola,
ogni anno, eguaglia quella delle vittime della guerra in Salvador,
contando i caduti in una sola parte, e con la vergognosa aggravante
che la maggioranza muore di diarrea e infezioni intestinali.”
E sugli effetti del trattato
sull'economia delle varie comunità disse: “Come potremmo competere
con il contadino nordamericano o canadese se non possiamo competere
neppure con il coyote che ci distrugge il raccolto di caffè? Ci
distruggeranno dunque e senza rincorrere alle pallottole. Entrando
nel nuovo ordine mondiale, il paese deve tenere conto dei suoi
abitanti più poveri, non può abbandonarli a una condanna a morte”
La sollevazione zapatista del '94 è
stata il prologo di una serie di avvenimenti che hanno tutti un unico
denominatore: quello della ricerca di autonomia da parte di
popolazioni che combattono contro l'invadenza dei partiti politici,
senza alcuna distinzione, la corruzione e la violenza del
narcotraffico.
In più articoli racconterò alcuni
di questi fatti. La rivolta di Oaxaca nel 2006, quella di Cheran nel
2011, l'opposizione della comunità di Mitziton alla costruzione di
una strada, lo sviluppo delle lotte per la liberazione dei
prigionieri politici e altre storie di resistenza che sporadicamente
hanno trovato spazio sui media internazionali.
Prima di narrare queste vicende è
utile avere una idea di cosa significa il Messico in termini di
sviluppo economico e disuguaglianze.
1- la quota di popolazione in stato di
povertà è oggi pari al 41%, rispetto al 30% del 2000. (fonte Banca
Mondiale)
2- il Messico rimane «un Paese con
un’enorme diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza»,
dove solo il 14,6% della popolazione ha «un reddito che copra l’80%
delle sue necessità», cioè rientra nel profilo del ceto medio
stabilita dagli standard di Nazioni Unite e FMI. (fonte: Centro di
Analisi Multidisciplinare (CAM) dell’Università Nazionale Autonoma
del Messico )
3- La distribuzione della popolazione
indigena (circa 10 milioni di persone) è significativa,
concentrandosi nelle regioni più povere e conflittuali del Paese
(Chiapas, Oaxaca, Michoacan e Yucatan)
4- In un suo saggio del 2008 Navarrete
Linares scrisse «sebbene la Rivoluzione abbia cambiato le leggi
agrarie e restituito lentamente molte terre comunitarie, la
maggioranza delle comunità indigene non recuperarono la propria
autosufficienza e gli indigeni si videro obbligati a continuare a
lavorare in fondi, proprietà terriere e, sempre di più, nelle
città, per salari molto bassi», ma anche perché «infine, le
riforme economiche che si sono imposte nel nostro Paese negli ultimi
20 anni hanno colpito gli indigeni ancor più che il resto della
popolazione, riducendo i loro salari ed il loro benessere, benché
già fossero il settore più vulnerabile».
Partiamo adesso da ciò che accadde a
Oaxaca.
La storia della rivolta
di Oaxaca
Oaxaca
dista circa sei ore di viaggio da Città del Messico (il di-effe come
lo chiamano i messicani), con otto ore di pullman da lì si arriva a
Puerto Escondido, ce ne vogliono più di dodici per arrivare a Tuxtla
Gutierrez e da lì arrivare a san Cristobal de las Casas.
La
città è capitale dell'omonimo stato e si trova su un altopiano a
circa 1.500 m. di altitudine, conta su una popolazione di 300.000
abitanti ed è stata fondata nel 1532 da alcuni coloni al seguito di
Cortés.
L'architettura
coloniale ricorda quel periodo e la toponomastica della città è
caratterizzata da una serie di strade che conducono verso la piazza
principale (lo zocalo), che è anche il luogo di aggregazione e di
vita di chi vi abita.
L'ultima
volta che ho visitato Oaxaca è stato lo scorso anno, ad Aprile. In
quella piazza si passeggia tra bancarelle di venditori ambulanti, di
fianco a queste permangono le tende montate da quelli che vengono
definiti “los maestros” e che testimoniano il perdurare di una
lotta che va avanti tra alterne vicende dal 2006.
Su ogni
bancarella un manifesto di solidarietà alla lotta dei “maestri”.
Quando
mi sono avvicinato per chiedere come facevano a resistere da così
tanto tempo mi hanno risposto che “quella era la lotta di un
popolo, chi è dentro queste tende sono figli, mogli e compagni di
chi porta avanti rivendicazioni che non sono solo salariali, e che
riguardano un'intera comunità”
Questo
è il seme che rimane inestirpabile dell'esperienza della rivolta che
iniziò a Maggio del 2006.
In quel
periodo il governatore dello stato respinse con sufficienza ed
arroganza le richieste che arrivavano dal corpo insegnanti dello
stato, circa 70.000 lavoratori:
1-
aumenti salariali,
2-diritto
a mense gratuite, a libri e uniformi scolastiche per tutti gli
studenti.
La
reazione fu l'occupazione dello zocalo che divenne il fulcro delle
manifestazioni che si andarono sviluppando. Il 14 giugno la polizia
sgomberò la piazza, gli scontri furono violentissimi e il bilancio
segnò più di 140 feriti e nove arresti tra i manifestanti.
Un
mese dopo lo zocalo fu occupato di nuovo, il salto di qualità dei
manifestanti fu di riuscire ad intercettare una rabbia che andava al
di là delle semplici rivendicazioni sindacali, e che saldò vari
movimenti in un unico fronte di lotta che sommava un rancore profondo
nei confronti del ceto governante. Si manifestò una rabbia
saldamente radicata nelle comunità locali dello Stato, in tutti i
villaggi delle Valli Centrali, dove resistevano le antiche culture
preispaniche insieme alla rivendicazione all'autogoverno e alla
libertà culturale. In quel periodo almeno trenta paesi indigeni,
sull'onda della sollevazione contro il governatore Ruiz, rimossero i
sindaci locali del Pri sostituendoli con assemblee popolari.
L'espressione
politica di questo fronte auto organizzato fu la APPO ( Asamblea
Popular de
los Pueblos de Oaxaca ),
che fu la sintesi di 365 diversi movimenti sociali di lotta.
La
sfiducia nei confronti del potere politico colpì anche i vertici
sindacali. Il Messico è la patria del charrismo, termine col quale
si intende la pratica della corruzione sindacale, della costituzione
di organizzazioni fantoccio, e dei dirigenti comprati dal governo.
All'epoca
su una parete nella sede della Sección 22, la cellula sindacale da
cui si sviluppò il tutto, fu appeso un foglio di carta con i nomi di
una lista di traditori, sindacalisti o ex dirigenti accusati di aver
preso soldi e di essersi venduti. Il movimento oaxaqueño si
caratterizzò per il rifiuto nei confronti delle gerarchie, per
questo si autodefinì "senza leader e di base".
I
giornali che trattarono la vicenda accesero i riflettori su questa
organizzazione, così ne scrisse La Stampa:
“Centinaia
di organizzazioni politiche e sindacali si ritrovano sotto le
bandiere dell'Assemblea Popolare dei Popoli di Oaxaca. Tatiana Pérez,
una studentessa che la scorsa settimana ha preso parte al Congresso
costituente della APPO, ne racconta i colori: «Ogni popolo indigeno,
ogni organizzazione ha portato i propri vessilli, bandiere,
striscioni. Centinaia di entità hanno espresso 1.632 delegati, dei
quali oltre mille hanno parlato». Per il momento sono d'accordo su
quello che non vogliono più. «Il governo centrale -prosegue
Álvarez- ha commesso un grave errore a non trattare quando ancora
era possibile. Adesso si ritrova con un movimento monolitico nella
diversità, che configura una vera e propria unità nazionale
messicana contro il neoliberismo».”
Le
anime che si confrontarono nel movimento furono molteplici, una parte
spingeva per un'organizzazione che prendesse in considerazione anche
la necessità di rispondere militarmente alla repressione messa in
atto.
Un'altra
accentuò la necessità di tenere fede ad un obiettivo, che era
quello della costruzione di un movimento in grado di sapersi muovere
senza leader riconosciuti e inamovibili.
Nel
mezzo si lavorò per riscrivere la costituzione e darsi nuove regole
di convivenza civile. Si sperimentarono nuove forme di lavoro
collettivo, e si provò a formulare l'idea di una società che fosse
altro rispetto al modello neo-liberista.
In
quel periodo la rivolta fu spontanea, barricate vennero erette
ovunque, si organizzarono radio che dirigevano i partecipanti agli
scontri, si affinarono tecniche di resistenza per impedire la
circolazione ai blindati tra le vie della città. La pratica della
democrazia partecipata impose la necessità di estenuanti assemblee
alle quali furono sottoposte le decisioni che indirizzarono
politicamente il movimento.
Nell'ambito
di questi confronti la parte maggioritaria optò per una resistenza
pacifica, durante la quale il contributo di sangue fu drammatico.
La
reazione del governo messicano fu spietata, la città fu isolata dal
resto del mondo. L'aeroporto fu occupato dalle forze armate e un
ponte aereo rinforzò con oltre 4.000 effettivi la polizia già
presente sul territorio.
Il
risultato della repressione, che si sviluppò nell'arco di sei mesi
di scontri, durante i quali la città fu gestita da una sorta di
comune alla francese, lasciò sul terreno 26 morti e più di 300
feriti. Cinquecento persone furono arrestate e decine scomparvero nel
nulla.
Ma
quello che segnò il punto di svolta fu l'accettazione da parte del
governo di una serie di rivendicazioni di tipo sindacale che
frammentarono il fronte di lotta.
Insieme
a questo fatto la pratica corruttiva permise di delegittimare alcuni
tra i portavoce del movimento.
La
ricchezza di quel movimento è data dalla presenza, ancora oggi, di
un radicato fronte di opposizione. Dalla nascita di una coscienza
collettiva che mise assieme segmenti di società con obiettivi
diversi. Il sapere che nelle condizioni materiali di vita delle
classi subalterne c'è il punto nodale su cui lavorare per fare in
modo che una qualsiasi forma di opposizione, e resistenza, trovi le
modalità per unirle. Rimanderò alla conclusione di questa serie di
articoli quelli che, a mio modo di vedere, sono stati i punti critici
che hanno permesso al governo di reprimere il movimento di Oaxaca.
Voglio
terminare questo racconto di quella esperienza di lotta con
un'immagine che è quella di un ragazzino di nove anni con un
fazzoletto intorno al collo e una pietra nelle mani. C'è un
giornalista che affannato gli chiede “perché sei qui?”.
Lui
risponde “siamo qui per chiedere giustizia a nome di tutto il
popolo e per il popolo”
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